I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro I 

 

Ferdinado IV° o I°.                                                                                               CAPITOLO VI.

 

In questo frattempo Clemente XIV, più conosciuto sotto il nome di Ganganelli, morì.

Diamo qualche particolarità su questo Papa, la cui vita e la morte stessa, secondo ciò che dicono alcuni, si connette a quel grande atto dell'espulsione de' gesuiti, ai quali Carlo III era così avverso perché, quand'egli nacque, avean fatto correr la voce ch'egli non era figlio di Filippo V, ma del Card. Alberoni. Perciò appena gli si presentò l'occasione di vendicarsi di loro non la lasciò sfuggire.

Ganganelli era, certamente, un uomo raro fra i claustrali perché non aveva nessuno de' loro vizi. Egli ebbe pochi intrighi con le donne, ed una sola, ciò che era ben piccola cosa in que' tempi, potè comprometterlo per un momento. Il leggero scandalo che ne nacque bastò a correggerlo. Sorpreso dal marito d'una donna ch'egli amava, e costretto a scendere la scala un po' troppo rapidamente fè una caduta che l'obbligò a rimanere a letto per tutta una settimana, caduta di cui non potè nascondere la cagione.

Egli non simulava una straordinaria devozione. Era religioso, ed adempiva i doveri della religione: ecco tutto senza menar vanto della sua regolarità, senza simulare le pratiche austere d'un cenobita, la temperanza e l'umanità furono le sue virtù favorite, esse il seguirono quando abbandonò la sua cella per abitare il palazzo del Vaticano. Queste sono le virtù che Canova, il quale non era sempre chiamato a scolpire simili uomini, raffigurò, co' loro attributi, sulla sua tomba, la quale è nella chiesa de' SS Apostoli in Roma

Educato fra i claustrali egli conosceva meglio d'ogni altro, gli abusi ed i vizi degli ordini religiosi. Stimava che l’obbligo non doveva ritenere nessuno nel chiostro. Quando fu Papa, si mostrò costantemente disposto a spezzare i legami religiosi delle persone, dell'uno o dell'altro sesso, che si rivolgevano a lui per farsi sciogliere da'loro voti. Egli diceva spesso che amava meglio vedere un secolare che vivesse in un modo onorevole che un religioso che vivesse in un modo scandaloso... Se avesse vissuto un altro poco di tempo, è certo che avrebbe ridotto ad un piccolissimo numero le società religiose in quel tempo propagatesi oltre misura nei paesi cattolici.

Ganganelli avea capito il suo tempo, a l'indebolimento del, potere pontificio.

Egli sapeva perfettamente che non viveva al tempo in cui i Sovrani Pontefici toglievano o davano con una parola i regni. Al suo assidersi sulle cattedra di S. Pietro trovò il Portogallo interamente ribellato contro la S. Sede; la Spagna, Napoli, Parma, sul punto d'imitarlo secondati, siccome erano. dalla Francia. Clemente XIV cominciò dallo scrivere una lettera molta lusinghiera al Marchese di Pombal, l'onnipossente ministro. Gli diceva che il Sacro Collegio aveva bisogno, per riempire alcuni posti vacanti, di soggetti ugualmente segnalati per la pietà, e pel sapere. Non credeva poter far meglio che di conferire la porpora romana al fratello del Marchese, D. Paolo di Carvalho. TI Cardinale fu preconizzato, ma morì prima d'aver ricevuto il cappello, Subito il Papa scrisse al favorito di Giuseppe I una lettera di condoglianze, nella quale gli manifestava tutto il suo rammarico della morte di suo fratello, e pregava il ministro portoghese di volergli indicare il soggetto che egli credeva essere più degno di quest'onore. Il Marchese di Pombal fu lusingato da questa prova di stima, e ne seguì una riconciliazione completa fra il Portogallo e la Corte di Roma; la Nunziatura fu ristabilita e tutto tornò sul piede antico.

Ganganelli portò nel Palazzo de' Sovrani Pontefici tutta la semplicità de' costumi d'un semplice religioso.

Egli non cambiò in nulla la sua maniera di vivere, continuò a farsi servire dal frate laico che aveva al Convento per servirlo, e che era, nello stesso tempo, il depositario del suo particolare peculio. Egli aveva tanto poco l'idea del valore del danaro, che, dando venti scudi, credeva dare una somma enorme e bastante a nutrire quell'uomo suo per sei mesi dell'anno.

Non aveva nessuna idea d'aritmetica, d'agricoltura, di commercio, d'industria, la teologia e le materie di controversia erano le sole cose che avesse studiato accuratamente, ma l'Economia politica, cioè la scienza più importante pel Capo dello Stato, la più spinosa che vi fosse al mondo per le sue finanze, gli era assolutamente sconosciuta.

Egli aveva promesso di abolire l'Ordine de Gesuiti, e differiva sempre, non per amore de Religiosi, ma per paura che questa soppressione fosse la sua sentenza di morte. Egli scrisse al Re di Spagna che non poteva dare la bolla senza essere sicuro che sarebbe bene accolta da tutti i Principi cattolici, ma che credeva che la corte di Vienna non entrerebbe mai in questa coalizione di Sovrani contro l'ordine dei Gesuiti. Se la cosa fosse stata così, Ganganelli aveva infatti un pretesto plausibile contro la Corte di Madrid e per non dar fuori la bolla di soppressione, la verità è che Maria Teresa non vedeva di buon'occhio il progetto di distruggere la Società, e pareva disposta ad opporvicisi.

Ma il Re di Spagna, particolarmente indignato, noi abbiam detto perché contro la Società di Gesù, trova il modo di procurarsi, a forza di danaro, una copia autenlica d'una confessione generale, che l'imperatrice avea fatta al padre Kanphenhuller suo confessore. Maria Teresa fu talmente stupefatta nel vedere quel documento, che le importava tanto di tener secreto, fra le mani del Re di Spagna che dette, immediatamente, il suo consen­so, ciò che non permise più al Papa di tirarsi indietro.

Appena Ganganelli ebbe sottoscritta la bolla d'abolizione de' Gesuiti, si credette avvelenato; la sua immaginazione spaventata non gli figurava più che fantasmi. Egli risvegliava spesso il frate laico che lo serviva, e che, dopo la fatale sottoscrizione, faceva coricare presso di lui, dicendogli.

All'erta, all'erta. Non hai veduto il mostro? Esso ha la testa di toro, ed il corpo d'un uomo.

Una volta al giorno si sentiva pronunziare parole senza senso che dimostravano il disordine delle sue idee, ed il terrore che s'era impadronito di lui. Se avesse vissuto, secondo ogni probabilità, quell'uomo sì dolce, quel filosofo così, inoffensivo, avrebbe fatto innalzare un patibolo in ogni piazza di Roma. Fu trovata, dopo la sua morte, una lista di parecchie persone ch'egli si disponeva a far imprigionare nel Castel S. Angelo, ed un segno particolare indicava coloro la cui testa doveva cadere.

Non è punto probabile che Ganganelli sia morto avvelenato, come si dice, ma, al contrario, tutte le probabilità sono che sia morto d'una febbre perniciosa, cagionata dall'insonnia, e dall'indebolimento, in cui l'avea ridotto il terrore.

Dopo la sottoscrizione della bolla egli stiè costantemente rinchiuso in una camera, riscaldata da una stufa ardente, che rendeva l'aria tanto malsana che quelli che restavano colà, soli pochi minuti per l'udienza, ne uscivano incomodati.

Egli aveva strappato dal suo breviario l'immagine di una Madonna che conservava da quarant'anni, e nella quale aveva la più gran fede.

Questa madonna era nella sua camera da dormire presso il letto in cui morì, illuminata da due candele che ardevano d'innanzi a lei continuamente[*1] .

Il BELL'ANGELO BRASCHI gli succedette.

L'elezione di Pio VI fu una di quelle ironie dell'istoria che fuorviano anche la pietà, o, se si ama meglio, che attestano l'intervento della Provvidenza, che vuol la fine ed il rinnovamento d'ogni cosa.

Alla vigilia de' formidabili avvenimenti che si preparano in Francia, e che sono per trascinare l'Europa in una rivoluzione universale si vede salire sul trono di Gregorio VII e di Sisto V questo Bellimbusto dalla testa vuota, questo dissipatore frivolo, aggirato come un Valois, di cui ha i vizii, da' suoi favoriti ; questo parlatore armonioso, e volgare, il quale pretendeva non aver bisogno se non che d'un semplice abboccamento per convertire Giuseppe Il con la sola grazia e con la sola seduzione delle sue maniere.

Diciamo che cos'era Angelo Braschi, donde veniva, e per qual mezzo era salito sul trono.

Braschi era figlio di un povero gentiluomo di Cesena fu mandato, quasi fanciullo ancora, per richiedere un canonicato alla cattedrale di Cesena.

Ebbe la fortuna di non ottenerlo.

Il futuro Papa non era stato giudicato degno di essere canonico.

Questa prima volta non si sbagliò, si sbagliò la seconda volta; ma ciò che non doveva fare la sua capacità il fè il suo volto.

Braschi aveva, come dicevano allora i poeti, una carnagione di gigli e di rose; lunghi capelli biondi, naturalmente ricci, attorniavano un volto da cherubino: era bello in tutta l'estensione della parola.

Ne risultò che il Cardinal Ruffo, zio di quello che avrà una gran parte nella nostra storia, considerò questa bellezza nello stesso modo in cui si dice che Socrate considerasse la bellezza di Alcibiade; lo alloggiò nel suo palazzo , lo fece entrare nella prelatura, gli fè dare un canonicato nella chiesa di S. Pietro, e, morendo, gli lasciò una pensione.

Qualche tempo dopo la morte del suo protettore, Braschi si trovò una protettrice: divenne l'amante dell'amica del Cardinale Rezzonico, nipote del Papa.

Il Cardinale gli fè avere la carica di Tesoriere, la quale non si lascia se non che ricevendo in compenso il cappello di Cardinale.

Questa carica, Ganganelli, uomo onesto, se ve ne fu giammai, gliela tolse, preferendo avere un cattivo Cardinale dippiù, ed un tesoriere prevaricatore di meno.

Braschi andò a ringraziare sua Santità del cappello che gli aveva dato, e Ganganelli, che spingeva la franchezza fino all'ingenuità, gli disse - Non mi ringraziate, vi ho fatto cardinale perché volevo dare il posto di tesoriere ad un uomo, la cui probità non potesse essere sospettata.

Egli era lungi dal pensare allora che quegli, cui diceva questa dura verità, sarebbe un giorno suo successore.

Malgrado la sua pretensione alla scienza Braschi non era nemmeno un erudito. Egli non ha composto nessuna opera che valga la pena d'esser citata. Aveva la conversazione facile, ma senza profondità. I suoi discorsi, quando ne faceva, erano un composto d'espressioni brillanti, ma che non avevano niente di nuovo, e nessuna importanza. Un tono di voce piacevole, una fisonomia ama bile, e piena di seduzione; le grazie del suo gesto davano alle sue parole un incanto, di cui sarebbero state prive senza quell'aiuto. Malgrado questa mediocrità, Pio VI, ad esempio d'alcuni sovrani semplicemente temporali, voleva governare gli affari di Roma senza la mediazione de' suoi ministri.

Ma siccome, in questa specie d'amministrazione, si tratta di questioni, nelle quali sono implicati la teologia, i canoni, e la giurisprudenza ecclesiastica sarebbe abbisognato essere più versato di quel ch'egli si fosse in queste materie per risolvere le difficoltà sovente molto spinose, che si presentavano. Avrebbe dovuto possedere a fondo l'istoria ecclesiastica, quella di conclavi, quella delle opinioni, delle tradizioni degli atti, delle diverse società nelle quali la chiesa è divisa, e Pio VI, al contrario, aveva appena una leggera tintura di tutte queste cose.

Nonpertanto scriveva ai vescovi ed a principi stranieri senza consultare le persone che avrebbero potuto illuminarlo.

Questa presunzione gli fè commettere spropositi sopra spropositi, gli ispirò il famoso viaggio di Vienna, durante il quale egli sperava convertire l'Imperatore, ed in cui espose la dignità pontificia alle risate degli oltramontani.

Se, invece di operare secondo il suo solito, di sua propria volontà, e da se solo, avesse consultato i Cardinali, che conoscevano la corte imperiale, non si sarebbe arrischiato a fare un viaggio che non gli riserbava altro che umiliazioni.

Pio VI bestemmiava come un cocchiere e, sotto la tiara, non aveva potuto perdere quella cattiva abitudine della sua gioventù.

 

Le popolazioni del Tirolo, dell'Alemagna e di Venezia furono molto sorprese nel sentirlo bestemmiare, e nel vederlo adirarsi contro i suoi servitori fino a dar loro pugni e calci. Benedetto XIV Lambertini, pure, avea l'abitudine di bestemmiare, ma siccome s'era renduto illustre per molte opere di un merito reale, il valore dell'uomo faceva passar sopra a questa particolarità. Egli era arrivato al Pontificato, non già per il suo bel volto, ma per le sue virtù e per la sua scienza. Egli mescolava alle sue bestemmie degli scherzi piacevoli, mentre Pio VI non temperava in nessun modo i suoi detti grossolani e la brutalità delle sue collere.

Diamo ai nostri lettori una idea del modo, in cui Pio VI intendeva la giustizia.

Nel mese di settembre del 1787 alcuni ladri fecero più volte dei tentativi per introdursi nella bottega d'un tal Rovaglio, orologiaro del Papa. Essi provaronsi a rompere la porta, ma, al rumore che fecero, la gente si svegliò ed il furto non potè essere portato a fine. L'indimane l'orologiaro andò a lamentarsene col Governatore di Roma Monsignor Brusca. Il prelato diè le più belle parole, ma non prese un provvedimento, non fece la menoma ricerca, non ordinò la menoma perquisizione. Tre giorni dopo i ladri ritornarono all'assalto, ma Rovaglio, che avea veduto che non potea far conto dei soccorsi della polizia, s'era così ben fortificato che questa volta pure i briganti dovettero abbandonare l'impresa.

Ciò accadeva in una delle strade più frequentate della città.

Alcuni giorni dopo Rovaglio essendo andato al Vaticano per regolare gli orologi, il Papa gli domandò qualche notizia su quell'affare.

Rovaglio gliene diè dicendogli di non aver potuto ottener nulla dalla polizia.

Perché dirigervi a lei, gli disse il Papa, provvedetevi di fucili e di tromboni, tirate su que' birbanti e quanti ne ucciderete tante assoluzioni vi do fin da adesso.

Costantemente occupato dalla sua bellezza accomodando il suo contegno avanti allo specchio appena restava solo, studiando i suoi gesti come il commediante che ripeta la sua parte, Pio VI voleva negli altri quegl'istessi vantaggi esterni di cui era dotato. Un bell'uomo quand'anche fosse un idiota era sicuro d'ottenere ciò che voleva; un brutto viso quand'anche ricoprisse uno spirito superiore era ostinatamente respinto.

In una disputa accademica i Direttori del collegio di Propaganda fecero pronunziare un discorso da un giovine negro del Congo presente il Santo Padre.

Si credeva piacere al Papa mostrandogli quanto la Chiesa era estesa poichè aveva de' fratelli fin sotto la Zona Torrida. Ma il Congo non importava nulla a Pio VI poichè non ne ricavava nè oro nè argento nè pietre preziose; egli non vide nell'oratore Africano se non che un negro, la cui bruttezza gli parve disgustosa e dimostrò il più grande malcontento e raccomandò che per l'avvenire non lo esponessero più a veder cose così dispiacevoli.

Pio VI era attaccato dalla funesta malattia del nepotismo, cangrena che divora i tre quarti de' Sovrani Pontefici.

Egli avea due nipoti: Il Duca Principe Braschi Onesti: Il Cardinale Braschi Onesti.

Ci occuperemo per un momento di tutti e due; poi ritorneremo allo zio.

Allorchè si dice a Roma il Principe‑Duca, o la Principessa‑Duchessa, si vuol parlare del nipote o della nipote del papa regnante.

Il Principe‑Duca era figlio della sorella di Braschi, la quale avea sposato un bravo uomo di cognome Onesti.

Braschi, essendo diventato papa, si credette dover trovare un'origine patrizia al nipote di sua Santità, sufficientemente nobile da parte di sua madre.

Allora un genealogista scoprì nella vita di San Romualdo, fondatore d'un ordine religioso, la qua] vita è scritta in latino, le parole seguenti :

 

Romualdus ex HONESTIS parentibus natus.

 

Dall'epiteto honestis egli fè il nome patronimico del Santo, e stampò nel 1787, con un gran lusso tipografico, un'opera, nella quale si provava, chiaro come il giorno, che il marito della sorella di Braschi, il padre de' suoi due nipoti discendeva dalla famiglia ONESTI, cioè dalla stessa famiglia di San Romualdo.

Incominciamo da questo nipote: il Duca‑Principe Braschi‑Onesti.

Allorchè egli venne da Cesena a Roma chiamato da suo zio, era così ignorante che ogni cosa era per lui soggetto di maraviglia ; era un selvaggio trasportato tutto ad un tratto, in mezzo alla folla, e domandando il nome e l'uso di ciascuna cosa.

Trovandosi presso il Principe Borghese, appoggiato al camminetto, desiderò un bicchier d'acqua.

La principessa gli disse di tirare due volte il cordone, che stava accanto a lui.

Questo era il segno convenuto coi camerieri perché portassero rinfreschi

Il Principe‑Duca tirò due volte il cordone senza sapere quel che faceva, ed unicamente per ubbidire all'invito della principessa.

Ma la sua maraviglia fu immensa, allorchè vide entrare il cameriere con una guantiera, ove erano rinfreschi di ogni specie.

Bisognò spiegargli il meccanismo dei campanelli che stentò molto a capire, e che quando l'ebbe capito, eccitò la sua ammirazione per tutta la serata.

La stessa sera egli risvegliò suo zio per raccontargli la scoperta che avea fatto.

Pio VI ebbe tutte le pene di questo mondo per fargli intendere che era uno sciocco.

Un'altra volta, si trovò in casa del marchese Boccapeduli‑Gentili, si venne a parlare del teatro francese: di Racine, di Molière, di Voltaire. Tutti questi nomi gli erano sconosciuti, ed egli si maravigliava che la Marchesa non solamente conoscesse i nomi degli autori, ma conoscesse anche le loro opere; uno solo non gli era straniero: era Voltaire. Solamente egli lo confondeva con Lutero.

La Marchesa rilevò questo errore dicendo al PrincipeDuca che Voltaire, morto da pochi anni solamente, era suo contemporaneo; ch'egli aveva scritto sulle religioni alcune cose che si potevano biasimare, ma tante altre che moltissime persone ammiravano.

Ad ogni parola, la meraviglia del Principe‑Duca cresceva, e produceva delle estasi.

Gorani, dal quale noi togliamo la maggior parte di questi aneddoti, s'incontrò con lui in parecchie case nel suo primo viaggio d'Italia, e non la finisce più sulla sciocchezza, e sulla ignoranza di questo personaggio romano.

« Un giorno, racconta Gorani, che io desinavo con lui presso l'ambasciatore di Venezia, si parlò di Vienna.

Egli disse che, se vi dimorasse passerebbe la sua vita nella galleria de' quadri, e vi resterebbe in contemplazione innanzi La Notte del Correggio. Ora non sarebbe permesso a Roma, neppure ad un uomo del popolo, d'ignorare che quel quadro appartiene all'elettore di Sassonia, e che è stato comprato, insieme con molti altri, dalla galleria di Modena, da Augusto II. Questa ignoranza del Duca parve incredibile a coloro che lo sentivano, ma uno di costoro, straniero, e poco curandosi di contraddire il nepote del Papa, gli disse che quel quadro era a Dresda, ove l'avea visto egli stesso.

Il Duca, senza sconcertarsi, gli rispose

« Volete voi saperne più di mio zio il Papa, che è infallibile, e che me l'ha detto? »

Il Papa ha cura di farsi informare del modo in cui il Principe si comporta nelle società ove si trova e non cessa di ripetergli: « Impara almeno a tacere poichè non puoi imparare a parlare. »

Il Principe‑Duca era un bellissimo uomo, solamente aveva il viso d'un atleta siccome ne aveva la forza: la sua fisonomia era volgare, il suo contegno senza dignità. Egli era ordinariamente duro, avaro ed insolente con gli uomini del popolo, finchè costoro non gli rispondevano ; ma se per caso egli ne trovava uno che gli rispondesse con voce ferma, taceva e tremava.

Il Papa sapeva quel che voleva questo idiota, conosceva i suoi difetti, i suoi vizi, la sua asinità, lo disprezzava e lo colmava di beni. Gli aveva fatto sposare la figlia d'una delle sue amiche che si pretendeva fosse sua figlia, cosa che Pio VI negava, volendo sì riconoscersi adultero, ma non incestuoso.

Il 6 ottobre 1787 la Principessa‑Duchessa si sgravo d'un fanciullo, avvenimento che colmò il Papa di gioia. Nel momento in cui n'ebbe la notizia era con un prelato fiammingo che gli dava parte del ritorno del Brabante sotto il dominio dell'Imperatore.

« Sebbene lo sgravo di mia nipote mi cagioni una grande soddisfazione, gli disse Braschi, tuttavia ciò che più interessa al mio cuore è di conoscere le cose consolanti di cui mi fate il racconto.

Siccome si sapeva che far la corte alla Principessa-Duchessa era lo stesso che far la corte al Papa, tutto il Sacro Collegio ed il Corpo della Prelatura si segnalò quando la Provvidenza divina si degnò accordare al Papa un nipotino. Ogni Cardinale, ogni alto dignitario fece a gara nel fare regali alla madre ed al fanciullo.

Qualche cosa simile accadde a nostri giorni sotto il pontificato di Gregorio XVI allorchè sgravossi la moglie del suo barbiere.

Questo felice avvenimento giungeva per compensare un gran timore che aveva avuto da poco Sua Santità, e dal quale s'era appena riavuta.

Il Cardinal Braschi Onesti, fratello del, Duca‑Principe, era stato poco tempo prima in pericolo di perdere la vita. Erano stati chiamati tutti i medici di qualche nome, dimodochè la cagione della sua malattia non era un mistero per nessuno.

Questa malattia che era uno spossamento completo era cagionato dagli eccessi di tavola e di donne, ai quali Sua Eminenza s'era abbandonato in un viaggio che aveva fatto a Ferrara, a Bologna ed a Venezia. In quest'ultima città aveva scommesso di far fronte egli solo a cinque convitati maschi ed a cinque convitate femmine.

Mancò poco che non morisse d'ingestione da un lato, dall'altro d'esaurimento di forze.

Fu salvato a grande stento.

Pio VI era fastoso ed avaro nello stesso tempo, e per soddisfare a questa doppia passione si dava, qualche volta, a fare speculazioni che avrebbero condotto al bagno l'uomo che la sua onnipotenza non avesse sottratto all'azione dei tribunali. Errico IV, che era ladro naturalmente ma che confessava i suoi furti senza potersi trattenere dal commetterli diceva : Se io non fossi re sarei stato già impiccato due o tre volte.

Pio VI poteva dire,

« Se io non fossi Papa starei, in galera ».

Citiamo due o tre aneddoti in appoggio di ciò che abbiamo detto.

Questi aneddoti ce li racconta Gorani. Essi accaddero sotto i suoi occhi durante il suo primo viaggio a Roma.

Copiamo testualmente questo veridico e curioso autore.

« Durante il mio primo soggiorno a Roma vi era giunta una gran quantità di piastre per il pagamento delle pensioni degli ex‑gesuiti spagnuoli. Esse erano state trasportate da Cadice a Civitavecchia da un vascello francese, di là a Roma e deposte alla zecca. Questo danaro mandato dalla corte di Madrid, e destinato unicamente al pagamento di quelle pensioni apparteneva a'gesuiti che avevano tanto più diritto di goderne, in quanto che quella moneta è molto stimata a Roma ed in tutta l'Italia, e comunissima nel medesimo tempo. Se ne vedono anzi a Roma ben poche di altro conio.

Il papa non avea dunque nessun pretesto, nessuna scusa legittima da addurre per arbitrarsi di cambiare la natura di quel pagamento e molto meno per alterare il valore di quel danaro che non era suo.

Egli imitò la condotta degli ebrei incaricati al Marocco o in Algieri della direzione della zecca.

Egli fè coniare de' paoli, dei papetti, dei testoni, dei grossetti, moneta di bassissima lega ed osò alterare anche di più il titolo di quelle d'oro, che coniò col danaro de'gesuiti. Tutti negozianti e specialmente Feuekins ed il cavaliere Azara, m'hanno assicurato che il papa avea rubato su quella operazione il ventisette per cento e Roma fu infetta di questa piccola moneta alla quale mancava quasi un terzo del valore stabilito dalla legge.

I gesuiti vollero lagnarsi di questa bassezza ma fu loro risposto :

« Che importa in qual moneta voi siete pagati purchè quella che vi sarà data abbia corso come se fossero piastre ?

Questo miserabile sofisma non copre punto l'azione che egli pretende giustificare. Quest'operazione fece crescere il valore delle piastre di un decimo ed il furto fatto a’gesuiti dal sovrano pontefice, tolse a quegli infelici il guadagno che avrebbe loro procurato quest'aumento il quale non si trova se non che nel commercio e nell'agiotaggio. Ma il Padre comune de'fedeli non si limitò a questa birberia. Egli non si contentò di rubare il ventisette per cento sulle piastre che appartenevano in natura ai gesuiti; egli non volle pagar loro la meschina pensione neppure con le monete alterate onde avea fatto una grande emissione. Egli ordinò che il pagamento fosse effettuato in carta che perdeva allora il tre e mezzo per cento.

Questo agiotaggio odioso disgustò tutti i romani che dimostrarono chiaramente la loro indignazione. Il papa conosceva tutti i loro discorsi, ma vi faceva pochissima attenzione ; egli si glorificava al contrario di questa azione che citava con compiacenza.

Si sa che i gesuiti in questa occasione indirizzarono i loro lamenti a Carlo III pregandolo di dare l'incarico nell'avvenire, dei loro pagamenti, al Cav. Azara suo ministro, la cui estrema probità era da loro conosciuta.

Carlo III, indignato della condotta del sovrano pontefice prese de'provvedimenti perché i monaci non dovessero da allora in poi soffrire simile prepotenze.

Lasciamo da parte la magnifica casa di Frascati che apparteneva alla Camera Apostolica e che era stata presa in affitto da'gesuiti portoghesi.

Poi VI, atteso che la sua rendita si elevava a 4000 scudi per quanto fossero mal coltivate le terre che la circondavano, gettò gli occhi su quella casa riguardandola come una mirabile residenza d'estate per il Principe‑Duca. Ne cacciò i gesuiti e ne fè dare una locazione enfiteutica perpetua al Principe‑Duca, mediante il canone di 50 scudi l'anno.

Ma arriviamo al processo che fece il grande scandalo del suo regno.

Vi era a Roma un facchino di Busse, villaggio nelle vicinanze di Milano, chiamato Carlo Ambrogio Le Pri, il quale avea fatta una fortuna considerevole col suo lavoro e colla sua industria: egli avea preso a censo dalla camera apostolica alcune proprietà presso Comacchio ed altre nella Marca d'Ancona. Avea fatto infine una fortuna talmente favolosa, particolarmente per que'tempi, che era valutata a 800,000 scudi romani cioè a 4,400,000 lire della nostra moneta.

Le Pri avea tre figli: Amasi, Giuseppe, e Giovanni.

Egli fè loro donazione fra vivi ed irrevocabile di tutti i suoi beni riserbandosene l'usufrutto vitalizio ed assoggettandoli ad un fedecommesso perpetuo nel quale i tre fratelli sarebbero sostituiti a tutti gli altri, in caso di morte di ciascuno di loro, senza figli maschi.

Giovanni, il maggiore mori senza lasciare posterità poco dopo suo padre; Giuseppe morì per il secondo, lasciando una sola figlia chiamata Anna Maria; Amasi si era fatto prete.

Rimasto l'ultimo de'tre egli godeva di tutti i beni e pretendeva d'avere il diritto di privarne Anna Maria, di cui non amava punto la madre. Tutti i giureconsulti di Roma erano di parere contrario, e sostenevano, secondo i termini della sostituzione, che essa terminava con la nipote, cui i beni dovevano passare.

Il prete Amasi si fè autorizzare da'Tribunali a poter disporre arbitrariamente di questi beni, ma tutti i legali avendogli assicurato che quegli atti erano nulli, e che ciò si proverebbe facilmente, ricorse ad un altro mezzo: subornò alcuni testimoni, ai quali fè deporre che Anna Maria non era legittima.

Il processo era arrivato a questo punto allorchè Pio VI messo a giorno dell'affare, ebbe l'idea d'appropriarsi quella immensa fortuna. Pio VI, come si sa, non era molto schifiltoso pe' mezzi, entrò in trattative con Amasi, per mezzo d'un certo Nardini, birbante matricolato e di tutta sua fiducia. Nardini era incaricato di fare osservare ad Amasi che suo padre avendo fatto la sua fortuna ne' stati Pontifici sarebbe un atto di giustizia, poiché Anna Maria non era legittima, di fare donazione di tutti i suoi beni al Papa. Questi in cambio colmerebbe d'onori Amasi, e comincerebbe dal dargli il cappello di Cardinale. Amasi accettando soddisfaceva nello stesso tempo il suo odio ed il suo orgoglio. Egli fè a Pio VI una donazione in regola di tutta la sua fortuna lasciandogli piena libertà di disporne come voleva. Il Papa pose immediatamente suo nipote il Principe‑Duca in possesso di quegli immensi beni.

Amasi reclamò il suo cappello Cardinalizio, e gli ono­ri straordinari di cui Pio VI dovea colmarlo, ma Pio VI rispose che certamente Amasi era pazzo, e che egli ignorava totalmente ciò che volesse dire.

Amasi non potè reggere a questo colpo; cadde ammalato dal dispiacere, dal dolore e dal rimorso, fè un testamento, nel quale dichiarò che la donazione di tutti i suoi beni, che egli avea fatto al Papa, era il frutto del tradimento de'suoi agenti; che egli avea ceduto all'ambizione che avea fatto nascere in lui la promessa del cappello, ed all'odio che avea per sua cognata. Implorava il perdono di sua cognata e di sua nipote, accusava il Papa, annullava la donazione, e se ne appellò alla giustizia de' Tribunali.

Nardini morì in quel frattempo, confessò altamente la parte che avea rappresentata, accusò Pio VI e spirò domandando giustizia per Anna Maria la legittima crede.

Il testamento d'Amasi, la confessione pubblica di Nardini furono ben presto conosciuti da tutta Roma: la cupidigia di Pio VI era conosciuta da lungo tempo, la indignazione pubblica arrivò al colmo.

Ma Sua Santità era superiore a queste miserie. Egli attribuì l'atto di Amasi ad un miracolo di S. Pietro che avea toccato il suo cuore; quanto ad Anna Maria e sua madre che potevamo mai fare? Litigare contro il Papa? Erano sicure di perdere : aspettare pazientemente la sua morte era la cosa più sicura. Ma il silenzio delle povere vittime produsse un effetto al quale erano lontane da aspettarsi. L'indignazione diventò generale, il mormorio prese la forza dell'accusa ed il Papa stesso si decise di provocare un giudizio che egli sapeva bene che riescirebbe in favor suo assicurando a suo nipote una fortuna che sarebbe stata molta incerta se si fosse trasferita la causa dopo la sua morte.

Obbligò dunque Anna Maria ad intentargli un processo ed a far valere i suoi diritti. Ma allora la compassione che ispirò l'orfanella alla quale non si voleva lasciare neppure il rifugio del silenzio, diventò cosi grande, l'ingiustizia contro la quale l'obbligavano a reclamare era così evidente, che i giudici, meno spinti dalla loro coscienza che minacciati dall'indignazione pubblica, parvero disposti a confermare il giudizio del pubblico.

Il Papa tremò, si sentì vicino ad essere condannato e, per conseguenza, a perder tutto. Procurò di corrompere i membri del Tribunale, ma la paura gli rendette incorruttibili. Propose per ciò una transazione che Anna Maria si affrettò di accettare. Furon fatte due parti eguali de'beni, una restò al Principe‑Duca, l'altra ritornò ad Anna Maria, e le cose restarono in questa stato, ma la macchia d'infamia rimase al Papa, il quale non esitava a ricorrere a simili mezzi per arricchire suo nipote e la moglie di lui, figlia della sua amica e che dicevano anzi essere sua propria figlia.

Abbiam detto che il Papa avea de'momenti di collera e degli eccessi di violenza che avrebbero fatto vergogna ad un laico: noi ne citeremo alcuni che, vivendo Pio VI erano l'oggetto della conversazione della città e che dopo la sua morte han preso la forma e la forza di tradizioni.

Il suo sarto favorito gli provava un giorno un abito, il Papa trovò una piega impercettibile al calzone; questa piega che alterava la precisione della forma della sua coscia, l'irritò e se ne dolse violentemente. Il sarto volle scusarsi ma sua Santità più offeso ancora delle scuse che della colpa gli diè un solenne schiaffo.

Il povero sarto fu colto dalla febbre e, preso dal delirio mancò poco che non diventasse pazzo, e riebbe la ragione a forza di sanguigne.

Pio VI avea promesso un cappello di Cardinale ad un Uditore di Rota uomo di molto spirito. Uno de'privilegi di questi Uditori è di vestire e di spogliare i Papi nelle grandi cerimonie. Questi destinato a mettere una cotta a S. Santità ebbe la disgrazia di guastarne qualche piega; il Papa si mise in una di quelle terribili collere alle quali avea la disgrazia di cedere; si sfogò in bestemmie ed in ingiurie e cacciò il povero uditore dalla sua presenza. Questi lasciò passare sei mesi, in capo ai quali credendo dimenticato il suo delitto si presentò umilmente innanzi Sua Santità; ma alla vista di quel mal accorto cameriere Pio VI s'infuriò di nuovo ed il povero uditore fu messo fuor della porta una seconda volta coll'invito di non più presentarsi. E' inutile il dire che non si parlò più del cappello.

Il cameriere di Pio VI, un vero cameriere questa volta, non un uditore di Rota, dando un giorno la cioccolata a Sua Santità ebbe la sventura di farne cadere una goccia sul piatto. Pio VI prese il piatto e piatto tazza e cioccolata che conteneva, gittò sul viso di quell'infelice che cacciò immediatamente dal suo servizio senza dargli nessun compenso.

Un uomo che il Papa adoperava familiarmente presso di lui in diversi servizi era pazzo per il lotto e ci spendeva tutto il suo danaro. Un giorno Pio VI scherzando sulle perdite che egli volgeva in guadagno gli domandò quanto guadagnava all'anno al lotto.

Non mi ci vorrebbe altro che un ordine di Vostra Santità perché guadagnassi mille o mille e cinquecento scudi all'anno.

E come posso farti guadagnare questa somma? domandò il Papa.

Proibendo un giuoco che è la peste di Roma, e che ruina il vostro popolo.

‑ Ah disgraziato, disse il Papa, tu mi proponi di togliere la mia rendita più sicura e più lucrativa? Prendi ecco per il tuo buon consiglio.

E gli dette un pugno in petto, che lo fè cadere a rovescio all'altro lato della camera.

Noi tralasciamo cinque o sei avventure dello stesso genere e che non ci offrirebbero se non che una lunga ripetizione delle brutali esplosioni di Sua Santità e nuove prove che de' sette peccati mortali che minacciano l'uomo ve ne erano cinque almeno de' quali Pio VI era largamente affetto.

La lussuria, l'avarizia, l'orgoglio, la gola, e l'ira. Noi ci siamo un poco lungamente estesi forse su Sua Santità il Papa Pio VI ma abbiamo pensato che non fosse senza importanza per i nostri lettori di ben conoscere un uomo, che ha avuta una sì gran parte negli avvenimenti che ci rimangono a raccontare, e di cui la Chiesa ha voluto fare un santo perché la Francia ne ha fatto un martire.

A ciò risponderemo che i veri martiri sono stati Basseville e Duphot assassinati sotto gli occhi di Sua Santità senza ch'ella si sia presa la pena di fare un gesto per impedire quegli assassinii.

Che Roma risponda innanzi a Dio di quelle due morti e la Francia risponderà di quella di Pio VI innanzi a Dio ed innanzi agli uomini.

 

 

 

 

 

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 [*1]   Gorani. Istoria secreta delle Corti d'Europa.