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Di
Alexandre Dumas
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Ferdinado IV° o I°. CAPITOLO III.
Il primo avvenimento un poco serio che segnalò la minorità del giovine
re, fu la cattiva raccolta del 1763.
Diciamo in poche parole, quali erano in quell'epoca i prodotti agricoli
e industriali del regno delle Due Sicilie.
Il commercio di quelle contrade consisteva nella esportazione dei
prodotti del suolo ; l'industria eravi secondaria.
Questa esportazione sarebbe stata enormemente più fruttuosa se il
governo, l'amministrazione e la nobiltà, non avessero frapposto gli ostacoli di
cui faremo parola. Il suolo dei due regni è fertile tanto che, come nei tempi
antichi, la sola Sicilia basterebbe per approvigionare gran parte d'Europa in
grani. oli ed altri prodotti. che attendevano solo allora ed aspettano ancora
oggi per moltiplicarsi un'amministrazione intelligente ed applicata
contemporaneamente agli interessi del popolo ed a quelli del re.
Tutte le provincie della Sicilia ed una parte di quelle del Napolitano
fornivano e forniscono ancora, ci si permetta adunque di servirci
indifferentemente del presente e del passato, frumento, olio, vino, legumi,
grano turco, orzo, canapa, mele, cera, frutta, manna, zafferano, liquirizia,
gomma, tartaro, capperi, sale, cenere adatta alle fabbriche di sapone, zolfo,
nitro, pesce fresco e secco, cuoi, aranci, limoni, cedri, acquavite, aceto,
metalli, minerali, marmo, sete, lino cotone, cavalli, asini e muli.
Tutto ciò che ricevesi direttamente dalle mani della natura è
eccellente, tutto ciò che ha bisogno d'esser perfezionato dall'industria umana,
come il vino, l'olio, l'acquavite, la seta, è pessimo.
Il solo regno di Napoli esportava allora, anno medio, due milioni di
tomoli di frumento, oltre il suo consumo.
Il tomolo contiene quaranta rotoli, ed ogni rotolo trentatrè once
napolitane, corrispondente a 26 o 27 once francesi.
La nazione intera ne consumava 18 milioni. a ragione di quattro tomoli
per individuo, per pane, farina, e maccheroni.
La capitale sola consumava quattrocento trenta mila tomoli in pane.
duecento cinquanta mila in maccheroni, sessantamila in biscotto, seicento
trentamila in farina, senza calcolare il nutrimento delle truppe.
Si uccidevano trentamila bovi, quattromila vitelli di Sorrento, sei
mila vitelli ordinari, e sessantamila maiali.
Consumavansi trentamila salme di olio fino e quasi altrettante d'olio
comune. Una salma pesa 240 libbre del peso di 12 once l'uno. Il consumo di
tutto il reame era di 365 mila saline. L'esportazione della sola parte
continentale era di 50 mila.
Diciamo però che la terra produce appena la decima parte di quel che
una buona ed intelligente coltura potrebbe attenderne. Questo per quel che
riguarda l'ignoranza e la pigrizia. Passiamo all'abuso.
I proprietari fondiari
aveano il dritto di prescrivere il prezzo dei comestibili, il governo se ne
asteneva, ma solo per calcolo. Così per esempio, esso proibiva l'esportazione
d'una derrata, la faceva comprare per suo conto e la rivendeva con un terzo od
una metà di beneficio. e ciò senza pensar e che quel guadagno era fittizio e
ch'egli perdeva proporzionatamente all'alterazione prodotta nelle fortune
particolari, dalla proibizione di esportare.
Dopo la speculazione del governo veniva quella dei ministri, e delle
persone che avevano influenza negli affari.
Tutte queste operazioni. mettendo ogni dì un impaccio alla libertà di
commercio, erano una continua lesione del dritto naturale.
Quei ministri tanto vantati, i Tanucci, i Caracciolo, erano d'una tale
incapacità in amministrazione ed economia politica, che essi ignoravano il male
che facevano., non pensando che la vera ricchezza del governo consiste nella
ricchezza dei particolari.
Ecco di qual maniera essi intendevano la libertà commerciale.
Nella stagione del ricolto i propretari, mezzaioli, ed fittaiuoli
dovevano fare una dichiarazione precisa di quel che avevano seminato o raccolto
‑ Gli agenti del governo fissavano le quantità che dovevano essere
fornite al re secondo il prezzo corrente, e quelle che dovevano essere
trasportate nei mercati.
E’ inutile dire che i commessi del ministero e coloro che ne
rispedivano raddoppiavano o anche triplicavano i loro emolumenti in questa
operazione.
I dritti di dogana erano inoltre eccessivi, ciò che faceva che ognuno
cercasse fare il contrabbando meglio che pagare. Ciò fanno del resto in una
maniera semplicissima, veramente patriarcale. Bastava rivolgersi al primo
doganiere capitato, ed al terzo del prezzo fissato dai regolamenti, egli
s'incaricava di fare entrare ed uscire le merci proibite. Gioacchino Ungaro
principe di Montejasi cita il fatto d'un uomo, il quale avea speso il suo
ultimo carlino per comprare il posto di Doganiere soprannumerario, e che dopo
tredici anni dava a stia figlia maritandola 4000 duc. di dote[*1].
Eranvi tasse su tutto, e non essendo mai fisse ammontavano o
diminuivano a beneplacito e capriccio dell'amministrazione delle finanze.
Queste tasse erano talmente moltiplicate che nessun percettore poteva
vantarsi., quantunque avesse avuto la memoria del suo contemporaneo Haller, di
conoscer la cifra di tutte queste imposizioni che ricadevano sul popolo
schiacciandolo.
Più d'una volta queste imposte illecite ed inattese hanno cagionato
rivolta. L'insurrezione del 1647 diretta da Masaniello, insurrezione, che mancò
poco non diventasse una rivoluzione fu cagionata, ognun se ne ricorda. da una
tassa stabilita dal governo spagnuolo sulle frutta e sui legumi, comestibili
più d'ogni altro indispensabili al popolo napolitano, dopo i maccheroni.
Ora in questa situazione avvenne, come lo abbiam detto, il cattivo ricolto del 1763.
Il governo secondo il suo
solito si affrettò di fare le sue provvisioni e di riempire i granai pubblici;
ricchi privati fecero altrettanto da parte loro, di modo che sul principio del
1764 la carestia fu generale, malgrado i granai pieni ‑ Le piazze erano
piene d'uomini e di donne del popolo che si lamentavano. Alcune persone
morivano, alla lettera, della fame. ai canti delle vie: sentivasi parlare
sordamente di saccheggio, nell'aspettativa che si parlasse di rivolta ‑ I
furti divennero più frequenti, i delitti si moltiplicarono. Nemmen il giorno
potevasi uscire dalla città; di notte niuno avventuratasi per le vie. La
reggenza fissò un maximum per i prezzi de' grani portati al mercato, cosa che
rese deserti i mercati stessi, finalmente ultima misura più assurda, più
crudele di tutte le altre, essa pubblicò che la carestia non era reale, ma solamente
prodotta dai monopolisti, mentre era essa medesima, che per la prima avea fatto
il monopolio ‑ Essa non si fermò a quel punto, ma designò col loro nome
alcune persone che la voce pubblica accusava senza nominare. Quella
designazione fu la loro sentenza di morte, colpevoli o no del delitto che
veniva loro imputato essi furono uccisi dal popolo. Si spedirono nelle
provincie commissari reali per scoprire i depositi di grano; il Marchese
Pallanti che venne incaricato di queste ricerche, con poteri di vita e di
morte, percorse il regno preceduto dal carnefice, accompagnato da birri e
seguito da soldati. Dapertutto ove annunziavasi la sua presenza, venivano
anticipatamente eretti patiboli; ma per quanta volontà si avesse di dare
qualche esempio, i patiboli rimasero vergini di sangue; il popolo avea già
compiuta l'opera sua, vuotando i depositi, e del resto lo abbiam già detto i
veri autori del monopolio, erano i governanti. Ciò che v'ha di curioso si fu
che questa carestia non ebbe mica fine per effetto delle misure del governo, ma
per la pietà straniera. Quando seppesi in Francia ed in Russia la mancanza di
grano in Napoli, bastimenti carichi di grano giunsero da Marsiglia e da Odessa
e da Barcellona, a prezzi inferiori, ed il governo non avea saputo rimediare al
disordine se non con editti simili al seguente.
« Non v'han furti, nelle strade e nelle campagne; non v'han che persone
obbligate a riscattarsi dalla violenza degli assassini, non si vedono che
brigantaggi e scelleratezze commesse da ogni parte, il commercio ha perduto
ogni sicurezza; onde viene ordinato ai magistrati ed alle truppe d'arrestare o
di far morire i perturbatori della pace pubblica ‑ Si consiglia inoltre
ai mercanti ed ai viaggiatori di camminare in caravane e ben armati. »
S'eravi qualche cosa di più malaccorto d'una simile pubblicazione, la
quale mostrava tutta la debolezza del governo, si fu quando al finir della
penuria, avvenuto, come lo abbiam detto, mercè il soccorso delle nazioni vicine,
comparve l'ordinanza con la quale si amministiavano tutti i delitti, furti,
brigantaggi ed omicidi commessi a proposito della carestia.
Onde nel 1766, cioè un anno prima che il re diventasse maggiore, gli
abitanti stanchi d'una amministrazione, di cui ogni misura tendeva ad aumentar
la miseria del popolo invece di diminuirla, cominciarono ad espatriare in tali
proporzioni, che si fu forzati nel mese di aprile dell'anno medesimo, di
pubblicare un editto contenente le più severe leggi contro l'emigrazione.
Il due gennaio 1767 il re divenne maggiore ‑ Egli era giunto al
suo sedicesimo anno.
Durante quegli otto anni di minorità, che avrebbero dovuto essere
consacrati al componimento della sua educazione, il re non occupossi, o meglio
il Duca di San Nicandro non si occupò pel re, se non dello sviluppo fisico
delle sue forze. Era egli il primo cavallerizzo ed il primo cacciatore del suo
regno. Egli cavalcava e domava i più focosi cavalli, e non feriva mai un
cinghiale, un cervo o un daino che alla congiuntura della spalla.
Era raro ch'egli fallisse,
non diciamo una pernice o un fagiano al volo, ma un beccafico o una beccaccina.
A sedici anni egli avrebbe ottenuto il premio alla corsa ed alla lotta, fu
primo corridore ed il primo lottatore dei suoi stati. Quando egli non
occupavasi di caccia nelle foreste di Caserta o di Astroni, egli pescava nei
laghi di Fusaro, di Averno, o in certe porzioni del mare riservate ai suoi
piaceri. Il suo riposo dopo questo esercizio si era di far manovrare un
reggimento, ch'egli medesimo avea formato, e di cui avea gli battezzato i
soldati col nome di Liparotti ‑ Spesso ancora egli stabiliva una bettola
in mezzo ai campi, e sotto le spoglie di un uomo del popolo, discutendo i
prezzi in dialetto Napolitano, con l'avidità di un vero mercante, egli vendeva
il prodotto della sua caccia e della sua pesca, dando da bere e da mangiare
come un bettoliere di professione. Mai, non diremo per desiderio d'imparare, ma
per curiosità o per distrazione, vennegli l'idea d'aprire un libro, trovando
fin noioso di scrivere il suo nome, onde, soprattutto dopo la sua maggiorità
obbligato di sottoscrivere gli atti emanati dalla sua autorità reale, egli avea
fatto far una stampiglia, che applicava al disotto delle decisioni di Tanucci.
Non poteva esimersi di assistere ai consigli di stato, ma avea proibito che vi
fosse comparso inchiostro, carta o penna, temendo che la presenza di questi
oggetti potesse menare a scrivere. Spesso nel mezzo delle più importanti
discussioni, veniva bussato alla porta in un modo particolare, allora il re
usciva, molte volte non rientrava più, oppure quando ritornava, pregava che si
dasse fine al più presto poichè avea fretta d'andare alla pesca od alla caccia.
Questo accadeva nei più importanti momenti, e la caccia o la pesca, un
cinghiale scovato, o l'arrivo d'uno stormo d'uccelli di passaggio la vincevano
sulle più alte considerazioni.
Le sole corrispondenze seguite ch'egli ebbe mai, erano una col re Carlo
III, suo padre, l'altra col margravio d'Anspack. Queste corrispondenze erano un
esatto racconto delle cacce fatte, del selvaggiume ucciso, e del modo onde
erasi ciò fatto. Ogni menzogna a vantaggio del cacciatore eravi interdetta.
L'ultima di queste corrispondenze cioè quella col Margravio eragli più
piacevole della prima. Ferdinando era miglior cacciatore del Margravio
d'Anspack, ma per quanto fosse abile, il re Carlo III eralo più dì lui. La
Spagna e Napoli si inimicarono, il padre ed il figlio ebbero minore affetto
l'un per l'altro ; la corrispondenza politica cessò, ma d'ambo le parti il
giornale delle cacce fu regolarmente mandato[*2].
E' vero che il piacere della caccia non era il solo che Ferdinando
incontrasse nei suoi parchi e nelle sue foreste: non era desso per nulla il
discendente di Luigi XIV, il pronipote di Filippo V, ed il nipote di Ferdinando
VI. L'amore o meglio i bisogni amorosi, occupavano gran parte della vita di
Ferdinando L' Avea egli fatto costruire nei suoi parchi e nelle sue foreste un
certo numero di capanne mobigliate semplicemente, ma con polizia e fornite
d'ogni comodo. Quando egli era a caccia, era sempre sicuro di trovare abitata
da qualche bella contadina che gliene faceva gli onori quella delle sue capanne
ove recavasi a rinfrescarsi ‑ Quando prese moglie conservò questa
abitudine, solamente raccomandò ai suoi compiacenti la maggior discrezione ‑
Un d'essi che parlavagli con molta franchezza, impazientito di tutte queste
circospezioni ch'egli considerava come inutili, dissegli un giorno.
‑ Perchè dunque tanti misteri giacchè la regina dal canto suo fa
quanto e forse più di quel che fa Vostra Maestà ?
‑ Taci, taci, disse Ferdinando, facciamo e lasciamo fare, ciò
incrocia le razze.
Quest'amore della caccia che vincevala sulle più forti preoccupazioni
politiche, era anche superiore alle più sante affezioni di famiglia. Quando suo
fratello Carlo IV quegli ch'essendo principe delle Asturie, compiacevasi a
scorticar conigli, esiliato dalla Spagna e trastullo di Napoleone dopo essere
stato mandato da Compiegne a Marsiglia, non potette alla caduta
dell'Imperatore, tornare in Ispagna, perchè non fidavasi abbastanza di suo
figlio Ferdinando, per tanto fare, ma ritirossi a Roma, il re di Napoli avendo
tatto un viaggio nella capitale del mondo cristiano, ricondusse seco nel suo
regno il fratello. Entrambi si dimostrarono allora una grande affezione, ed
essendo Ferdinando infermo, Carlo IV diedegli le più splendide prove d'amor
fraterno.
Anch'egli era grande amatore di caccia e di pesca, e noi avremo
l'occasione di tornare a lui a proposito degli avvenimenti del 1800 e della sua
alleanza con la Francia, onde quando Ferdinando risanò, i due fratelli non si
lasciarono più, rivaleggiando alla caccia nei boschi di Caserta, nei boschi di
Persano e nel piano di Capodimonte.
Non si è dimenticata la
grande affezione del Re Luigi XIV per Monsieur[*3]. Indifferente per sua moglie, egoista per le sue amanti, severo pei
suoi figli, suo fratello era il solo essere, a quanto dicevasi ch'egli amasse
al mondo. Qualche nube era ben passata fra loro all'epoca di Madama Errichetta.
Monsieur trovava sua moglie troppo
feconda, ma egli aveala avvelenata, o lasciata avvelenare dai suoi favoriti, e
la morte di lei avea ristabilito la concordia fraterna. Così l'indomani della
notte nella quale morì Monsieur, nessuno
osò avvicinarsi al gran re, il quale chiuso nel suo gabinetto abbandonavasi, a
quanto si disse, al dolore.
Finalmente, dice S. Simon, madama di Maintenon arrischiossi ad entrare,
e trovò Luigi XIV col naso in aria, la gamba tesa e cantarellando un'arietta
d'opera in lode sua.
La cosa medesima dovea aver luogo quasi fra Ferdinando I° e Carlo IV°.
Una partita era stata combinata fra i due principi per andare a caccia
nei boschi di Persano, quando al momento di partire il re Carlo sentissi
lievemente indisposto, ma siccome l'augusto infermo sapeva per esperienza qual
contrarietà avea il rinvio d'una partita di caccia, egli volle che suo fratello
andasse a Persano senza di lui. Ferdinando condiscese a ciò, ma solo a
condizione che se suo fratello andasse peggiorando avrebbeglielo fatto sapere.
L'infermo impegnossi a ciò, il re lo abbracciò e partì.
Nella giornata l'indisposizione parve aggravarsi, la sera l'infermo era sofferente oltremodo. Nel corso della notte la situazione peggiorò tanto che verso le due del mattino un corriere fu spedito al re, latore di una lettera della Duchessa di Floridia la quale annunziava che se voleva abbracciare ancora una volta suo fratello bisognava tornare immediatamente ‑ Il corriere giunse nel momento che il re saliva in carrozza per recarsi al convenio ‑ Ferdinando prese la lettera, l'aprì ed alzando gli occhi al cielo esclamò:
‑ Mio Dio, mio Dio, quale disgrazia! signori. Il re di Spagna è
gravemente infermo.
E siccome i cortigiani assumevano un viso di circostanza, allungandolo
quanto più potevano,
‑ He, riprese egli, con quell'accento napolitano di cui nulla può
rendere l'espressione; io credo che v'è molta esagerazione nel rapporto che mi
si fa; andiamo a caccia, poscia vedremo.
I cortigiani ripresero il loro aspetto abituale, si giunse al punto
stabilito e la caccia ebbe luogo.
Appena però 10 colpi erano stati tirati, perchè la caccia che
prescriveva Ferdinando da vero Borbone qual era, erasi quella al tiro, giunse
un secondo corriere annunziando che re Carlo era agli estremi e domandava
continuamente suo fratello.
Questa volta non v'era più dubbio sulla situazione disperata
dell'infermo, così il re Ferdinando, che in certi casi era uomo di risoluzione,
prese immediatamente il suo partito, e siccome i cortigiani attendevano le
prime parole del re per regolare in conseguenza il loro viso,
‑ He, fece egli nuovamente, mio fratello è mortalmente infermo o
non lo è ‑ se lo è, qual bene può fargli ch'io ritorni? Se non lo è, sarà
disperato di sapere che a causa sua io ho perduta una caccia sì bella ‑
Su signori cacciamo. E con maggiore ardore si ripigliò la caccia.
Nel tornare la sera, si trovò un terzo corriere il quale annunziò che
il re Carlo era morto piamente e con serenità e dolente solo di non aver riabbracciato
suo fratello Ferdinando.
Il dolore che provò il re fu profondo tanto, che comprese doverlo pria
di tutto combattere mercè una possente distrazione, onde diede gli ordini
affinchè una caccia ancor più bella avesse luogo l'indomani e il doman l'altro.
Le esequie del re non dovevano esser fatte, secondo l'etichetta spagnuola che
sei giorni dopo la sua morte; ma non si creda perciò che Ferdinando avesse
dimenticato l'estinto. Egli ordinò che in segno di lutto non si tirasse che ai
piccoli uccelli ; e siccome la caccia diventava perciò più difficile ad ogni
buon colpo di fucile che riuscivagli esclamava:
‑ Oh! se il mio povero fratello fosse qui, come sarebbe felice.
Il terzo giorno il re recossi a Portici.
Durante quel tempo intorno al cadavere del re defunto si compievano le
cerimonie di uso alla corte di Spagna. Nel momento ch'erasi per chiudere il
feretro su lui. lo si chiamò tre volte lo si scosse pel braccio tre volte ; tre
volte venne pregato di rispondere, onde fosse ben constatato che essendo re,
egli scendeva nella tomba, non per obbedire alla legge che regola i mortali
tutti, ma solo per sua propria volontà.
Ma il giorno medesimo della tumulazione, siccome Ferdinando avrebbe
troppo sofferto assistendo alla funebre cerimonia, lasciò Portici e recossi a
Carditello ove il giorno innanzi avea ordinato una gran partita di caccia. Egli
avevavi fatto invitare Sir Guglielmo Court ambasciadore d'Inghilterra, ma
siccome questo era obbligato assistere ai funerali del morto re, fece dire a
Ferdinando che a suo gran dispiacere una triste cerimonia, ebbe la delicatezza
di non dir quale, lo incatenava a Napoli. Il re non si diede vinto: nel momento
medesimo nel quale pronunziavasi il discorso funebre, che l'ambasciadore di S.
M. Britannica ascoltava con raccoglimento, un bracchiere entrò nella chiesa e
rimise a Sir Guglielmo Court una lettera, nella quale il re Ferdinando
dicevagli che finita la cerimonia andasse a raggiungerlo a Carditello.
Se un simile fatto si leggesse in un giornale, in un libello o in
qualunque raccolta di memorie, sarebbe da non prestar fede ‑ Ma è
Colletta, storico positivo, che racconta la cosa in tutti i suoi particolari.
E' dunque mestieri credervi e dire che la Provvidenza sapendo ciò che i re hanno
a soffrire nei nostri tempi moderni dà ad alcuni di essi un cuore formato di
materia diversa da quelli della generalità.
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