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Di
Alexandre Dumas
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Ferdinado IV° o I°. CAPITOLO V.
Maria Carolina partì da Vienna nel mese di
Aprile 1768.
Il fiore imperiale entrava nel suo futuro
regno col mese della primavera. Aveva ella sedici anni appena, essendo nata nel
1752, era figlia prediletta di Maria Teresa, ella giungeva con una perspicacia
di gran lunga superiore all'età sua ‑ Ella era più che istruita, era
letterata ; ella era più che intelligente, era filosofo. – E’ vero che ad un
dato momento, questo amore per la filosofia si cangiò in odio contro i
filosofi.
Essa era bella in tutta la forza della
parola, e vezzosa quando voleva. I suoi capelli erano d'un biondo d'oro che
traspariva sotto la polvere; la sua fronte era larga e liscia, prima che le
cure del trono, dell'odio e della vendetta vi avessero impresso le loro rughe
precoci. I suoi occhi potevano rivaleggiare coll'azzurro del cielo, sotto il
quale essa andava a regnare. Il suo naso profilato, il suo mento leggermente
prominente, segno di volontà assoluta, facevanle un profilo greco. Ella aveva
il viso ovale, le labbra umide ed incarnate di colore del carminio, i denti
bianchi come l'avorio più bianco; e finalmente un collo, un seno e spalle di
marmo, degne delle più belle statue ritrovate a Pompei ed Ercolano, o venute
dal museo Farnese completavano questo splendido insieme.
Parlava correttamente quattro lingue, la
tedesca, la spagnuola, la francese, e l'italiana. Parlando, e soprattutto
quando era ispirata da un sentimento violento, ella avea un leggiero difetto di
pronunzia, simile a quello d'una persona che parlasse con un sassolino in
bocca. Ma i suoi occhi brillanti e mobili, ma la nettezza specialmente delle
sue idee facevan tosto dimenticare quella piccola imperfezione.
Era essa altiera ed orgogliosa, come
convenivasi alla figlia di Maria Teresa ed alla sorella di Maria Antonietta; in
certo momento il labbro inferiore più grosso, nei principi e nella principessa
d'Austria, del superiore prendeva un'espressione di fulminante disprezzo. Le
altre passioni che dovevano svilupparsi in lei, erano ancora rinchiuse nel
verginale involucro della fidanzata di sedici anni.
Ella giungeva coi suoi sogni di Pascià
tedesca; andava a vedere il paese ove il Tasso nacque, dove Virgilio morì; ella
andava a cogliere con una mano l'alloro che cresceva sulla tomba del poeta
d'Augusto, e con l'altra quello che era sulla culla del cantor di Goffredo ‑
il suo sposo avea diciotto anni, cioè due più ch'essa, ma sarebb'egli Eurialo o
Tancredi? Niso o Rinaldo?
Perchè non era essa e Venere ed Armida
insieme?
Ella trovò l'uomo che voi conoscete, con un
grosso naso, con grosse mani e grossi piedi, parlando il dialetto di Napoli,
con gesti da lazzarone.
Il primo incontro ebbe luogo il 12 maggio a
Portella, sotto un magnifìco padiglione, suo fratello Leopoldo accompagnavala
ed era incaricato di rimetterla allo spo. so. Come Giuseppe II, Leopoldo era
imbevuto di massime filosofiche . voleva far molte riforme nel suo stato. ed in
effetto la Toscana si ricorda ancora che, fra le altre, la pena di morte fu
abolita sotto il suo regno.
Come Leopoldo era padrino di sua sorella,
Tanucci era tutore del suo allievo: al primo sguardo che scambiarono la giovine regina ed il ministro si
dispiacquero reciprocamente. Carolina riconobbe in lui l'ambiziosa mediocrità,
che avea tolto al giovine principe, col mantenerlo nella nativa sua ignoranza,
ogni mezzo d'essere un giorno un gran re, o semplicemente un re. Senza dubbio
ella avrebbe riconosciuto il genio di uno sposo che fossele stato superiore e
sarebbe stata allora regina sottomessa e moglie fedele ma così non fu, ella
riconobbe la propria superiorità sul marito, e come sua madre avea detto ai
suoi Ungheresi, Io sono il Re
Maria Teresa, ella disse ai Napolitani, Io sono il Re Maria Carolina.
Tanucci voleva
tutt'altro : egli non voleva nè re nè regina, poichè bramava essere primo
ministro.
Ma nelle condizioni
del matrimonio egli avea lasciato introdurre una clausola di cui non comprese
l'importanza, se non quando dovette essere eseguita. Secondo la stipula
dell'accordo reale, Maria Carolina aveva il dritto di assistere ai consigli di
stato, quand'avesse dato un erede al marito.
Era una finestra
che la corte d'Austria apriva sulla corte di Napoli.
Fino a quel
momento, come si è visto per il bando dei Gesuiti, l'influenza veniva da
Madrid.
Tanucci vide bene,
che per quella porta aperta per Maria Carolina entrava l'influenza Austriaca.
Per un momento la
regina Carolina credette poter rifare completamente l'educazione di suo marito,
e tanto più agevol cosa le parve, in quanto che Ferdinando era rimasto colpito
dal sapere di Lei. Dopo averla intesa parlare con Tanucci e con le poche
persone istruite della corte, egli battevasi il capo con stupefazioni dicendo:
La regina sa tutto. Più tardi quando egli ebbe visto più profondamente ove
conducevalo questa scienza che lo meravigliava, ma che il suo buon senso mostravagli,
deviante dalla
sua strada, egli aggiungeva: eppure essa commette più sciocchezze di quel che
ne fo io che sono un asino.
Malgrado ciò egli subì l'influenza di quello
spirito superiore, e si sottopose alle lezioni ch'ella proposegli di dargli ‑‑
Ella insegnavagli letteralmente a leggere ed a scrivere, e noi lo abbiam già
detto nei suoi momenti di buon umore, egli chiamavala la sua cara maestra.
Ma ciò ch'ella non potè mai fargli imparare
furono quelle maniere eleganti delle corti del Nord, quella cura di se stesso,
tanto rara nei paesi caldi, dove dovrebbe essere non solamente un bisogno, ma
un piacere, tanto raro, ripetiamo che un proverbio Italiano dice « La pulizia è
una mezza virtù » e finalmente quel cicaleccio dolce e grazioso che fa
dell'amore una lingua, la quale sembra presa metà dal profumo dei fiori, e metà
dal canto degli uccelli.
La superiorità di Carolina umiliava
Ferdinando, e la rozzezza di Ferdinando umiliava Carolina.
E’, vero che questa superiorità
incontestabile agli occhi dello sposo prevenuto, poteva essere a rigore
contestata alle genti istruite le quali vedevano nella regina quella scienza
superficiale, che guadagna in estensione quanto perde in profondità: forse
giudicandola come meritava d'esserlo, sarebbesi trovato in lei più ciarle che
ragionamenti, e soprattutto quel pedantismo particolare ai principi della casa
di Lorena, di cui erano profondamente ripieni i suoi fratelli Giuseppe e
Leopoldo, Giuseppe parlando sempre e non lasciando mai agli altri il tempo di
rispondergli ‑ Leopoldo vero maestro di scuola fatto per tener la sferza
di Orbilio piuttosto che lo scettro di Carlo Magno.
Così era la regina ‑ Ella avea un
piccolo manoscritto di scrittura finissima, fatto per suo uso e contenente le opinioni
dei Filosofi, da Pitagora fino a Gian Giacomo Rousseau, e quand'ella doveva
ricevere qualche persona sulla quale voleva fare una certa impressione,
rileggeva il suo manoscritto, e collocava le sue massime filosofiche secondo le
circostanze.
Ciò ch'eravi di bizzarro si è che, facendo
apertamente lo spirito forte, la regina cadeva in tutte le superstizioni
popolari, che agitavano le classi inferiori di Napoli.
Noi citeremo due esempi di questa superstizione:
Eravi a Napoli una donna che chiamavano la
Santa delle pietre.
Essa pretendeva di aver la renella, e di
rendere ogni giorno una certa quantità di pietruzze, ch'ella distribuiva, visto
il suo stato di sanità, ai fedeli, e che avevano il privilegio, malgrado il
cammino preso per giungere alla luce, di far miracoli perfettamente come le
reliquie.
Questa pretesa santa era al Grande Ospedale
di Napoli ed ajutata dal chirurgo, ella rappresentava questa strana commedia,
che in ogni altro paese avrebbe condotta la sedicente beata in polizia
correzionale, o alla casa de' matti.
In cambio di quelle piccole pietre, coloro che avevano il vantaggio di riceverne, le mandavano denaro e doni, ch'essa riceveva con ogni umiltà, per l'amor di Dio.
Un quadro ha consacrato del resto i pretesi
miracoli della santa.
Ebbene la regina fu una delle più ferventi
proseliti della santa delle pietre,
mandandole doni e raccomandandosi alle sue preghiere, per ottenere dal cielo
che i suoi voti fossero esauditi.
Si comprende che, dal momento che videsi la
regina medesima ricorrere alla santa, i dubbi, se ne restavano ancora,
disparvero, o sembraron disparire.
La scienza sola rimase incredula.
Ora in quell'epoca la scienza medica era
rappresentata dal celebre medico Cotugno, che abbiamo già presentato ai nostri
lettori.
Egli giudicò vergognoso per Napoli, quando
rischiaravano il mondo i lumi dell'Enciclopedia, di lasciarsi rappresentare
questa commedia degna appena del secolo XII.
Egli andò a trovare il chirurgo che serviva
di manutengolo alla santa, e cercò di ottener da lui la confessione della
furberia.
Il chirurgo affermò ch'eravi miracolo.
Cotugno offrigli d'indennizzarlo personalmente della perdita che gli cagionerebbe la conoscenza di quella verità, s'egli voleva dirla, ma il chirurgo persistette nel suo dire e Cotugno vide che invece d'uno, eranvi due furbi da smascherare.
Egli si procurò molte delle pietre gettate
fuori della santa, le esaminò, e si convinse che le une erano di terra calcarea,
le altre di pietra pomice, tutte infine non del genere di quelle che possono
formarsi nel corpo umano, in seguito della pietra o della renella; ma della
specie delle pietre che trovansi nelle vicinanze di Napoli.
Tenendo quelle pietre in mano, Cotugno fece
un nuovo tentativo col chirurgo, ma questi sostenne come vera quella impostura.
Cotugno vide che bisognava finire la faccenda
mercè un gran colpo di pubblicità.
Siccome il suo talento metteva, in certo
modo, tutti gli ospedali sotto la sua giurisdizione, egli fece un giorno
irruzione nel Grande Ospedale ove trovavasi la santa, seguito da molti medici e
chirurgi, che avea riuniti a quello scopo: entrò nella camera dell'ammalata e
visitò il prodotto della giornata. Eranvi quattordici pietre.
Cotugno la fece rinchiudere e sorvegliare per
due o tre giorni, ed essa continuò a produrre pietre secondo il solito,
solamente il numero variava, ma tutte erano della natura medesima.
Cotugno raccomandò all'allievo, che avea
messo di guardia presso di lei, di sorvegliarla con maggior cura: questi
osservò che la santa avea abitualmente le mani nelle tasche che di tratto in
tratto portava alla bocca, come chi mangia pastiglie.
L'allievo obbligolla a tener le mani allo
scoverto, vietandole di avvicinarle alla bocca.
La santa, che non voleva tradirsi mettendosi
in opposizione aperta col suo guardiano, domandò una presa di tabacco, e
nell'avvicinare le dita al naso, portò la mano alla bocca, ed in quel momento
pervenne ad inghiottire tre o quattro pietre.
A vero che furono le ultime, il giovine avea
scoverto il giuoco di mano; la prese per le braccia e fece entrare alcune donne
che per ordine suo, o per dir meglio del medico in capo, la denudarono.
Si trovò un piccolo sacchetto cucito alla sua
camicia, contenente 616 piccole pietre, oltre che essa portava al collo un
amuleto, che ognuno avea creduto fino a quel momento un reliquario, e che
contenevane 600 circa.
Processo verbale fu redatto, e Cotugno
tradusse la Santa al Tribunale per fatto di giunteria.
Nella camera di lei si rinvenne una valigia
piena di argento monetato, di vasellame e di effetti preziosi, molti dei quali
venivanle della regina[*1].
Malgrado il processo verbale di Cotugno,
malgrado la sentenza del tribunale che dichiaravala colpevole, non mancarono a
Napoli cuori pieni di fede, che continuarono a mandar doni alla santa delle pietre, raccomandandosi alle sue
orazioni.
Il secondo esempio di superstizione che ci siamo impegnati a citare è il seguente.
Eravi a Napoli verso il 1777 cioè a dire
nell'epoca della nascita del Principe Francesco, un Minimo di 80 anni ch'era
giunto a farsi una riputazione di santità, la quale essendo molto utile al suo
convento, era propagata dai suo confratelli. Aveano essi sparso voce che il
zucchetto del frate, aveva avuto dal cielo la facoltà di facilitare gli sgravi,
di modo che da ogni parte strappavansi il santo zucchetto, che i monaci, come
si comprende, lasciavano sortire dal convento a prezzo di oro. Le donne che
avevano un felice sgravo lo strombettavano da per tutto in modo che la
riputazione dello zucchetto aumentava: coloro che si sgravano male, o che morivano
nel parto erano accusate di mancanza di fede, e il miracoloso zucchetto non
soffriva discapito.
Carolina negli ultimi giorni della sua
gravidanza provò d'essere donna pria d'essere regina e filosofo. Mandò a
prendere il zucchetto, facendo dire al convento, che manderebbe cento ducati
per ogni giorno che lo teneva presso di se. A gran gioia dei frati ella
rimandollo solo cinque giorni dopo, ma le altre donne ch'erano in parto essendo
obbligate di aspettare e di esporsi a tutti i pericoli della maternità senza
essere aiutate dal talismano, furono disperate. Noi non possiamo dire se la
reliquia portò vantaggio alla regina, ma certamente non ne arrecò alcuno a
Napoli. Falso e vile come principe, Francesco, fu falso e crudele come re. La
smania della scienza ch'era comune a Carolina ed ai suoi fratelli era tale, che
il giovine principe Carlo duca di Puglia, erede della Corona nato nel 1775
essendo caduto infermo nel 1780 ed i più celebri medici essendo chiamati a prestargli
le loro cure, Carolina si mischiava a tutti i consulti, dando la sua opinione e
cercando influenzare i medici circa la cura che facevasi all'Infante.
Ferdinando che contentavasi di esser padre, e ch'era desolato di veder l'erede presuntivo, incamminarsi ad una certa morte, non potè sopportare un giorno una fredda dissertazione della regina sulla gotta, mentre suo figlio agonizzava morendo del vaiuolo, e vedendo che malgrado i suoi gesti, che le imponevano di tacere, ella continuava a parlare, si alzò, e la prese per mano dicendole :
‑ Non comprendi che non basta essere
regina per conoscer la medicina, ma che bisogna averla studiata? lo sono un
asino, lo so, e mi taccio; fa come me, e vattene.
E siccome Carolina voleva continuare
l'esposizione delle sue teorie, egli misela alla porta, spingendola un poco più
violentemente di quel ch'ella eravi abituata, ed affrettando la sua uscita con
un gesto di piede, più proprio ad un lazzarone che ad un re[*2].
Il giovine principe morì; Ferdinando se ne
addolorò molto ma Carolina per consolarlo, si contentò di ripetergli le parole
della Spartana.
‑ Quando l'ho messo al mondo, io sapeva
ch'egli era condannato a morire un giorno.
Si comprende che due individui di caratteri
tanto opposti non potevano restare in buona intelligenza, onde quantunque le
medesime ragioni di sterilità non esistessero fra Ferdinando e Carolina, come
fra Luigi XVI e Maria Antonietta, il principio della loro unione, tanto
prolifica in seguito, non brillò per la fecondità.
In fatti, gettando uno sguardo sull'albero
genealogico fatto da Del Pozzo, il migliore che esista, e sul quale però si
può, nella ricca posterità di Ferdinando, rilevare un errore, circa la morte
del giovine principe Alberto avvenuta nel 1799 e non nel 1797 sulla fregata di
Nelson mentre la tempesta assaliva la fuga della famiglia reale in Sicilia, io
trovo che il primo frutto del matrimonio di Ferdinando con Carolina è la
giovine principessa Maria Teresa nata nel 1772, divenuta arciduchessa
d'Austria nel 1790, imperatrice nel 1792, e morta nel 1803.
Quattro anni scorsero quindi senza che l'unione dei due sposi portasse i suoi frutti.
E' vero che a partir da quel momento
l'avvenire riparò le lentezze del passato, tredici principi o principesse
fecero fede che i ravvicinamenti del re e della regina erano tanto frequenti
quanto le loro dispute.
E, cosa strana, questa ricca posterità fu,
malgrado lo odio che ispirò Carolina, meno contestata a Ferdinando, di quello
che lo fosse a Francesco quella ancor più numerosa che diedegli Maria Isabella
di Spagna.
Quantunque malaticcio in fatti, Francesco I
due volte avvelenato a quanto dicesi ‑ una volta in età di 13 o 14 anni,
e l'altra nel suo 43° anno, non ebbe meno di 14 figli; uno di più di quanti
n'ebbe suo padre.
Solamente dicesi che Carolina per non far
regnare uno straniero sul trono delle due Sicilie aspettava, per soddisfare
certe fantasie, di cui si può parlare tanto più apertamente in quanto che la
Storia le ha registrate nelle sue più sanguinose pagine, che fosse incinta di
suo marito, mentre la regina Isabella sdegnava prendere queste precauzioni.
In ogni caso, se un sentimento di ripulsione
istintiva allontanò dapprima Carolina dal suo sposo, è probabile che un calcolo
politico ne la avvicinasse ben presto: una donna giovine, bella, ardente, come
era la regina, quand'essa avesse ben studiato il temperamento di suo marito,
avea sempre a sua disposizione un mezzo di fargli fare tutto ciò ch'ella
voleva. Infatti Ferdinando non avea saputo, in nessun tempo rifiutar cosa
alcuna a qualunque delle sue amanti ; a più forte ragione a sua moglie, ed a
quale moglie, a Maria Carolina d'Austria, vale a dire, ad una delle più
seducenti creature che fossevi mai stata.
La sua fecondità quasi annuale cessò nel 1792
per ricomparire nel 1801, se ho da prestar fede ad una lettera del re
Ferdinando al cardinal Ruffo, ma sia abitudine, sia seduzione postuma, ella
esercitò fino al di là dei 50 anni la medesima influenza sopra suo marito.
Ciò che in sulle prime avea contribuito ad
allontanare quella natura dilicata e sensitiva, da quell'altra natura sensuale
e volgare, era il far lazzarone di Ferdinando, così per esempio il re facevasi
spesso portar da cena nel palchetto a San Carlo, e quella cena più sostanziosa
che dilicata, sarebbe stata incompleta senza il piatto nazionale di maccheroni;
ma più che questo, il re apprezzava il trionfo popolare ch'egli traeva del suo
modo di mangiarli. Noi abbiamo detto che i lazzaroni avevano per ingoiare
questa vivanda, una destrezza di mano particolare : il re che, in ogni cosa,
ambiva essere il sovrano dei lazzaroni, non mancava mai di prendere il suo
tondo dalla tavola, di avanzarsi sul davanti del palchetto, e fra gli applausi
frenetici della feccia del popolo, di mangiare il suo piatto al modo di
Pulcinella, il protettore dei mangiatori di maccheroni.
Una volta ch'egli erasi abbandonato a questo
esercizio, e che era stato colmato d'applausi, la Regina non potè sopportarlo,
alzossi dal palco ordinando alle sue donne di seguirla.
Quando il re si voltò trovossi solo.
Ciò che ne fa creder figlio di calcolo, il
riavvicinamento di lei a Ferdinando si è che più tardi ella divise col re
piaceri egualmente grossolani.
Abbiamo detto che il Re aveva formato un
reggimento di soldati ch'egli compiacevasi far manovrare egli stesso e che
chiamava i suoi Liparotti, forse perchè specialmente eran presi dalle isole di
Lipari.
Un giorno egli ordinò una grande rivista
della sua truppa prediletta nella spianata di Portici, alle falde di quel
Vesuvio, eterna minaccia di distruzione e di morte ‑ Due tende magnifiche
furono innalzate, e dal castello reale vi si trasportò vino d'ogni paese, e
comestibili d'ogni sorta.
Una di queste tende era occupata dal re in
abito da oste cioè a dire vestito di tela bianca con una cintola di seta che
stringevagli i fianchi, nella quale era posto il suo coltello da cucina, e con
in capo il tradizionale berretto di cotone.
Dieci o dodici garzoni vestiti come lui,
erano pronti ad obbedire gli ordini del padrone ed a servire i soldati.
Eran quelli i grandi della corte.
L'altra tenda era occupata dalla regina
vestita da ostessa con una gonna di seta color d'azzurro, un giubbettino nero
ed oro, una collana di corallo al collo. Il seno e le braccia erano mezze nude,
ed i suoi capelli senza polvere, cioè nella loro lussuriosa abbondanza, e collo
splendore d'un fascio di spighe dorate dal sole, erano mantenuti da un rete
azzurra.
Una dozzina di giovani donne, vestite da
cameriere di teatro, facevanle uno squadrone volante che non aveva nulla da
invidiare a quello della regina Caterina dei Medici.
Erano desse le dame d'onore di Maria
Carolina.
Qualche cosa di simile succedeva dieci anni
dopo al piccolo Trianon, ed una commedia eguale, alla quale per altro non
mischiavasi una soldatesca grossolana, si rappresentava tra il re e la regina
di Francia.
Il re era il mugnaio, la regina la mugnaia.
La sorte
delle due sorelle non fu di
gran lunga diversa, in quanto a felicità, e forse il palco infame della piazza
Luigi XV fu meno doloroso a Maria Antonietta, di quel che dovette essere a
Maria Carolina il sorbetto avvelenato di Vienna[*3].
Il romore di quest'avvelenamento fè tanto
chiasso che si pubblicò in quella occasione il sonetto seguente
Funerali per me?.... Fin le
mie pene
Inasprite dippiù ‑ Avvelenata!
Piombai
nel nero Averno, e non v'ha speme
Di
dar ristoro all'alma rea dannata
Versai sangue innocente, ed in catene.
Oppressi la virtù ‑ Or
qui piombata
Tra le furie e i tormenti,
un Dio mi tiene
Dal Mondo un giorno, or qui
dal cielo odiata.
Ipocrita, tiranna e prostituta.
E dell'abisso or son furia
perduta.
Al Tartaro dannò l'ira divina
L'anima, di vendette ognor
pasciuta
Dell'infame proterva
Carolina.
E’ vero che quando Maria Carolina
rappresentava questa commedia e dava da bere a quei Liparotti, che dopo poco
ella doveva far licenziare, ella avea un crede ed aveva acquistato il diritto
di entrare nel consiglio di stato dal quale ella volvea far uscire Tanucci.
Il temperamento ardente del re avea mal
sofferto sulle prime i capricci coniugali di Carolina, ed aveva offerto ad
altre donne quell'amore ch'ella disprezzava, ma Ferdinando era talmente schiavo
di sua moglie, che in certi momenti egli non sapeva nemmeno conservare il
segreto delle infedeltà che facevale; allora non per gelosia, ma perchè una
rivale non le rapisse l'influenza alla quale aspirava, la regina fingeva un
sentimento ch'ella non provava, e finiva per fare esiliare colei, di cui suo
marito aveva avuto l'imprudenza di svelarle il nome. Tanto avvenne alla
duchessa di Luciano, che il re medesimo avea denunziato a sua moglie. e che
questa fece esiliare nelle sue terre. Indignata della debolezza del suo reale amante,
la duchessa si vestì da uomo, si mise in un luogo dal quale doveva passare il
re, e lo colmò di rimproveri ‑ Ferdinando riconobbe i suoi torti cadde ai
piedi della Duchessa, le chiese mille volte perdono, ma malgrado ciò ella fu
obbligata a ritirarsi nelle sue terre, dalle quali per sette anni il re non osò
farla ritornare.
Una condotta contraria valse una eguale
punizione alla Duchessa di Cassano Serra. Invano il re aveale fatto una corte
assidua, ella avea ostinatamente resistito. Il re tanto indiscreto nella
tristezza quanto nella gioia, confessò alla regina d'onde venivagli il cattivo
umore.
Carolina, per la quale una virtù immaculata
era un rimprovero vivente, la fece esiliare per la resistenza, come aveva fatto
bandire la Duchessa di Luciano per la disfatta[*4].
Anche questa volta il re la contentò.
E' vero pure che in qualche momento la
pazienza lo abbandonava. Un giorno la regina, non potendo prendersela con una
favorita, attaccò un favorito. Era questo il Duca d'Altavilla contro il quale
ella credeva aver qualche motivo di lagnanza.
Or siccome nelle sue collere, dimenticando
d'essere padrona di se medesima, la regina non risparmiava le ingiurie, ella
giunse a dire al Duca ch'egli comprava il favore del re con compiacenze indegne
d'un galantuomo.
Il Duca d'Altavilla, ferito nella sua
dignità, andò immediatamente a trovare il re, al quale raccontò quanto era
avvenuto, e gli domandò il permesso di ritirarsi nelle sue terre. Il re furioso
recossi immediatamente nelle stanze di sua moglie, e siccome invece di calmarlo
ella lo irritava coi suoi rimproveri acerbi, quantunque figlia di Maria Teresa,
Ferdinando le diede un sonoro man‑rovescio.
La regina si ritirò nel suo appartamento, vi
si rinchiuse fece il broncio, ma questa volta il re tenne fermo, ed ella
dovette fare ì primi passi per la riconciliazione, e dovette chiedere al
medesimo Duca d'Altavilla di farle far la pace con lo sposo.
Noi crediamo in grazia di questa serie di
quadri, di cui garentiamo l'autenticità d'esser giunti a far conoscere il
carattere dei due coniugi, di modo che nessuno abbia a meravigliarsi del loro
sviluppo.
Una donna dolce, amante, persuasiva avrebbe facilmente
incatenato al bene Ferdinando, di cui il cuore era naturalmente buono e lo
spirito naturalmente giusto : una donna facile all'odio, vendicativa,
irascibile lo condusse al male, e noi vedremo in due o tre circostanze. quali
mezzi dovettero essere adoperati per farlo entra. re in questa via.
Terminiamo questo capitolo con un aneddoto,
il quale completerà il ritratto del Re, nel suo aspetto di bonomia. Noi non ne
avremo molti altri, del medesimo genere da raccontare.
Il re era a Capodimonte dove dava udienza, ed
a questa, tutti potevano entrare senza lascia passare, e senza lettera di
chiamata, onde avveniva che, spesso i postulanti essendo numerosi, bisognava
aspettar lungo tempo.
Un curato, il quale aveva una grazia da
chiedere al re, e che viveva in un piccolo villaggio distante tre o quattro
leghe da Napoli, temendo che il tempo d'aspettare si prolungasse al di là
dell'ora del suo pranzo, mise in tasca un pezzo di pane e di formaggio, non per
mangiare nell'anticamera reale, poichè il povero curato non avrebbe commesso
simile empietà, ma per calmar la fame appena finita l'udienza.
Dopo un certo tempo il bravo uomo entrò.
Secondo il solito il re aveva, vicino alla
sua seggiola a bracciuoli, il suo cane da caccia favorito, grande epagneul, dal
naso fino, incapace di confondere, come lo fa qualche volta un cane mediocre,
l'odor d'un'allodola con quello di un lepre.
Appena il prete ebbe aperto la porta,
l'animale aprì le narici, e mosse la coda, poichè l'odore del formaggio è uno
di quelli più graditi ai cani da caccia, che hanno una irresistibile tendenza
per questo comestibile.
Così a misura che il prete avvicinavasi
facendo gran numero di riverenze, il cane sollevavasi, e con l'aria sua più
carezzevole avvicinavasi al curato.
Il prete, il quale non credeva forse le
dimostrazioni dell'animale tanto amichevoli quanto lo erano, vedevalo
avvicinarsi, e manovrare alle sue spalle con una certa inquietudine.
Fu ancor peggio quando, nel mezzo
dell'esposizione della sua domanda, egli intese il muso del cane in con. tatto
con la parte posteriore della sua persona.
L'amore del re pei suoi cani era noto, onde
non eravi da sbarazzarsi, mercè un pugno o un calcio, dell'indiscreto animale,
che cominciava a spingere l'indiscrezione fino all'importunità.
Il re divertivasi oltremodo dell'imbarazzo
del prete; ma finalmente vedendo che l'affare complicavasi e che quegli
cominciava a dar segni di terrore
‑ Perdono, padre mio, gli diss'egli, ma
cosa avete nelle vostre tasche che Giove vuol per forza guardarvi dentro ?
_ Ahimè, sire, rispose il prete, un semplice
pezzo di pane e di formaggio, destinato al mio pranzo atteso che ho da fare
ancora tre leghe pria di giungere alla mia cura, ed io non sono ricco
abbastanza per pranzare in città.
‑ In fede mia, fece il re, non so se
dite il vero circa al pane, ma pel formaggio la va così, perchè ecco Giove che
è giunto a prenderlo, ed ora che il pane solo è rimasto credo che potete
espormi il vostro affare, Giove non vi molesterà più.
Il curato disse quanto domandava, ed il re
ascoltollo con grande attenzione.
‑ Sta bene, disse Ferdinando, quando il
curato ebbe finito, ci penserò.
Ma, contro le previsioni del re, Giove dopo
aver mangiato il formaggio, sembrava essere intenzionato fare altrettanto col
pane.
‑ Via disse il re, non fate il
sacrificio a metà. buon padre, vuotate completamente la vostra tasca.
‑ Tutto ciò è bello e buono, sire,
disse il prete, ma il mio pranzo?
‑ Non ve ne date briga, ci penserò io.
Il curato dà il pane a Giove ed esce.
Come il sassolino del poeta Sadi, che non era
la rosa, ma ch'era stato vicino ad essa, il pane non era mica formaggio, ma era
rimasto vicino a lui.
Mentre Giove mangiava il pane, il re suonò.
‑ Fate dare un buon pranzo al prete che
esce dal mio gabinetto, diss'egli all'usciere, e fate che egli rimanga almeno
un'ora a tavola.
E durante quell'ora Ferdinando tornò a Napoli
e spedì l'affare del prete, in modo che rientrando nella sua pieve, già
riconfortato da un buon pasto, egli seppe che il favore chiesto da lui al re,
eragli accordato.
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