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Di
Alexandre Dumas
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Ferdinado IV° o I°. CAPITOLO VII.
Si vuò sapere in
quella grande epoca, in cui la Filosofia mostrava la rivoluzione agli occhi de'
Re spaventati che faceva il nuovo Papa? Egli s'occupava a farsi restituire dal
Re di Napoli il tributo della Chinea.
E' vero che era
una questione di danaro, e che per piccole che fossero, le questioni di danaro,
agli occhi d'Angelo Braschi, passavano avanti a tutto il resto.
La grande
questione della Chinea, che mise in
disturbo Roma con Napoli, era stata preparata da piccole questioni particolari,
che lo spirito riformatore di Tanucci aveva provocate. Tanucci, che aveva
cominciata la sua carriera dall'opporsi a Roma, era rimasto fedele alla sua
opposizione a Roma.
E ciò fu il vero
elogio del suo ministero, così la sede arcivescovile di Napoli essendo rimasta
vacante, il Re Ferdinando vi provvedette, malgrado le pretensioni del Papa, che
reclamava il diritto di farne la nomina, ed ordinò al prelato di sopprimere in
tutti gli atti, la formola adottata fin allora:
Per la grazia d'Iddio e della Sede Apostolica.
Ne risultò che
Pio VI ricusò la porpora al nuovo prelato, sebbene da tre secoli gli
arcivescovi di Napoli fossero, in qualche modo, cardinali di diritto.
Poco tempo dopo,
Ferdinando nominò il dotto giansenista Serrao, vescovo di Potenza nella Basilicata.
Pio VI ricusò di
consacrarlo.
Ferdinando non
aspettava altro che un pretesto per sopprimere l'ultimo segno di vassallaggio,
che lo tenesse legato a Roma, cioè l'omaggio della Chinea.
Questo pretesto
si presentò.
Nel 1776, giusto
al momento, in cui la regina avea dato un erede al trono, e reclamava il
diritto, che l'era garantito dal suo contratto di matrimonio, d'entrare nel
Consiglio, il giorno di s. Pietro, il Principe Colonna, Gran Contestabile del
Regno di Napoli, ed ambasciatore di Ferdinando IV, essendo incaricato di
presentare la Chinea al Santo Padre,
una disputa produsse qualche disordine, di cui l'ambasciatore rese conto a
Ferdinando.
Il pretesto
atteso era trovato.
Il re gli
rispose la lettera seguente, che noi prendiamo dal Colletta.
« Le
controversie alla occasione della Chinea hanno
« afflitto l'animo divoto del re, perchè a cagione de'luoghi, del tempo, delle
circostanze, potevano apportare » disgustose conseguenze da turbare la quiete
dei due sovrani e de'due Stati. E poichè l'esempio ha dimostrato che un atto di
sua mera divozione, qual'è il presente della Chinea, può essere motivo a scandalo e a discordie, egli ha
deliberato e risoluto che la cerimonia » cessi per lo avvenire, e che a quell'atto
di sua divozione verso i santi apostoli egli adempisca quando gliene » venga
desiderio per mezzo del suo agente o ministro. » Gli esempi ,la ragione, le
riflessioni, le cautele, la » umanità, la rettitudine hanno concorso a muovere
il regio animo a tale deliberazione, da
quell'atto dipendendo unicamente la forma dalla sovrana volontà, e dall'impulso di sua pietà, e da religiosa
compiacenza. » Questi sensi di figliale venerazione verso il capo supremo della
Chiesa, sieno comunicati alla corte di Roma ».
Da Napoli 29 di Luglio del 1776 »
Malgrado questa
decisione il re di Napoli nel 1787 inviò ancora una volta la Chinea a Roma. Il
nostro sapiente compatriota Amaury Duval che trovavasi in quell'epoca nella capitale
del mondo cristiano, assistette a questa cerimonia, e la racconta nelle note
della storia di Napoli del conte Orloff.
La soppressione
della Chinea fu uno degli ultimi att; del ministero Tanucci ‑ Dal 1775 la
regina avea dato a suo marito quell'erede del trono di Napoli, in grazia del
quale ella acquistava il dritto d'entrare nel Consiglio di stato. Or, noi
l'abbiamo detto, l'entrata della regina nel consiglio era la sostituzione della
influenza austriaca alla influenza spagnuola, e Tanucci era Spagnuolo in corpo
ed anima.
Egli lottò
contro le pretensioni della regina e fu vinto. Le seduzioni della donna giovine
e bella, Carolina aveva allora 25 anni, la vinsero sui servigi resi dal vecchio
ministro. Tanucci, che credevasi inamovibile quanto il re, ricevette la sua
dimissione, da quel medesimo sovrano ch'egli credeva aver fabbricato, per
essere nelle sue mani lo strumento della sua conservazione, e di cui la regina
aveva fatto il mezzo della sua rovina.
Egli era stato
ministro 43 anni dal 1734 al 1776, e il suo dolore al colpo inatteso che lo
atterrava, fu non quello d'un ministro che perde il suo portafoglio, ma di un
re che perde la sua corona.
Poco tempo dopo
la sua uscita dagli affari, surse fra la Francia e Napoli una questione che
imbarazzò il consiglio. La corte di Francia domandava che, quando avveniva
qualche contesa a Napoli o nel regno delle due Sicilie fra Francesi,
l'ambasciadore di Francia solo dovesse essere giudice.
Sette consigli
erano stati già tenuti, sotto la presidenza del marchese della Sambuca,
richiamato dalla sua ambasceria di Vienna per rimpiazzar Tanucci, senza che
fossesi nulla deciso, quantunque la regina vi assistesse, e benchè ella
aiutasse dei suoi lumi il nuovo ministero.
Fnalmente il re
perdendo la pazienza esclamò.
‑ Fate
venir Tanucci, egli ci trarrà tosto d'impaccio.
Il consiglio del
re adottato, si fece venir Tanucci e gli si disse di cosa trattavasi.
‑ La
faccenda è semplicissima, disse l'ex ministro, accordate all'ambasciadore di
Francia questo privilegio alla corte di Napoli, purchè uno eguale venga concesso
all'ambasciadore di Napoli alla corte di Francia.
‑ Ebbene,
esclamò ingenuamente il re, lo avea ben detto io, che San Nicandro, la Sambuca,
gli altri ministri ed io eravamo tanti asini, e che Tanucci solo ne sapeva più
di noi tutti ‑ Grazie Tanucci.
E con questo
ringraziamento del re Tanucci tornossene al suo eremitaggio ove morì, cinque o
sei anni dopo, lasciando una vecchia vedova, con una fortuna onesta ma
mediocre.
Noi abbiamo già
detto la nostra opinione su re Carlo III e sul ministro Tanucci ora vi
aggiungeremo una sola parola.
Tanucci è uno di
quegli uomini che han ricavato dippiù il loro merito dal male fatto dei suoi
successori, che dal bene ch'esso medesimo aveva eseguito, ed i suoi successori
facevano in modo da farlo desiderare.
Vediamo per
quale combinazione di circostanze estranee alla politica, Giovanni Acton di
disastrosa memoria pervenne a rimpiazzare al ministero La Sambuca, il quale per
servirci delle moderne locuzioni, fu in certo modo un ministero di transazione.
Non si sarà
dimenticato il reggimento dei Liparotti, che il re avea formato mentre era
fanciullo ed al quale egli avea dato il nome di Liparotti, da alcuni figli
dell'isola di Lipari che ne facevano il nerbo.
Il principe di
Caramanico era ufficiale in questo corpo privilegiato, e noi abbiamo
sott'occhio un ritratto di lui, ove è rappresentato con l'unione verde bianco
del corpo, e col nastro nero della croce di Malta.
Era egli un
bell'uomo di 35 a 36 anni, d'aspetto piuttosto severo che grazioso appartenente
ad una cospicua famiglia, e dotato d'una estrema lealtà.
Forse, egli non
era stato estraneo alla condiscendenza, che la regina aveva avuto per suo
merito di passare a Portici quella famosa rivista dei Liparotti, nella quale
ella comparve da vivandiera, mentre che Ferdinando la faceva da oste.
Nulla è stato
scritto, come si può comprendere su questo primo amore della regina di Napoli,
vago e poetico come quella di sua sorella Maria Antonietta per il bello Dillon,
onde si è obbligato starsene a quel che ne dice la tradizione[*1].
Per una di
quelle contradizioni così frequenti tra le leggi ed i costumi e soprattutto
alla corte di Napoli, nel medesimo tempo che la lettura della Gazzetta di
Firenze esponeva a 6 mesi di prigionia, quello delle opere di Voltaire a tre
anni di galere, nel medesimo tempo che commettevasi un delitto di lesa Maestà,
cioè a dire che arrischiavasi la vita, associandosi ai Fra Massoni, la regina
prendeva questa setta sotto la sua egida e vi si faceva affiliare.
E’ vero che
qualche tempo prima, un magistrato avendo fatto scarcerare alcuni frammassoni,
era questo il nome che davasi alla setta introdotta verso la metà del XVIII
secolo nel regno di Napoli, e che, malgrado le folgori di Benedetto XIV aveva
fatto immensi progressi, il ministro Tanucci avea fatto porre in libertà i
prigionieri, ed aveva intentato un processo al magistrato.
Il Principe
Caramanico era frammasone.
Carolina, sempre
a quanto dicesi, per maggior protezione alla setta, per esser più libera nei
suoi amori, voleva fare affiliare il re, ma eranvi alcune prove a subire, e
Ferdinando non era forte per le pruove. Egli allogò la Maestà reale, lasciò la
regina libera di fare quel che voleva, e senza perseguitare la setta non la
onorò della sua protezione e tanto meno della sua presenza.
Tra i difetti di
cui dotato aveva Ferdinando I° quella fata gelosa che presiede alla nascita dei
re, la gelosia non teneva il primo posto. Egli aveva un erede del trono, ed
anche due perchè quello che regnò, il principe Francesco era nato nel 1777,
egli chiudeva dunque gli occhi su quanto faceva Carolina, dimandando soltanto
ch'ella facesse altrettanto per ciò ch'egli faceva.
Carolina non
domandava di meglio, ella amava e forse del solo amor reale ch'ella avesse mai
avuto.
Questo legame
della regina col principe di Caramanico durò tre anni e senza dubbio sarebbe
durato più lungo tempo senza l'arrivo a Napoli dell'Irlandese Giovanni Acton
raccomandato alla regina dal principe di Caramanico medesimo.
Sotto un re
debole, amante indiscreto, amico infedele, tutti avevano compreso che dovevasi
sperare o temer della regina soltanto. Questa era dunque l'anima d'una
camarilla che dirigeva il regno senza che il re se ne occupasse altrimenti che
per apporre la griffa al basso degli atti emanati da Carolina.
Fu dunque deciso
tra lei e Caramanico che si farebbe venir dalla Toscana Giovanni Acton onde
avesse una marina.
Giovanni Acton,
lo abbiam detto era figlio d'un medico Irlandese, nato a Besancon il I° ottobre
1737, egli avea in quell'epoca 42 anni, cioè a dire ch'egli non era più
nell'età dell'amore ma in quella dell'ambizione. Egli entrò nella marina reale
francese, vi servì due anni, ma avendovi avuto qualche dispiacere sui quali la
biografia non si spiega, prese in avversione la Francia e la lasciò per non più
tornarvi. Dopo aver percorso senza progetto formato una parte dell'Italia egli
si fissò in Toscana, entrò nella marina ducale, e vi giunse al grado di
capitano di fregata.
Era appunto il
momento nel quale Carlo III era sul punto d'intraprendere la sua spedizione
contro i barbareschi. Egli attaccava una grande importanza a questa spedizione,
perchè non poteasi più viaggiare sulle coste di Spagna ed anche della Sicilia
senza correre rischio di esser fatto prigioniero dai pirati di Algieri o di
Tunisi, e sottomesso a riscatto: cosa che avvenne venti anni dopo al principe
di Paternò. Sventuratamente la spedizione andò a male. La squadra Spagnuola
composta di navi di grossa portata, non
potette avvicinarsi alle coste a distanza sufficiente da proteggere le
truppe sbarcate. I legni toscani invece erano leggieri e potevano avvicinarsi
alla terra. Acton diresse le manovre ed il fuoco della sua fregata in modo che
salvò tre o quattromila uomini, i quali senza di lui sarebbero stati fatti a
pezzi. A tanto si limitò il servizio ch'egli rese, ma era esso grande e bastò a
fargli una riputazione. Quando la regina, dietro il parere del principe di
Caramanico, propose di farlo venire in Napoli, il principe di Sambuca appoggiò
l'idea, perchè accorgendosi della diminuzione del suo credito, guardavasi bene
dall'avere un'opinione contraria a quella dell'uomo che le ciarle della corte
indicavano come l'amante della regina.
Il cavalier
Gatti, o se si vuol meglio il dottor Gatti, che noi abbiamo già presentato ai
nostri lettori, come colui che avea parte a tutti gli intrighi reali fu spedito
a Firenze per domandare il futuro ammiraglio al granduca Leopoldo fratello
della regina. Questi accordò quanto gli si chiedeva ed Acton venne a Napoli,
senza immaginare qual parte era chiamato a rappresentarvi.
Però le spese
della corte essendo cresciute, ed i capricci della giovine regina essendone una
delle cause, gli antichi balzelli non erano più sufficienti, ed i galeoni
dell'America non eran più là, come al tempo di Carlo III e di sua madre
Elisabetta Farnese per colmare il deficit.
Il marchese Caracciolo, ambasciatore del re in Francia, godeva fama di
grande economista, onde fu richiamato a Napoli e messo a capo del consiglio al
posto del marchese di Sambuca. Egli lasciava in Francia la reputazione di uno
spirito e di un gusto infinito. Solamente egli era vecchio, e desiderava molto
viver tranquillo ‑ Diede quindi uno sguardo intorno a sè, vide il
principe di Caramanico in tutto lo splendore del suo favore ‑ apprezzò il
credito nascente di Acton, indovinò nell'uno il presente, nell'altro
l'avvenire, ed invece d'insistere per una riforma nelle spese, unico rimedio
alla situazione, lasciò che questa peggiorasse con la creazione di nuove
imposte.
Quando si fu
convinto che quanto attendevasi dal Marchese Caracciolo era impossibile,
ciascuno comprese che un uomo di tanto merito era un imbarazzo, quando non
poteva essere un aiuto. Lo si nominò quindi vicerè di Sicilia ed egli partì per
Palermo.
Colà egli
mostrossi degno della fama di fermezza e di filosofia ch'erasi acquistato a
Londra ed in Francia.
‑ S'io
divengo un giorno ministro del re di Napoli, avea egli detto un giorno innanzi
ad Elvezio ed a Diderot, sarò contento sol quando lo avrò reso indipendente dal
gran mufti di Roma. Appena giunto a Palermo, egli ebbe a lottare contro le
immunità ecclesiastiche, abolite da Tanucci in tutto il restante del
regno, ma vigenti ancora in Sicilia, e soprattutto contro i privilegi feudali.
Molti baroni avevano usurpati dritti che non erano specificati nelle loro pergamene nè negli atti d'investitura dei loro feudi.
Caracciolo fece
affiggere alcune ordinanze le quali istruivano il popolo dei veri dritti, di
cui i signori erano in possesso, e di quelli ch'essi aveansi ingiustamente
arrogati, di modo che il popolo seppe a che attenersi e potette resistere alle
ingiuste pretese.
Circa ai preti
ed ai monaci la lotta con essi fu ancora più accanita.
L'arcivescovo di
Palermo avendo voluto un giorno difendere le immunità della Chiesa, a proposito
di un assassino che il vicerè avea fatto arrestare nella Cattedrale, il
marchese Caracciolo si contentò di dirgli :
‑ Noi non
siamo più al medio evo, signor arcivescovo e voi dovreste aver vergogna di
proteggere un miserabile ch'io farò impiccare alla chiesa ove voi lo avete
ricevuto.
Un altro vescovo
avendogli fatto le medesime osservazioni a riguardo d'un omicida arrestato in
un convento,
‑ Signor
vescovo, gli disse Caracciolo, io vi perdono la vostra intervenzione per questa
volta; ma se tornate a difendere una simile causa, vi fo deporre dal vostro
vescovado, come nemico dello Stato.
Egli osò ancora
più; alcune madonne avendo cagionato scandalo, a causa dei miracoli ch'esse
facevano, o che non facevano, egli le fece prendere e porre al magazzino delle
legna. I monaci gridarono altamente dicendo che distruggevasi la religione.
‑ In
quanto a ciò, disse il marchese, voi medesimi siete i nemici più terribili di
questa religione che invocate, e che rende stupido un popolo che sarebbe il più
spiritoso dell'Europa. Constatate l'autenticità dei miracoli delle vostre
madonne, ed anche dippiù, che una sola d'esse faccia il più piccolo miracolo me
presente, ed io sarò il primo ad inginocchiarmi innanzi ad esso e proclamerà il
miracolo che avrà fatto.
Al suo giungere
a Palermo, alcuni Benedettini, spediti in deputazione appo esso, gli
raccomandarono la Cappella di Santa Rosalia, per la quale, gli dissero essi,
conoscevano la sua particolar divozione.
‑ Può
stare, rispose Caracciolo, ch'io abbia una speciale divozione a Santa Rosalia,
ma siccome non ho mai fatto ad alcuno una simile confidenza, son meravigliato
che ne siate tanto bene informati.
L'inquisizione,
avendo cercato dal canto suo di riprendere qualche influenza in Sicilia, il
popolo si rivoltò e non potendo abbattere il santo Uffizio, mise in pezzi la
statua di S. Domenico, bruciò gli archivi della Inquisizione, forzò le porte
delle prigioni e trattine i prigionieri, li condusse in trionfo per le strade.
Cosa
rimarchevole si è che questa sedizione era stata diretta da alcuni vecchi, è
vero ch'eran dessi coloro che 56 anni prima, aveano visto i roghi di frate
Romualdo e di suora Geltrude.
Verso quel
tempo, un bandito facevasi negli Stati Napoletani tale una reputazione che
veniva chiamato il Re della campagna ed in fatti era desso re nella Campagna
più di quello che Ferdinando fosselo in Napoli.
Il bandito
chiamavasi Angiolino del Duca.
Era esso un
povero contadino, che servivasi pel suo lavoro d'una mula appartenente al suo
signore. L'animale morì, di vecchiezza probabilmente, ma il feudatario pretese
che la morte fosse cagionata dalla fatica e ne volle il pagamento da Angiolino.
Il povero diavolo era fuori stato di soddisfare questa esigenza, il signore
fece vendere quanto il suo vassallo possedeva. Pazzo dalla collera, il giovine
gettossi nelle montagne, v'incontrò alcuni banditi, si collegò con essi, ne
divenne il capo, e da quel momento ebbe un pensiero solo, quello di vendicarsi
di quei nobili, che avevan fatto di lui un brigante.
Angiolino del
Duca avea più di Schiller inventato il bandito socialista che s'incarica di
correggere i torti della Provvidenza.
Egli percorreva
le provincie, ed appena giungeva con la sua banda in qualche villaggio, od
anche in qualche città, faceva preparare sulla piazza principale un tribunale
di giustizia, ascoltava le due parti, pronunciava la sentenza e compiva con
maggior equità di loro stessi, le funzioni dei magistrati.
Egli aveva
ancora un gran vantaggio sui giudici ordinari, quello cioè di render gratuitamente
la giustizia. Egli è vero che nella sua prevenzione contro i ricchi, avrà
potuto accadergli di condannarli qualche volta ingiustamente, ma ciò non recava
nocumento alla sua popolarità, anzi la rendeva maggiore.
In una delle sue
scorrerie egli incontrò un vescovo il quale recavasi in Napoli. Gli si
avvicinò, lo salutò cortesemente, gli chiese il permesso di baciare il suo
anello episcopale e finite queste cerimonie di etichetta, egli informossi di
quanto denaro portava seco.
‑ Mille
once, rispose il vescovo.
‑ E quanto
tempo, vostra Grandezza, conta trattenersi in Napoli?
‑ Un mese.
‑
Cinquecento once debbono bastare a vostra Grandezza per un tale soggiorno nella
capitale e pel suo ritorno nella diocesi onde io mi contenterò di cinquecento
once.
Il vescovo diede
questa somma, Angiolino del Duca la prese, gli domandò la benedizione che
ricevette in ginocchio e gli permise di continuare il viaggio.
Angiolino del
Duca era l'Ercole ed il Teseo dei suoi tempi. Se i contadini gli additavano
qualche oppressione o qualche ingiustizia del loro signore, egli non era
contento se non quando quel ricco cadeva nelle sue mani. Allora era d'uopo che
quegli riparasse il mal fatto, o rischiava di morire appiccato come un marrano
al primo albero della via.
Un ricco
Benedettino cadde nelle mani di Angiolino del Duca, quel frate portava seco
2500 once. Angiolino divise lealmente con esso, quindi sulla sua parte di 1225
ne prelevò 625 per dotare una povera fanciulla e per fare qualche elemosina ad
alcuni contadini di cui le case erano state distrutte da un incendio, e siccome
egli avea fatto quella liberalità sulla sua porzione di prese, distribuì il
rimanente ai suoi compagni. Uno dei maggiori rimproveri che Angiolino faceva ai
Baroni, era la ignoranza nella quale essi tenevano i loro vassalli. Appena egli
divenne re della campagna, come chiamavasi da se stesso, ebbe vergogna della
sua niuna istruzione ed imparò a leggere ed a scrivere. Appena egli seppe ciò,
utilizzò le sue nuove conoscenze scrivendo di suo pugno ai baroni, lettere
nelle quale egli prescriveva loro in buonissimo stile i loro doveri verso i
propri vassalli, minacciandoli della sua vendetta se non riparavano le
ingiustizie fatte.
Angiolino non
avea mai commesso nè un assassinio, nè un furto con scassinazione ‑ La
sua condotta aveagli talmente guadagnato i cuori dei contadini, che in ogni
villaggio ove fermavasi era una vera festa. I suoi compagni lo amavano e lo
rispettavano come un padre, e ne eseguivano gli ordini con esattezza.
Angiolino
comandava a soli 120 uomini, poichè a creder suo un numero maggiore lo avrebbe
imbarazzato senza dargli una forza superiore. Malgrado ciò egli intavolò
accordi diretti col re scrivendogli ‑ Il re della campagna scriveva a
quello delle città.
Egli offrivagli
d'entrare al servizio di lui e di mantenere con la sua gente la sicurezza delle
vie del regno, dimandando una paga ordinaria per i suoi uomini, ed una
qualunque distinzione per sè.
Venne arrestato per sorpresa, e condotto in carcere carico di catene ‑ Il suo coraggio non si smentì giammai, io non sono un brigante, diceva egli, ma un giustiziere.
In fatti se nel
suo processo fossero state seguite le formalità ordinarie, non avrebbe potuto
esser dannato a morte, non avendola mai data, ma ciò che si punì in lui fu la
popolarità ch'egli erasi acquistata, l'influenza presa sulla classe povera, e
gli affronti inflitti al clero ed alla nobiltà.
Egli fu giustiziato,
e la sua memoria rimase nel popolo come quella d'un martire.
Verso
quell'epoca, cioè il 5 febbraio 1783 un dei più terribili e disastrosi
terremoti che i fasti del Vesuvio vantino ebbe luogo.
Colletta lo
racconta con ogni particolarità, e noi prendiamo da esso i particolari che
mettiamo sotto gli occhi del lettore, perchè la nostra missione di storico ne
fa un dovere di prendere la verità, il pittoresco, il colorito ovunque lo
troviamo.
Esiste fra i
fiumi Gallerio e Metranno fra Teio, Sagra i Caceloni, fra le chine degli
Appennini ed il mare Tirreno uno spazio di venti miglia di lunghezza per 18 di
larghezza.
Su questo
spazio, quel terramoto che s'intese fino ad Otranto, a Palermo ed a Lipari,
ch'ebbe pochi effetti nelle Puglie e nella terra di Lavoro, nessuno negli
Abbruzzi, ed a Napoli, fecesi sentire in tutta la sua intensità.
Cento nove città
e villaggi abitati da cento sessantamila anime, innalzavansi su quella
località, e furono distrutti in pochi minuti, e trentaduemila persone sepolte
sotto le loro rovine vi rimasero, e ne furon tratte cadaveri.
Due minuti
bastarono per compiere questa catastrofe.
« E perciò,
qualunque fossero i principii di quel tremuoto, vulcanici secondo gli uni,
elettrici secondo gli altri, ebbe il movimento direzioni d'ogni maniera, verticali,
oscillatorie, orizzontali, verticosi pulsanti, ed osservaronsi cagioni
differenti ed opposte di rovina: una parte di città o di casa sprofondata,
altra parte emersa; alberi sino alle cime ingoiati presso ad alberi sbarbicati
e capovolti; e un monte aprirsi e precipitare mezzo a dritta, mezzo a sinistra
dell'antica positura; e la cresta, scomparsa, perdersi nel fondo della formata
valle. Si viddero certe colline avvallarsi, altre correre in frana, e gli
edifizii sopraposti andar con esse, più spesso rovinando; ma pur talvolta
conservandosi illese, e non turbando nemmeno il sonno degli abitatori; il
terreno fesso in più parti, formare voragini, e poco presso alzarsi a poggio.
L'acqua, o raccolta in bacini o fuggente, mutare corso e stato ; i fiumi
adunarsi a lago o distendersi a paduli, o, scomparendo, sgorgare a fiumi nuovi
tra nuovi borri e correre senz'argini a nudare e isterilire fertilissimi campi.
Nulla restò delle antiche forme; le terre, la città le strade, i segni
svanirono ; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina
e deserta. Tante opere degli uomini e della natura, nel cammino de'secoli
composte, o forse qualche fiume o rupe eterna quando il mondo, un solo istante
disfece. La Piana fu dunque il centro del primo tremuoto ma, per la descritta
difformità del suolo, vedrà talora paesi lontani da quel mezzo più guasti
de'vicini ».
« Alla
mezzanotte del medesimo di vi fu nuova scossa, forte pur essa ma non crudele quanto
la prima; perciocchè le genti, avvisate dal pericolo e già prive di casa e di
ricovero, stavan attonnite ad affannose allo scoperto. Solamente più soffersero
del secondo moto che del primo le nobili città di Messina e di Reggio, e tutta
la contrada della Sicilia, che dicono Valdenone. Messina in quell'anno 1783,
non avea appieno ristorato i danni del tremuoto del 1744,
così che scuotendo palagi e terre già
sconquassate, tutto precipitò; si accumularono nuove e vecchie ruine. Durarono
i tremuoti, sovvertendo le terre medesime e tornando spesso allo scoperto
materie ed uomini giorni avanti sotterrati. L'alta catena degli Appennini e i
grossi monti sopra i quali siedono Nicotera, e Monteleone resisterono lungo
tempo, e vi si vedevano fessi gli edifizi, non atterrati, e mossa, non già
sconvolta la terra. Ma il dì 28 di Marzo di quell'anno medesimo alla seconda
ora della notte, fu inteso romor cupo come rombo pieno e prolungato: e quindi
appresso moto grande di terra, nello spazio tra i capi Vaticano, Suvero, Stilo,
Colonna, 1200 almeno miglia quadrate, che fu solamente il mezzo dello
scotimento, perciocchè la forza pervenne a'più lontani confini della prima
Calabria, e fu sentita per tutto il Regno e nella Sicilia. Durò novanta secondi
spense duemila e più uomini: diciassette città, come le centonove della Piana,
furono interamente abbattute; altre ventuna rovinate in parte ed in parte
cadenti; i piccoli villaggi, subissati o crollanti, più che cento; e quel che
un giorno stava ancora in sublime, nel vegnente precipitava, imperocchè i moti
durarono sempre forti e distruggitori, sino all'agosto di quell'anno, sette
mesi; tempo infinito, perchè misurato per secondi ».
« I turbini, le tempeste, i fuochi de'vulcani, e degl'incendii, le
piogge, i venti, i fulmini accompagnavano i tremuoti; tutte le forze della
natura eran commosse, parea che spezzati i legami di lei, quella fosse l'ora
novissima delle cose ordinate. Nella notte de'5 di febbraio, mentre scoteva la
terra, l'aeremoto rompeva e balestrava in parti elevate degli edifizii; un
campanile in Messina fu scapezzato, un' antica torre in Radicena fu mozzata
sopra la base, ed un rottame (tanto massiccio che tiene in seno parte delle
scale) sta nella piazza dove fu lasciato, e lo mostrano per maraviglia a'forestieri:
molti letti o cornici non caddero sulle rovine del proprio edifizio, ma
scagliati dal turbine andarono a colpire i luoghi lontani. Intanto che il mare
tra Cariddi, Scilla e le piaggie di Reggio e di Messina, sollevato al proprio
letto trascinava greggi ed uomini. Così morirono intorno a duemila nella sola
Scilla, i quali stavano sull'arena o nelle barche per campare da'pericoli della
terra; il principe della città, ch'era tra quelli, scomparve in un istante ; nè
i servi, e i parenti, o le promesse de' larghissimi premii poterono far trovare
il cadavere per onorarlo di alcuna tomba. Etna e Stromboli più del solito
vomitarono lava e materie, disastri poco avvertiti perchè assai men gravi degli
altri che si pativano, il Vesuvio durò nella quiete. Fuoco peggiore de'vulcani
veniva dagli accidenti del tremuoto, avvegnacchè ne' pricipizi delle case, le
travi cadute su i focolari bruciavano, e le fiamme dilatate dal vento apprendevano
incendii tanto vasti, che parevano fuochi uscenti dal seno della terra donde le
false voci e le credenze di ardori sotterranei »
« Tanto più che
udivano fremito e rombo come il tuono, talora precedere gli scuotimenti, talora
accompagnarli, ma più sovente andar solo e terribile. Il Cielo nubiloso,
sereno, piovoso, vario nessun segno dava del vicino tremuoto; le note di un
giorno fallavano al vegnente, ed altre si citavano fino a che fu visto che
sotto qualunque cielo scuoteva la terra. Comparve nuova tristezza; nebbia folta
che offuscava la luce del giorno, e addensava le tenebre della notte, pungente
agli occhi, grave al respiro, gelida, immobile, ingomberante per venti e più
giorni l'aere delle Calabrie; indi malinconie, morbi, ambasce agli uomini ed ai
bruti ».
« Incomincio
racconto più mesto, la miseria degli abitanti. Al primo tremuoto del 5 di
febbraio, quanti erano dentro le case della Piana morirono, fuorchè i rimasti
mal vivi sotto casuali ripari di travi, o di altre moli che nelle cadute
inarcarono; fortunati se in tempo dissepolti; ma tristissimi se consumarono per
digiuno l'ultima vita. Coloro che per caso stavano allo scoperto furono salvi,
e nemmeno tutti; altri rapiti nelle voragini che sotto ai piedi si aprivano,
altri nel mare dalle onde che tornavano, altri colti dalle materie proiettate
dal turbine, infelicissimi i rimanenti, che miravano rovinate le case, e
soggiacenti la moglie, il padre, i figliuoli. E poichè, anni dopo, io stesso
ragionai co' testimonii della catastrofe, e con uomini e con donne tratti dalle
rovine, potrò quanto comporta l'animo e l'ingegno, rappresentare le cose morali
de'tremuoti delle Calabrie; come finora ho descritto più facilmente le parti
fisiche e materiali ».
« Alla prima
scossa nessun segnale in terra o in cielo dava timore e sospetto; ma nel modo,
ed alla vista de' pricipizii, lo sbalordimento invase tutti gli animi, così
che, smarrita la ragione, e perfino sospeso l'istinto di salvezza, restarono
gli uomini attoniti ed immoti ».
« Ritornata la
ragione, fu primo sentimento de' campati certa gioia di parziale ventura, ma
gioia fugace, perchè subito la oppresse il pensiero della famiglia perduta,
della casa distrutta ; e fra tante specie presenti di morire, e il timore di
giorno estremo e, vicino, più gli straziava il sospetto che i parenti stessero
ancora vivi sotto le rovine, sì che, vista l'impossibilità di soccorrerli,
dovevano sperare (consolazione miseria e tremenda) che fossero estinti. Quanti
si vedevano padri e mariti aggirarsi fra i rottami che coprivano le care
persone, non bastare a muovere quelle moli, cercare invano aiuto ai passaggeri;
e alfine disperati gemere di e notte sopra que'sassi. Nel quale abbandono
de'mortali rifuggendo alla fede, votarono sacre offerte alle divinità, e vita
futura di contrizione, e di penitenza, fu santificato nella settimana il
Mercoledì, e nell'anno il 5 di Febbraio, ne' quali giorni, per volontari
martorii e per solenni feste di chiesa speravano placare l'ira di Dio ».
« Ma la più
triste fortuna (maggiore di ogni stile e di ogni intelletto) fu di coloro che
viventi sotto alle rovine, aspettavano con affannosa e dubbia speranza di esser
soccorsi ; ed accusavano la tardità, e poi l'avarizia e l'ingratitudine dei più
cari nella vita e degli amici; e quando oppressi dal digiuno e dal dolore,
perduto il senno e la memoria, mancavano, gli ultimi sentimenti che cedessero
erano sdegno a'parenti, odio al genere umano. Molti furono dissotterrati per lo
amore de'congiunti, ed alcuni altri dal tremoto stesso, che, sconvolgendo le
prime rovine, li rendeva alla luce ».
« Quando tutti i
cadaveri si scopersero fu visto che la quarta parte di quei miseri sarebbe
rimasta in vita, se gli aiuti non tardavano; e che gli uomini morivano in
attitudine di sgomberarsi d'attorno i rottami; ma, le donne con le mani sul
viso o disperatamente alle chiome ; anche fu veduto le madri, non curanti di sè
coprire i figliuoli, facendo sopra essi arco del proprio corpo ; o tenere le
braccia distese verso quei loro amori, benchè impedite dalle rovine non
giungessero. Molti nuovi argomenti si raccolsero della fierezza virile e della
passione delle donne ».
« Un bambino da
latte fu disotterrato morente al terzo giorno, nè poi morì. Una donna gravida
restò trenta ore sotto i sassi e dalla tenerezza del marito liberata ; si
sgravò giorni appresso di un bambino col quale vissero sani e lungamente ; ella
richiesta, di che pensasse sotto alle rovine, rispose : « io aspettava ».
« Una fanciulla
di undici anni fu estratta al sesto giorno e visse altri sedici anni.
« Più
maravigliosi per la vita furono certi casi di animali; due mule vissero sotto
un monte di rovine., l'una ventidue giorni l'altra ventitrè; un pollo visse pur
esso ventidue giorni : due maiali sotterrati restarono viventi trentadue
giorni. E cotesti bruti e gli uomini portavano tornando alla luce una stupida
sciocchezza, nessun desiderio di cibo, sete inestinguibile e quasi cecità, ordinario
effetto del prolungato digiuno. Degli uomini campati alcuni tornarono sani e
lieti ; altri rimasero infermicci e melanconici: la qual differenza veniva
dall'esser stati soccorsi prima di perdere la speranza o già perduta. Ed infine
que' dissepolti dimandati dei loro pensieri mentre stavano sotterra,
rispondevano le cose che ho riferite, e ciascuno terminava col dire: « fin qui
mi ricordo, poi mi addormii ».
« Furono lenti
gli aiuti a'sepolti, ma non per empietà dei congiunti e del popolo; che pure
ne'tremuoti di Calabria, gli uomini furono come sempre più buoni che tristi; e
fra tutti alcuni profondamente malvagi, altri eroicamente virtuosi. Un uomo
ricco faceva cavare ne'rottami della casa, e quando scoprì e prese il denaro ed
altre dovizie, intermise l'opera, benchè lasciasse sotto alle rovine, forse
ancora non morti, lo zio, il fratello, la moglie. Contendevano il possesso di
ampio patrimonio due fratelli; ed erano, come avviene tra congiunti, l'uno
dell'altro adirati e nemici: Andrea cadde con la casa; Vincenzo ereditava il
contrastato dominio, ma sollecito, irrequieto, solamente intese a disotterrare
il fratello, e, fortunato lo trasse vivo. Appena appena si ristabilirono i
magistrati, l'ingrato Andrea, sordo alle proposte di accomodamento, ridestò il
litigio e 'l perdè ».
Almeno è questa
una consolazione per l'umanità.
Quando l'annunzio di questo terremoto fu dato a Ferdinando, egli ne fu
abbattuto, rimase qualche tempo interrogando il messo con lo sguardo, poi d'un
subito:
‑ Oh! Dio mio, diss'egli, Messina
distrutta per la seconda volta, la Calabria quasi del tutto rovinata.
Quindi andò a gettarsi sul suo letto, ove, quasi in delirio, non cessava
di ripetere
‑ Cento quaranta città e villaggi in rovina, trentaduemila persone
uccise.
La regina rientrò dal passeggio, le si disse in quale stato travavasi il
re, allora entrò nella camera di lui e guardandolo con disprezzo
‑ Siete un
uomo, o un fanciullo, le diss'ella, e la nostra esistenza dipende forse da
quella di Messina e della Calabria?
Il re
contentossi di scuotere il capo, e fece segno a sua moglie di lasciarlo solo.
Mandò
immediatamente a chiamare i ministri, parlò ad ognuno di essi, e diede loro gli
ordini più pressanti, perchè si andasse in aiuto dei superstiti.
Poscia si
rinchiuse nella sua camera, ordinando che appena nuovi corrieri giungessero,
gli fossero condotti dinanzi.
Noi abbiamo raccontati i particolari di questa terribile catastrofe ‑‑ le notizie susseguenti non fecero adunque se non che aumentare il dolore del re.
‑ Davvero,
signore, gli disse Carolina, che non comprendeva nulla a quella disperazione,
tanto strana in suo marito; voi non avete fatto dippiù quando vostro figlio è
morto.
‑ Eh ! madama, rispose Ferdinando, impazientito, queste migliaia
d'uomini che la morte ha mietuto, non eran forse miei figli?
Tutto si sa, ed i palazzi non conservano i segreti dei re, meglio di
quel che i tuguri serbano quelli dei poveri. Il popolo di Napoli seppe il
dolore di Ferdinando e l'indifferenza di Carolina. Ferdinando era allora molto
amato dai Napolitani, ed il loro amore aumentossi. Riguardo a Carolina poi
essi erano a quel punto nel quale dalla diffidenza i popoli passano all'odio.
Austriaca, ella avrebbe dovuto esser due volte dolce e buona per far
dimenticare l'antipatia nazionale che esisteva tra Napoli e Vienna, ma invece
in ogni occasione ella ravvivava quell'odio.
Provocatrice e sardonica come sua sorella Maria Antonietta, venti
volte sfidando quell'odio. I suoi familiari l'intesero ripetere
‑ lo so che sono tanto odiata dai Napolitani, che se venissi a
morire, essi ne sarebbero contentissimi, come dell'avvenimento più felice che
potesse accader loro.
Fu ben peggio ancora quando seppesi, che, invece di seguire l'esempio
del re, il quale, dai suoi risparmi particolari aveva mandato 60,000 ducati in
Calabria, ella ne aveva distribuiti 30,000 fra i favoriti e le favorite.
Il re di Spagna Carlo III intese l'accaduto con molta indifferenza. S'egli avea regnato 25 anni sul, regno delle Due Sicilie, eran 25 anni che avealo lasciato, e d'altronde giungeva a quell'età nella quale il cuore dell'uomo s'indurisce, ed a più forte ragione il cuore dei re.
Quando la notizia gli giunse, egli era sul punto di andare a caccia.
‑ Sta bene, sta bene, disse al messo, parleremo di tutto ciò al
mio ritorno.
Sollecitato da
suo figlio di spedire anch'esso qualche soccorso in Calabria, egli mandò una
somma insignificante : tre o quattro mila ducati appena.
Ho detto che
scrivendo quest'opera, io non intraprendeva un lavoro di odio, ma
d'imparzialità. Ne do una prova, col prendere fuori la storia, e nelle memorie
particolari il fatto che ho raccontato[*2].
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