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Di
Alexandre Dumas
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Ferdinado IV° o I°. CAPITOLO I.
Un
proverbio dice:
Felici
quei popoli di cui la storia è noiosa. Noi dobbiamo confessarlo, quella del
regno di Carlo III, manca di movimento, d'impreveduto, di pittoresco e di
poesia, e per conseguenza alletta poco, ma il popolo è felice.
Sotto
Ferdinando le cose cangiano d'aspetto ‑ I lettori non si lagneranno della uniformità, nè i popoli della
quiete, e della felicità.
Carlo
III lasciando il trono di Napoli sapeva ben d'abbandonar imperfetta l'opera sua
e la sua riforma incompiuta, perlocchè lasciò a suo figlio, o per dir meglio al
suo popolo, Tanucci, quell'altro se stesso, per continuare quel ch'egli avea
cominciato.
Pria della partenza del re erasi pensato dare
un governatore al giovine principe ‑ Gorani pretende che questa cura fu
lasciata a sua madre, Maria Amalia, e che questa principessa di una sordida
avarizia, mise a prezzo quella carica. Sempre secondo Gorani, essa venne
comprata dal principe di San Nicandro, uno degli uomini più inetti alla corte
di Napoli ‑ Forse anche questa scelta fu il risultato d'un sentimento
egoista, nato nello spirito del ministro toscano, il quale pensava, che più
l'erede della corona sarebbe ignorante, più necessaria diverrebbe la sua lunga
sperienza, e la sua influenza si aumenterebbe a causa della poca propensione,
che s'ispirerebbe
al giovine principe, pei pubblici affari ‑ Un gesuita tedesco insegnava
al re la lingua francese, ch'egli non imparò mai, e come non si giudicò a
proposito d'imparargli l'italiano, egli non parlava, all'epoca del suo
matrimonio, se nonchè il linguaggio dei lazzaroni ch'egli imparò dai fanciulli
del popolo. ai quali permettevasi di avvicinarlo per suo divagamento ‑
All'epoca del suo matrimonio soltanto, Maria Carolina lo fece arrossire della
sua ignoranza, ed egli apprese un poco l'Italiano, ma senza spingerne lo studio
fino a scrivere senza errori di ortografia. Sessanta lettere scritte dal re,
che noi abbiamo ora sott'occhio, fan fede di quanto diciamo.
Un giorno il principe di San
Nicandro, trovò tra le mani del suo allievo, le memorie di Sully, che quegli
cercava d'interpretrare ‑ Il libro fugli immediatamente tolto, e l'onesto
imprudente che aveagli rimesso quel cattivo libro fu severamente sgridato.
Gorani pretende che il
primogenito di Carlo III il povero piccolo Filippo, nato nel 1747 e morto nel 1772
era divenuto imbecille in seguito dei cattivi trattamenti usatigli dalla madre.
Colletta dice invece che la
principessa Maria Amalia era pia e buona, ma potrebbe ben egli essersi
ingannato sul morale della regina, come egli si è ingannato sul fisico del re.
Uniforme però è l'opinione
pubblica sul professore del giovine Ferdinando, il principe di San Nicandro
uomo di onesti costumi[*1], ma ignorante, il quale non
occupavasi nè di letteratura nè di scienza, e pensava solo a piacere al suo
real discepolo. Tanucci gli avea d'altronde raccomandato di non educare troppo
profondamente lo spirito del giovine principe, perchè, diceva egli, il sovrano
d'un piccolo stato, non dovea fare altro che assaporare tranquillamente le
delizie del potere in una felice mediocrità d'intelligenza.
Per farsi rimpiangere più
lungamente, dice Orloff, e per rendere il ministero di lui sempre necessario,
il re partendo confidò l'educazione del giovine principe al meno istruito dei
grandi della sua corte, al principe di San Nicandro, che lo fece educare nella
più grossa ignoranza ‑ Più d'una volta egli se ne è pentito, ed appena
adolescente fu inteso rimproverare al suo indegno governatore di non avergli
dato istruzione di sorta.
S. Nicandro dice finalmente
Gorani, il quale nei suoi due viaggi a Napoli nel 1788 e 1789 avea
personalmente conosciuto il re Ferdinando, San Nicandro avea l'anima più impura
che abbia mai vegetato nel fango di Napoli:
in preda ai vizi più vergognosi, non avendo letto altro libro fuor
dell'Ufficio della Vergine, per la quale, egli avea una particolar divozione,
ciò che non gl'impediva d'insozzarsi negli stravizi e nella crapula.
Noi ci dilunghiamo su questa
prima educazione data al re di Napoli per non fargli più grande, di quel ch'è
giusto, la responsabilità degli atti terribili, che vedremo compiersi sotto il
suo regno.
Ben stabilito questo primo
punto di storica imparzialità. vediamo quale fu questa educazione.
Non bastava alla coscienza
del principe di San Nicandro la convinzione, che nulla sapendo, nulla poteva
insegnare al suo allievo; onde mantenerlo in un'eterna fanciullezza, nello
sviluppare, mercè violenti esercizi, le qualità di cui avealo dotato la natura,
egli allontanò da lui individui, libri, tutto insomma ciò che poteva
menomamente illuminarne lo spirito.
Il re Carlo III, lo abbiam già
detto, era come Neumvrod, un gran Cacciatore innanzi a Dio, il principe di San
Nicandro fece ogni sforzo affinchè Ferdinando, sotto questo rapporto almeno,
seguisse il sentiero paterno. Egli rimise in vigore tutte le tiranniche
ordinanze sulla caccia, cadute in disuso anche sotto Carlo III ‑ I
cacciatori di contrabbando furono puniti con la prigionia. coi ferri, ed anche
con la corda. Si ripopolarono le foreste reali di grosso selvaggiume, le
guardie furono moltiplicate, e per tema che la caccia, faticoso piacere, non
gli lasciasse a lungo la stanchezza, ch'essa cagiona, e che in quel tempo
voglia gli venisse di studiare, gli si diede il gusto della pesca, piacere
tranquillo e da cittadino, che potea riposarlo dal violento e reale piacere
della caccia.
Egli era inoltre dolce e
buono, due qualità, di cui secondo il principe di San Nicandro, non si può nè
presto nè completamente abbastanza correggere i principi destinati a regnare.
Ecco come San Nicandro si
applicò per torgli questo doppio difetto. Egli sapeva che suo fratello
primogenito, il principe delle Asturie, che dopo Carlo III regnò sotto il nome di Carlo IV, trovava un
estremo piacere a scorticare conigli ‑ Egli volle ispirare il gusto di
ucciderli al suo allievo. Per dare vezzo a questo ricreamento, e non potendo
porre un fucile nelle mani d'un fanciullo di 8 a 9 anni, si riunivano gran
quantità di conigli, e cacciandoseli d'avanti, si obbligavano a passare per una
stretta apertura, dove il giovine re stava in agguato con un bastone, e li
accoppava al passaggio.
Un altro piacere, al quale
Ferdinando prese un interesse altrettanto vivo, fu di abballottare qualche animale.
Per disgrazia un giorno il giovine principe ebbe l'imprudenza di prendersela,
con uno dei cani di caccia di suo padre, cosa che valse una severa mercuriale,
e la proibizione assoluta di attaccarsi per l'avvenire ad uno di quei nobili
quadrupedi.
Il re Carlo III partito, il
principe di San Nicandro non trovò sconveniente di far sì che il giovine re
riconquistasse la libertà perduta, e giunse a permettergli ch'egli estendesse
fin sugli uomini quel divertimento, di modo che un giorno che egli giocava al
pallone, vedendo fra coloro che prendevano piacere a guardarlo un giovinetto
magro, incipriato e rivestito dell'abito ecclesiastico, fantasia vennegli d'un
tratto di abballottarlo Disse allora una parola all'orecchio d'uno dei suoi
compagni di gioco, che corse al palazzo per prendere delle coverte.
Quando queste giunsero, il
re e tre giocatori staccaronsi, fecero prendere il giovine da alcuni domestici,
lo fecero coricare sopra la coverta, ch'essi tenevano pei quattro angoli e ne
lo fecero saltare, fra le risa degli assistenti e gli schiamazzi del
canagliume.
Quegli al quale questo
insulto venne fatto, era un nobile Fiorentino a nome Mazzigni ‑ La
vergogna che provonne fu tanto grande, che lasciò Napoli il giorno medesimo, e
fuggissene a Roma ove infermò e morì pochi giorni dopo.
Colletta che racconta questa
avventura aggiunge che la Corte di Toscana lagnossene ai Gabinetti di Madrid e
di Napoli, ma la cosa era ben poco importante perchè le si rendesse ragione dal
padre del colpevole, e soprattutto dal colpevole medesimo.
Si comprende che abbandonato completamente a simili ricreamenti, la
società delle persone istruite annoiò il re finchè fu bimbo, e fecegli rossore
quando diventò adulto: onde egli passava tutto il suo tempo sia alla caccia,
sia alla pesca, sia a far fare esercizi co' fanciulli dell'età sua, ch'egli
riuniva nel cortile del castello, e che egli armava di manichi di granate;
nominando i suoi cortigiani, sergenti, luogotenenti, capitani, e battendo con
la sua frusta quelli fra loro che facevano fare false manovre, o che
comandavano male. Ma i colpi di frusta erano favori, e coloro che la sera
aveano ricevuto maggior numero di colpi, erano quelli che si credevano più
innanzi nelle buone grazie di sua maestà.
Malgrado questo difetto di
educazione, il re conservò un certo buon senso, che, quando non lo si
influenzava, guidavalo al giusto ed al vero. Non sapendo leggere poichè fu sua
moglie Carolina, che ve lo abituò, ed a causa di questo servigio, nei suoi
momenti di buon umore. rendendo giustizia alla regina, che non gliene lasciò
mai molti, non soleva chiamarla che mia cara maestra; non sapendo leggere.
diciamo non ricusava mai nè impieghi nè favori a coloro che gli si assicurava
esser commendevoli per le loro conoscenze. Parlando il linguaggio de'
lazzaroni, egli non era insensibile alla buona lingua. Un giorno un monaco
chiamato il padre Fosco perseguitato dai suoi compagni di convento, per saperne
più di loro, e per esser migliore oratore di tutti gli altri, gettossi ai suoi
piedi e narrogli quanto i suoi confratelli faceangli soffrire. Il re colpito dalla
eleganza della sua parola e dalla forza del suo ragionamento. lo fece a lungo
parlare e quindi gli disse:
‑ Lasciatemi il vostro
nome e rientrate nel vostro convento: v'impegno la mia parola che il primo
vescovado vacante vi apparterrà.
Il monaco ritirossi poco
rassicurato, credendo che il re avesse voluto burlarsi di lui.
Il primo vescovado che fu
disponibile fu quello di Monopoli, in terra di Bari, sull'Adriatico.
Secondo il solito il gran
Cappellano presentò al re tre candidati, appartenenti tutti a cospicue
famiglie.
Ma il re scuotendo il capo:
Perdinci, disse, dacchè voi
siete incaricato delle presentazioni, mi avete fatto no‑minare asini
abbastanza. Voglio fare oggi un vescovo a modo mio, e spero che varrà più di
tutto coloro che voi m'avete messo sulla coscienza, e per la nomina de' quali,
prego Dio e San Gennaro di volermi perdonare.
E cancellando i tre nomi,
scrisse quello del Fosco.
Questi, come avealo detto il
re, fu uno dei vescovi più rimarchevoli del regno, e come un giorno, qualcuno
che avealo inteso predicare. faceva complimento al re non solo della eloquenza
ma anche della esemplare condotta di lui.
‑ Li sceglierei sempre
così, rispose Ferdinando, ma finora ho conosciuto un sol uomo di merito fra gli
ecclesiastici; il gran Cappellano non mi propone che asini per farne miei
vescovi ‑ Che volete ! il poveraccio conosce solo i suoi fratelli di
scuderia.
Ferdinando avea alle volte
una bonomia di carattere che ricordava Enrico IV. Un giorno ch'egli passeggiava
nel piano di Caserta, indossando l'abito militare, una donna gli si avvicina e
gli dice:
‑ Mi hanno assicurato,
signore, che il re passeggia spesso in questo viale, potete dirmi se ho
probabilità d'incontrarlo oggi.
‑ Mia buona donna. non
posso dirvi quando il re passerà, ma se avete qualche domanda a fargli, posso
incaricarmi di trasmettergliela.
Ecco, disse la donna, di che
trattasi. lo ho una lite, e siccome, essendo una povera vedova, io non ho
denaro da dare al relatore, egli la fa andare a lungo da tre anni.
‑ Avete portato una
domanda? chiesele il re.
‑ Sì signore, eccola.
‑ Datemela, e
ritornate all'ora medesima, io ve la renderò postillata dal re.
‑ lo non ho che tre
galli d'India ben grossi, disse la vedova, se fate quanto mi dite, ve li darò.
‑ Venite qui domani
coi vostri galli d'India, buona donna, ed avrete la vostra domanda postillata.
La vedova fu esatta al
convenio, ma non piú esatta del re. Egli teneva la domanda, la donna recava i
tre galli d'India, ed il cambio fu fatto. Mentre il re si assicurava se i polli
erano veramente ben nudriti, la vedova apriva la domanda. Entrambi aveano
mantenuto la loro promessa.
Ebbene, diss'egli entrando
nella camera della regina con i tre animali in mano, voi che mi dite sempre non
essere io buono a nulla. vedete che so guadagnare il mio pane; ecco tre polli
d'India che m'han dato per una firma, voglio che li mangiamo domani.
In effetto i tre animali
furono serviti e mangiati l'indomani alla tavola reale.
Ma avvenne che la
raccomandazione del re non produsse nessuno effetto sul relatore e che la lite
andò come pel passato.
La vedova tornò al palazzo,
e siccome non sapeva il nome della persona che avea incontrata nel Parco, ella
chiese di colui al quale avea dato i tre galli d'India.
L'avventura avea fatto
rumore: si prevenne il re che la sollecitatrice era colà.
Egli fecela entrare.
‑ Ebbene, mia buona
donna, le diss'egli, voi venite ora che la vostra lite è decisa.
‑ Sì davvero,
diss'ella, bisogna che il re abbia poco credito, perchè quando ho consegnato la
domanda al relatore egli mi ha detto :
‑ Sta bene, sta bene,
il re ha fretta ; farà come gli altri, aspetterà. Così, aggiunse ella, se avete
coscienza mi renderete le mie bestie, o almeno me le pagherete.
‑ Con la miglior
volontà del mondo, disse Ferdinando ridendo. io non potrei rendervele, ma posso
pagarvele.
E prendendo nelle sue tasche
quante monete d'oro eranvi, gliele diede.
‑ Circa al vostro
relatore, aggiunse egli, noi siamo al 25 di marzo, ebbene, vedrete che alla
prima udienza d'aprile il vostro affare sarà giudicato.
Infatti quando alla fine del
mese il relatore presentossi a riscuotere i suoi emolumenti, il tesoriere
dissegli da parte del re.
‑ Ordine di S. M., di
pagarvi sol quando la lite, ch'egli vi ha fatto l'onore di raccomandarvi, sarà
giudicata.
Come Ferdinando avealo
preveduto la faccenda fu terminata alle prime udienze.
Non è il solo fatto di
questo genere che può darci un'idea del carattere di Ferdinando.
Un giorno ch'egli era a
caccia nella foresta, con un abito simile a quello delle sue guardie, una
povera donna incontrollo, e siccome essa sembrava oltremodo afflitta, il re le
rivolse pel primo la parola, domandandole cosa avesse.
La donna gli rispose piangendo,
ch'era vedova, che aveva sette figli, e che il solo piccolo campo che possedeva
era stato devastato dai cani e dai bracchieri del re.
Poi con un movimento di
spalle.
‑ E’ duro, davvero,
aggiunse ella, d'aver per sovrano un uomo che non esita per un'ora di piacere,
a rovinare una povera donna: perchè questo balordo è venuto a devastare il mio
campo?
‑ Ciò che dite è
troppo giusto, rispose Ferdinando, e siccome io sono al servizio del re, gli
recherò i vostri reclami, sopprimendo però le ingiurie con le quali li
accompagnate.
‑ Oh! di' pure quel
che vuoi, replicò la vecchia, ciò mi è indifferente: perchè io non ho da sperar
nulla da un burliero simile, ed egli non può farmi ora un male maggiore di
quello fattomi.
Il re volle vedere il campo,
ella ve lo condusse. La raccolta infatti calpestata dai cavalli e dai cani era
completamente perduta.
Scorgendo allora due
contadini egli chiamolli, e disse loro di apprezzare il guasto, che la vedova
poteva aver ricevuto.
La valuta giunse a 20
ducati.
Il Re frugò nelle sue tasche
e ne rinvenne 60.
‑ Ecco, diss'egli, 20
ducati per voi come arbitro, gli altri quaranta sono per questa donna ‑
Bisogna che i re paghino almeno il doppio dei semplici privati.
Un'altra volta una povera
donna, il cui marito era stato condannato a morte, dietro consiglio
dell'avvocato parte da Aversa e giunge a piedi a Napoli, per dimandarne la
grazia al re. Era cosa facile avvicinarlo, poich'egli era sempre a piedi o a
cavallo in mezzo alle strade e sulle piazze di Napoli, quando però non era alla
caccia ‑ Questa volta felicemente
o disgraziatamente per la supplicante, il re non era nè nelle strade nè
sulle piazze nè al palazzo. Egli trovavasi a Capodimonte. Era la stagione dei
beccafichi.
La povera donna era affranta
dalla stanchezza, essa avea fatto correndo cinque leghe, chiese il permesso di
aspettare il re. Il capo del posto mosso a compassione. le accordò quanto
chiedeva ‑ Ella si sedette sul primo gradino della scala per la quale il
re dovea salire. Ma per grande che fosse la sua preoccupazione, la stanchezza
la vinse sull'inquietudine, e dopo aver lottato invano per qualche tempo contro
il sonno, ella appoggiò il capo al muro e si addormentò.
Dormiva appena da un quarto
d'ora quando il re entrò .
Egli era stato in quel
giorno più destro ancora del solito ed avea trovato più numerosi gli uccelli,
onde era di buonissimo umore. Quando scorse la buona donna che attendevalo,
voleano destarla, ma il re vi si oppose : si avvicinò ad essa, la guardò con
una curiosità mista d'interesse, poi vedendo l'estremità della supplica che le
usciva dal seno, ne la trasse dilicatamente per non turbare il suo sonno, la
lesse, ed avendo domandato una penna ed inchiostro, scrissevi sotto Fortuna e duorme, ciò che equivaleva al
nostro proverbio. La fortuna viene
dormendo, e firmò Ferdinando.
Dopo di che ordinò di non
destar la buona donna sotto verun pretesto, proibì che la si lasciasse giungere
fino a lui, provvedè onde l'esecuzione fosse sospesa, e rimise la petizione ove
aveala presa.
Dopo dieci minuti la
sollecitatrice aprì gli occhi, s'informò se il re era tornato. Seppe ch'era
poco prima passato innanzi a lei mentre dormiva.
La sua desolazione fu
estrema; ella aveva perduto l'occasione che era venuta a cercare da tanto lungi, e con tanto stento supplicò il capo del posto di permetterle di
aspettare che il re uscisse, ma quegli vi si oppose, e la povera donna desolata
ripartì per Aversa.
La prima visita al suo
ritorno fu per l'avvocato che aveale consigliato d'andare ad implorare la
clemenza del re ‑ Ella gli raccontò quanto era avvenuto, e come per sua
colpa ella avesse lasciato sfuggire un'occasione introvabile ormai. L'avvocato
aveva amici in corte; le disse di rendergli la petizione, e ch'egli cercherebbe
il modo di farla giungere al re.
La donna rimise all'avvocato
la carta chiestale, quegli per un moto macchinale vi gettò gli occhi aprendola,
e diede un grido di gioia. Nella situazione in cui trovavasi il proverbio
consolatore, scritto e firmato dalla mano del re, equivaleva ad una grazia.
In fatti dietro le istanze
dell'avvocato e soprattutto mercè l'ordine dato direttamente dal re, il
prigioniero ricuperò la libertà otto giorni dopo.
Vi è un gran distacco da
questo fatto alla crudeltà spiegata da Ferdinando verso la povera Sanfelice. Ma
come Michelet divide la vita di Luigi XIV in due parti, prima ‑ e dopo ‑
la sua fistola, bisogna dividere la vita di Ferdinando in due, e dire prima e
dopo la rivoluzione Francese.
Ma sempre, riguardo alla
caccia, pei supplizi da infliggere ai cacciatori di contrabbando e per ogni
sorta di cura riserbata ai suoi cani Ferdinando fu feroce
Citiamo
un esempio.
Un ufficiale del reggimento
delle guardie italiane era di servizio a Caserta e per conseguenza indossava il
suo abito di gala che avea a grandi stenti pagato sul suo soldo, e di cui forse
era ancor debitore. Il re ritornava dalla caccia seguito dalla sua scorta. Egli
si fermò per parlare a qualcuno ; uno dei cani coperto di fango saltò addosso
all'ufficiale e ne ricoprì tutto il vestito. L'intenzione del cane era buona,
ma l'ufficiale badò solo al risultato, e slanciò all'animale un calcio, che
fecegli gittare un urlo di dolore ‑ A quel grido Ferdinando si voltò e
camminando verso l'ufficiale, che per sua scusa mostravagli il vestito
infangato.
‑ Non sai, razza di
puzzolente, gli diss'egli, che l'animale che hai avuto l'audacia di colpire,
val più che cinquanta dei tuoi pari.
‑ L'ufficiale divenuto
livido dal terrore, un tremito lo assalse, quindi venne la febbre, e l'indomani
era cadavere.
In questo, quasi ritratto
morale che noi abbiam tracciato del re Ferdinando, nostro scopo è stato di far
conoscere, mercè aneddoti che lo riguardano, la sua strana personalità. Spirito
naturale, nessuna educazione, assenza completa di sensibilità e di cuore,
lussuria sfrenata ‑Lo spergiuro elevato a principio, la maestà del potere
reale spinta tanto lungi quanto in Luigi XIV.
Il cinismo della vita
pubblica e della privata, messo in grande evidenza mercè il disprezzo profondo
ch'egli avea pei grandi nei quali egli vedeva soltanto cortigiani e pel popolo nel quale vedeva solo schiavi.
Istinti bassi che lo attiravano verso le infime classi ‑ Ricreamenti
fisici che tendevano a materializzare il corpo a spese dello spirito. Ecco su
quali dati bisogna giudicar l'uomo che salì al trono a sei anni, come Luigi
XIV, che mori vecchio quasi quanto esso, che regnò dal 1759 al 1825, cioè
sessantasei anni compresavi la sua minorità ; sotto gli occhi del quale ebbe
compimento quanto di grande fecesi in Europa durante la seconda metà del secolo
passato ed il primo quarto del presente ‑ Napoleone visse completamente
nel suo regno; egli lo vide nascere, diventar grande, decrescere e cadere.
Nato undici anni prima di
lui, lo vide morire cinque anni pria che egli si estinguesse, e trovossi
mischiato infine, come uno dei principali attori del dramma gigantesco che mise
sossopra il mondo da Mosca al Cairo e da Vienna a Lisbona.
Ferdinando era il più
astuto, il più forte, il più falso, il più superstizioso, il più noncurante, il
più indevoto uomo del suo regno, ciò che non è dir poco. Mezzo francese e mezzo
spagnuolo, impastato d'Italiano, egli non seppe mai come lo abbiam detto nè il
Francese, nè lo Spagnuolo, nè l'Italiano; egli non ha mai saputo e parlato che
una lingua ‑ quella dei lazzaroni del molo.
Dio lo chiamò Re Ferdinando
IV, il Congresso lo disse Re Ferdinando I , ed i lazzaroni gli diedero il nome
di Re Nasone.
Dio e il Congresso ebbero
torto : un solo di quei tre nomi fu veramente popolare e gli rimase; fu quello
che gli venne dato dai lazzaroni.
Ogni popolo ha avuto il suo
re che ha riassunto lo spirito nazionale ‑ Gli Scozzesi hanno avuto
Roberto Bruce, gli Inglesi Enrico VIII, i Tedeschi Massimiliano, gli Svedesi
Carlo XII, i Polacchi Giovanni Sobieski, gli Spagnuoli Carlo V ed i Napolitani Nasone.
Ora tenteremo raccontare
questi sessantasei anni di regno non al modo di Tacito e di Montesquieu, ma a
quello di Svetonio e di Saint Simon.
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(1) Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende facilmente di quale ruina si vuol parlare.