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Di
Alexandre Dumas
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Libro I – Capitolo II
Carlo
VII di Napoli ‑ Carlo III di Spagna.
Fu verso quest'epoca che il
re ebbe le sue prime contese colla Corte di Roma in quanto alla Chinea, ed
al tributo che l'accompagnava.
Nel numero dei doveri
imposti a Carlo d'Angiò dal Papa Urbano IV, allorchè fu investito del regno
delle due Sicilie, trovavasi il tributo, conosciuto quindi sotto il nome della Chinea
bianca.
I successori di Carlo
d'Angiò avevano subito questa legge dalla S. Sede dall'anno 1224 ‑ cioè,
durante 511 anni.
Abbiamo già detto come
Clemente XII avesse pregato Don Carlo di lasciar da parte la città di Roma,
permettendogli di traversare i suoi stati colla sua armata.
Abbiamo già detto come egli
avesse fatto ancora di più, come lo avesse secretamente assicurato della sua
simpatia.
Abbiamo già descritto, in
Carlo III, questo singolare miscuglio, di spirito religioso, e d'istinto
filosofico.
Il figlio di Filippo V non
poteva essere, se non mentendo a tutte le tradizioni della sua famiglia, che un
principe pio; egli amava le pratiche della religione, e come i principi della
prima e della seconda razza che cantavano al Leggio e servivano la Messa, egli
celebrava, in abito da Canonico, nella Chiesa di Bari, e più ancora, appena
giunta la Settimana Santa, colla cenere sul capo ed un sacco sulle spalle, egli
lavava i piedi ai poveri ed ai pellegrini, li serviva a tavola, e modellava
colle sue mani quei presepi di sughero che i fedeli usano esporre il giorno di
Natale in memoria della nascita di Cristo.
Più dunque per dovere che
per politica, il giovane principe arrivando a Napoli dopo la sua incoronazione
di Sicilia, il 29 Giugno, giorno di S. Pietro, si affrettò d'inviare al Papa il
Duca Sforza Cesarini, colla missione di presentare a Sua Santità la Chinea con
7155 scudi d'oro.
Il cerimoniale era indicato.
L'ambasciatore circondato da
un brillante corteo di truppe, di fanti in gran livrea e di vetture di gala.
conduceva la Chinea bianca magnificamente bardata, allo strepito delle
artiglierie del Castello S. Angelo, fino alla Chiesa di S. Pietro, ove il Papa
l'aspettava sopra un trono, vestito dei suoi abiti pontificali e la triplice
corona sul capo.
Nel mentre che la Chinea compariva
sulla porta, i preti coll'ajuto di due sbarre sollevavano il trono, lo
mettevano sulle loro spalle e lo trasportavano in tale modo fra tutti i
Cardinali, fra il mezzo della navata: durante questo brevissimo viaggio, due
camerieri ventilavano il papa con gran ventagli di penne di pavone.
Nel mentre che il papa si
avvicinava alla Chinea, la Chinea, alla sua volta entrando in
Chiesa si avanzava verso di lui: ‑ giunta in faccia al Santo Padre la
facevano inginocchiare in segno di vassallaggio, e mentre trovavasi in questa
posizione, l'Ambasciatore la offriva al Papa colla somma che recava.
Avvenne in quel giorno che
due Chinee, due ambasciatori e due cortei si presentarono alla porta
della Chiesa di S. Pietro.
L'una di queste Chinee, come
già lo dicemmo era condotta dal Duca Sforza Cesarini e veniva da parte del re
Carlo III.
L'altra era condotta dal
principe di Santa Croce e veniva da parte dell'Imperatore, il quale, quantunque
spogliato della Sicilia e di Napoli, non essendolo ancora legalmente dal
trattato di Vienna, si calcolava sempre re delle Due Sicilie.
La guerra continuava ancora
in Italia; la fortuna delle armi favorevole alla Francia ed al Principe
Spagnuolo poteva divenir loro contraria.
Accettare l'omaggio del re
di Napoli offerto per la prima volta era un dichiararsi contro l'impero.
Accettare l'omaggio
dell'imperatore che già si era ricevuto dopo il trattato d'Utrecht, era un
concordarsi ad una usanza adottata, e Clemente XII accettò la Chinea dell'Imperatore,
rifiutando quella del re di Napoli.
Si è a questo rifiuto
ch'egli tenne come un insulto, che bisogna attribuire l'opposizione fatta da
questo giorno da Carlo III alla corte di Roma e non è da stupirne ; mente
ristretta e ostinata egli cominciò allora col Papato una lotta, nella quale fu
vinto, poich'egli ebbe per iscopo il Concordato che fu l'abbassamento
dell'inquisizione e l'espulsione dei Gesuiti, la quale fece strada
all'educazione, alle scienze ed al progresso.
In quanto alla promessa che
il giovane principe aveva fatta prima di entrare in Napoli, cioè di non
ristabilirvi mai l'inquisizione, essa gli era stata ispirata o piuttosto
imposta dall'odio che i Napolitani avevano, per istinto, contro questo
Tribunale.
Ecco da che proveniva
quest'odio.
Sotto il regno
dell'Imperatore Carlo VI secondo figlio dell'Imperatore Leopoldo, lo stesso che
fu obbligato dopo la morte di Carlo II a cedere il trono di Spagna a Filippo V
e ne ottenne in ricambio la cessione di Napoli, de' Duchi di Milano e di
Mantova. della Sardegna e dei Paesi Bassi, un religioso ed una religiosa furono
tradotti davanti al Sant'Ufficio di Palermo.
Il monaco si chiamava Fra
Romualdo, ed era dell'Ordine di S. Agostino ‑ lo accusavano di Quietismo,
di Molinismo e di Eresia.
La monaca aveva per nome
Suor Geltrude ed era dell'Ordine di S. Benedetto ‑ l'accusavano di
vanità, di orgoglio, di temerità e d'ipocrisia.
Essi appartenevano entrambi
alla setta degli estatici che aveva preso in Francia tanto sviluppo durante il
XVII Secolo, e il cui modello fu S. Teresa ed i primi fautori furono S.
Francesco di Sales, la Baronessa di Chantal, Molinos, Madama Guyon e Maria
Alacoque.
Le religiose Visitandine
stabilite nel 1610 a Annecy aspettavano, come lo indica il loro nome, la visita
dello sposo, e si chiamavano le figlie del cuore di Gesù.
Madama Guyon era una giovine
e bella vedova di vent'anni ; seducente e piena d'eloquenza ella si era
stabilita a Parigi dal 1670 al 1680, e predicava la morte mistica e
l'annientamento nell'amore.
Molinos era un teologo
spagnuolo il quale stabilito a Roma vi fu lungamente direttore di coscienza
delle più belle Romane, ed ivi pubblicò nel 1675 il suo libro intitolato La Guida:
‑ 68 proposizioni tolte da questo libro furono condannate dal Papa
Innocenzo XI. L'autore gettato in una carcere, vi morì nel 1696.
Finalmente Maria Alacoque: ‑
questa donna totalmente sensuale, era una pingue Borgognona cui il sangue
tormentava e che si faceva salassare ogni mese : ogni mese ella aveva degli
accessi di follia che finivano coll'estasi. ‑ Un giorno ella confessò che
in una delle sue estasi, Gesù l'aveva visitata carnalmente: ‑ l'abbadessa
del suo convento, in vece di nascondere questo fatto, lo raccontò altamente e
formò un contratto di matrimonio fra Gesù e Maria Alacoque la quale si firmò
col proprio sangue; l'abbadessa firmò arditamente per Gesù col nome di Gesù, si
fecero delle pubbliche nozze, e di mese in mese la nuova S. Teresa venne
visitata dal suo Celeste Sposo.
Si comprenderà facilmente
come tutte queste eresie mistiche o sensuali dovessero ottenere un gran
successo sopra un principe come Luigi XIV che in quello stesso momento
accompagnava le sue tre favorite nella stessa carrozza.
Madamigella de Lavallière
che non lo era più: ‑Madama di Montespan che lo era tuttavia, ma di cui
egli cominciava a stancarsi, e Madama di Maintenon che tendeva a diventarlo.
In tal modo furono creati in
25 o 30 anni non solo in Francia, ma nel mondo 428 Conventi del Sacro Cuore.
I due poveri pazzi di
Palermo erano dunque addetti a questi felici pazzi di Francia ‑ Il monaco
era Molinista, la monaca era estatica: ‑egli pretendeva che Dio gli
mandasse i suoi angeli, diceva di conversare quotidianamente con essi e di
averne ricevuto il dono di profeta e d'infallibile : ‑ ella affermava di
mantenere con Dio un commercio spirituale e corporale, conservandosi pura e
santa, imperciocchè la Vergine Maria stessa l'aveva assicurata non esservi
peccato nell'abbandonarsi ai piaceri della carne.
Condotti in faccia ai
Teologi ed ai Giudici del Santo Ufficio, non fecero che ripetere le loro
stravaganze e sostenere le loro eresie.
La monaca fu condannata a
quindici anni di prigione, il monaco a diciotto.
Per quindici anni Suor
Geltrude, per diciotto Fra Romualdo erano stati in preda a tutte le torture cui
possono inventare per la maggior gloria di Dio immaginazioni religiose.
Finalmente, come nè l'una nè
l'altro aveva voluto confessare la sua eresia, l'inquisizione non trovandoli
bastantemente puniti coll'aver trascorso il terzo d'una vita umana in prigione
ed in mezzo ai supplizi del freddo, della sete, e della fame, aveva finito col
condannarli a morte.
Il Vescovo d'Albaracin che
risiedeva a Vienna e il grand'Inquisitore che risiedeva a Madrid confermarono
la sentenza, e Carlo VI il quale avrebbe dovuto cancellare tutte queste firme,
vi aggiunse invece la propria e ordinò che per ravvisare la fede questi due
infelici fossero giustiziati con tutta la pompa degli antichi Auto‑da‑fè.
Il 6 aprile dell'anno 1724
fu scelto pel giorno della esecuzione, la quale doveva aver luogo sulla più
grande e più popolosa piazza di Palermo. su quella di S. Erasmo. La mattina del
giorno stabilito fu piantata una gran Croce bianca in mezzo alla piazza, e dai
due lati della Croce s'innalzarono due roghi.
Ognuno di questi aveva 50
piedi di altezza ed era circondato da barriere; si ascendeva alla piatta‑forma
sormontata da un trave, per mezzo di gradini, ed intorno a questi due palchi
funebri erano stati preparati degli Altari e delle Tribune, gli altari per
chiamare la presenza di Dio a questo sacrificio umano, le tribune affinchè le
nobili Dame ed i nobili signori della Città potessero comodamente godere tutti
i dettagli del curioso spettacolo.
Oltre a ciò tutte le
finestre della piazza erano trasformate in loggie parate a festa con broccati e
stoffe preziose, e venivano prese in affitto da coloro che non avevano potuto
procurarsi il favore dei biglietti per le Tribune.
Un Siciliano, Antonio
Mongitore, gran partigiano del Sant'Ufficio, come d'altronde doveva esserlo un
canonico della Cattedrale, che ha esposto in tutti i suoi particolari la
terribile esecuzione, citando i nomi dei principali spettatori.
Ai primi raggi del giorno le
campane cominciarono a suonare festosamente pel trionfo che stava per ottenere
la religione.
Le processioni
ecclesiastiche e le confraternite di Penitenza si misero quindi in marcia da
tutti i punti della Città per giungere insieme alla piazza di S. Erasmo.
Una tribuna particolare,
riccamente coperta di velluto, di pennoncelli d'oro e di seta, fregiata degli
emblemi della Religione attendeva gli Inquisitori.
Il vicerè di Sicilia, Duca
di Monteleone, l'Arcivescovo ed i Magistrati, presero verso undici ore i loro
posti nelle tribune riservate.
Fin dal mattino la piazza
era gremita di popolo e le finestre riboccavano di spettatori.
Solo gli sfortunati attori
mancavano, il pubblico era riunito ed aspettava.
Come l'infame spettacolo non
doveva principiare che a tre ore, verso le due, vennero apparecchiate delle
tavole nelle tribune e sontuosamente servite da lacchè in grande livrea, si
fecero dei brindisi alla religione, alla sovranità, all'estinzione dell'eresia,
si corrispose con parole e con saluti dalle tribune al palco del Vicerè e del
Senato, e la platea e gli spettatori dalle finestre che figuravano i palchi,
battevano le mani e gridavano: Bravo.
Ove si trovassero tali cose
scritte sotto punto di vista del biasimo e non della lode, si crederebbe
leggere il sogno di qualche mente ammalata e melanconica la quale avesse voluto
mettere in odio un re, dei giudici, dei magistrati, e dei Nobili ch'essa
abborriva: ‑ ma come tutto ciò non è che una lode del misericordioso
tribunale, bisogna crederlo.
A tre ore finalmente, molte
grida di gioia annunziarono l'arrivo della prima vittima.
Era la sfortunata Suor
Geltrude, condotta sopra un carro e ricoperta dei cenci che da quindici anni
ella portava nella sua prigione: ‑ come per mescere un po' di ridicolo al
terribile, qualora il ridicolo avesse potuto trovar posto in un tale
spettacolo, ella era adornata da una cuffia di carta sulla quale il suo nome
era scritto in fiamme dipinte.
Il carro era guidato da buoi
neri, e preceduto da monaci di tutti gli ordini scortati dai primi Signori di
Palerno, i quali caracollavano sopra magnifici cavalli ai due lati delle ruote,
e seguiti da tre inquisitori, vestiti di bianco e montati su delle mule bianche
in segno della purezza dei loro cuori e dell'inalterabilità della loro fede.
Giunta ai piedi del palco,
la paziente onde subire un nuovo interrogatorio, e nuovi tentativi di
conversione fu consegnata ai Teologi, chiamati a provare la sua caparbietà in
articulo mortis.
I tre inquisitori salirono
nella splendida tribuna che loro era riserbata in mezzo alla piazza e che sola
fino a quel momento era rimasta vuota.
Altre grida e movimenti di
curiosità verso il punto opposto della piazza, annunziarono l'arrivo del
secondo corteo.
Desso era totalmente simile
al primo ; il Cerimoniale era lo stesso ‑ il monaco fu a sua volta
consegnato ai Teologi, ed i tre inquisitori vestiti di bianco, discesero dai
loro muli, andarono in mezzo agli applausi d'una impazienza che era alla fine
per essere soddisfatta. e raggiunsero i colleghi nella tribuna ecclesiastica.
Malgrado le ipocrite istanze
dei Teologi, i colpevoli stettero fermi nell'impenitenza: questa ostinazione fu
proclamata altamente con segni d'orrore e di compassione, quindi la sentenza
che condannava gli eretici fu letta al alta voce.
Gli spettatori vi compresero
poco, perché era scritto in latino.
Tutti i preliminari
terminati, il supplizio cominciò.
Suor Geltrude fu la prima a salire
sul patibolo, condotta da due monaci i quali non avendo voluto cedere al
carnefice la causa di Dio, si facevano esecutori.
Essi legarono la paziente al
palco, e colle loro mani consacrate per benedire e per assolvere, diedero fuoco
ai capegli di Suor Geltrude, intonacati di essenze resinose.
Un'aureola di fiamme avvolse
all'istante la fronte dell'eretica, il cui delitto era d'aver amato Dio d'un
amore umano.
Il fuoco fu quindi appiccato
alla sua veste intonacata pure di resina, e tutto il corpo si contorse
infiammato nelle convulsioni del dolore.
Dopo ciò i monaci discesero
precipitosamente e gettarono le loro torcie sul rogo il quale prese fuoco a sua
volta. e sprofondò insieme alla paziente ed al trave al quale era stata legata.
Allora s'intesero solamente
delle grida sorde e soffocate, e più non si distinse che un denso fumo unito a
qualche scintilla sfuggente da fori praticati sul coperchio, come dalla bocca
di un vulcano.
Cominciò quindi l'esecuzione
di fra Romualdo, il quale dall'alto del suo patibolo aveva assistito al
supplizio della sua compagna, e morì nella stessa morte di lei.
Ventisei prigionieri del
Sant'Ufficio, incatenati, e circondati di guardie, assistevano alla terribile
esecuzione e misuravano col pensiero l'orrore dei supplizi a loro riserbati se
non davano alla chiesa il trionfo del loro pentimento.
Contro ogni aspettativa però, questo sontuoso Auto‑ ottenne il risultato opposto a quello che tanto si desiderava, i lunghi e cupi ricordi ch'esso lasciò nel popolo, fecero prendere in ira questi giudici spagnuoli, questi magistrati alemanni i quali davano ad un popolo conquistato, in ricambio della libertà, lo spettacolo de' suoi concittadini bruciati a lento fuoco : ‑ questo terrore dell'inquisizione passò dalla Sicilia a Napoli, ove si mutò in odio, ed in odio cotanto profondo che, come già lo dicemmo, una delle prime obbligazioni imposte a Carlo III nell'ascendere il trono, fu di non mai ristabilire sotto alcun pretesto l'odioso tribunale della Inquisizione.
Tutte queste dissensioni
mantenevano fra Napoli e Roma, fra il Re ed il Papa una continua discordia
divisa anche dai sudditi, e poco mancò non avvenisse un conflitto fra i due
stati verso questa istessa epoca.
Sia gelosia di popolo a popolo,
sia istigazione superiore, vari ufficiali spagnuoli e napolitani mandati da
Carlo III per far delle reclute, vennero insultati nelle vie di Roma ed
obligati a fuggire a Velletri ove trovavansi molti ufficiali napolitani e
spagnuoli.
Ma lo stesso spirito
d'ostilità si manifestò a Velletri, e bentosto l'esasperazione fu tale nelle
due città, che si perseguitavano nelle strade di Roma con grida di morte, tutti
quanti trovavansi sudditi o impiegati del re di Napoli.
Cinque Porte di Roma furono
chiuse, le vie fortificate, e la milizia cittadina armata.
Dal canto loro i soldati
napolitani e spagnuoli, scacciati in principio da Velletri, ritornarono a viva
forza sulla città, se ne impadronirono, uccisero vari abitanti, ne
imprigionarono altri, disarmarono il resto, e condannarono la popolazione ad
una tassa di quaranta mila scudi, come avrebbero fatto per una città nemica e
presa d'assalto.
Di là bruciano e
saccheggiano Ostia, povera città che al tempo dell'antica Roma contava 40.000
abitanti, e spopolata in oggi dal dispotismo, dalla miseria e dalla febbre non
conta più che qualche capanna ‑ da Ostia ritornano su Palestrina, le
minacciano l'istessa sorte di Ostia, se non paga 16.000 scudi, e arricchiti da
queste due imposte, escono vittoriosi dagli stati romani dietro un ordine del
Re, recando con esso loro i fatti prigionieri e le armi rapite.
Il momento parve favorevole
a Tanucci, per principiare la serie di riforme ecclesiastiche ch'egli sognava
dappoichè egli era al potere e che altro non era se non che la continuazione
dell'opera cominciata a Pisa: lo abate Genovesi fu incaricato di fare uno stato
delle ricchezze possedute da questa classe dello Stato votata alla povertà che
si chiama il Clero: ‑ dal canto suo la città indirizzò una supplica al
re, nella quale lo invitava a sottomettere i beni e le persone dei preti alle
spese generali dello Stato e a convertire in oro ed argento coniato tutto
quanto possedessro, in lusso d'oro e d'argento.
Il risultato di queste
istigazioni fu che il re Carlo III mandò a Roma l'abate Galiani, il quale aveva
fama di essere l'uomo più spiritoso di Napoli, con missione di esporre
umilmente a Sua Santità i desideri del re.
Questi desideri erano vere
pretese ‑ noi le esporremo fra poco, volendo prima dar qualche cenno
sull'uomo scelto per farle valere.
L'abate Galiani, quantunque
prete, disprezzava fortemente gli addetti alla Chiesa : ‑ egli stesso
racconta da qual fonte gli venne questo disprezzo, e noi lascieremo a lui
l'incarico di ripetere l'aneddoto seguente[*1] :
« Nella mia giovinezza mi
chiamavano il piccolo Ferdinando: ‑ un vescovo, amico di mio padre, gli
disse un giorno: lo farei volentieri
una passeggiata col mio piccolo Ferdinando: ‑ mio padre incantato
dall'onore che voleva disse ‑ va Figliuolo mio, segui questo degno
pastore, egli ti guiderà nel sentiero della virtù.
« Obbedii: e Monsignore dopo
un preambolo assai lusinghiero, mi dichiarò di aver concepito per me la più
ardente passione.
« I suoi gesti aumentavano
l'energia del suo discorso. lo aveva allora 17 anni, età molto scabrosa
allorchè la natura ci ha dotati di una figura avvenente; ma a questa età io era
assai brutto, e non poteva conce pire la possibilità d'un ardore così vivo.
« Monsignore, risposi tutto
umilmente, la passione di vostra Grandezza, parmi oltrepassare i limiti del
possibile; e il mio amor proprio ne sarebbe altrettanto più lusingato in quanto
che ciò darebbe una mentita agli specchi, sui quali oso appena alzar gli occhi:
« Cosa vi ha dunque in me da poterla far nascere?
« Te lo dirò subito, mio
piccolo Ferdinando ‑ non è la
bellezza corporale, quella che mi lega a te ma sibbene il tuo spirito, la tua
vivacità, il tuo brio, e le cognizioni
finalmente che già acquistasti in una età così vicina all'infanzia.
« Ecco a che mi aveva
giovato ‑ aggiunge Galiani, la
lettura di Virgilio, d'Omero, di Demostene, d'Orazio e di Cicerone !
Ma ciò che più servì al
detto scolaro furono due eccellenti gambe coll'ajuto delle quali egli corse da
suo padre e gli dichiarò non voler mai più recarsi a passeggio da solo a solo
con un vescovo.
Galiani di cui non dovremo
forse probabilmente più profferire il nome, e che lasciò un ricordo popolare a
Napoli, rimase lungamente a Parigi quale Legato del re Ferdinando I.°
Gli era un felice carattere
cui i propri amici non videro mai cupo un momento ‑ la morte stessa non
valse a rattristarlo.
Due giorni prima di rendere
l'anima a Dio, sapendo di non aver più che poche ore da vivere, egli chiamò il
suo maggiordomo e lo richiese d'un vecchio cavallo ch'egli nutriva ozioso già
da gran tempo nelle sue scuderie.
Il maggiordomo rispose
d'averlo venduto la stessa mattina.
Il cielo ne sia lodato!
soggiunse il moribondo, voltandosi verso i suoi amici nel numero dei quali
trovavasi il famoso Dottor Gatti, il quale abbastanza ricco per aver una
carrozza propria, non saliva mai che in quella degli altri, ‑ ma sapete
voi qual sia il motivo che mi cagiona cotanta gioia ?
Quello, io suppongo, d'aver
ceduto vantaggiosamente un cavallo che voi eravate obligato di mantenere
ozioso.
‑ Non è per questo: ‑
Il povero animale m'incomodava nelle mie disposizioni testamentarie: io non
sapeva se doveva essere posto fra i miei mobili o fra le mie bestie ‑ ei
si muoveva troppo per un mobile e nulla per un animale; ciò avrebbe fatto
sorgere delle contese fra i miei eredi, e non avendoli in alcun modo incomodati
nel corso della mia vita, noia vorrei che ciò avvenisse dopo la mia morte.
La sera che precedette la
sua morte ‑ lo stesso Dottore Gatti entrò nella sua camera dicendogli:
Vedete, mio caro malato,
quanto vi sono affezionato. L'ambasciatrice di Francia m'ha offerto un posto
nel suo palco all'opera, ed io ho rifiutato preferendo la vostra compagnia.
Ed aspettate che io ve ne
ringrazi? disse il moribondo.
‑ Senza dubbio ‑
ciò vi prova la mia affezione.
‑ Mio caro Dottore,
rispose il morente, ciò prova che i lazzi d'Arlecchino vi divertono più che i
concetti dell'opera, e che voi cercate qui l'ultimo passatempo che io posso
fornirvi, poichè siete troppo bravo in medicina per non conoscere che domani
sarebbe troppo tardi.
Un quarto d'ora prima della
sua morte. gli fu annunziata la visita del generale Acton, il quale a
quell'epoca, 1787, era all'apogeo dell'impopolarità, e la sua disgrazia era
attesa da un momento all'altro.
Dite al generale, rispose il
moribondo ch'io non posso riceverlo poichè la vettura che deve condurmi via è
pronta, ‑ ma se vuole un mio consiglio non perda un istante a far
attaccare i cavalli alla sua.
E ciò detto, spirò.
Le pretese che Monsignor
Galiani era stato incaricato di esporre al papa dalla parte del re, avevano
soprattutto rapporto a quella grande questione delle investiture, tanto
combattuta fra Gregorio VII e l'Imperatore Enrico IV, e che si rischiarò quindi
alquanto in profitto della Sovranità.
Il Re domandava dunque di
nominare ai vescovati, e ai benefizi de' suoi stati.
D'avere il diritto di dare
una esclusione nei conclavi.
Di ridurre il numero dei
conventi di religiosi e di religiose.
Di mettere limiti agli
acquisti del Clero.
Di accordare delle libertà
ai beni di mano morta.
E finalmente di abolire la
giurisdizione del nunzio.
Queste domande furono
esposte al papa da Monsignor Galiani, ma Sua Santità non volendo decidere sopra
questioni di tanta importanza si riferì ad un consiglio di Cardinali, il quale
le rifiutò dalla prima fino all'ultima.
Ma l'ambasciatore napolitano
insistette.
Clemente XII chiese tempo a
riflettere, e in prova della sua buona volontà offerse, in attesa, di
riconoscere Carlo III come re delle Due Sicilie, cosa che aveva sempre
rifiutata.
Oltre a ciò, egli offerse un
cappello cardinalizio all'infante Don Luigi.
Al dispaccio di Galiani che
annunziava questa doppia concessione, il Re rispose:
‑ Prendiamo sempre ‑
vedremo più tardi in quanto al resto.
Si lasciò dunque il resto in
sospeso, si richiamò Galiani, il quale ricevette grandi elogi per la maniera
con cui condusse un tale affare, l'investitura del Regno fu fissata al 12
maggio 1738, e Monsignor Simonetti, ritornò in Napoli al suo posto di Nunzio
Ordinario.
Durante la discussione egli era sempre rimasto a Nola.
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