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Di
Alexandre Dumas
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CAPITOLO XV.
« Al bagliore dell'incendio
che divorava questa marina la quale era costata tanto denaro, il Popolo
Napoletano ‑ dice Cuoco ‑ vide tutti gli errori del suo governo e tutte
le miserie del suo destino ».
Il popolo non amava più il
re che lo aveva con tanta durezza abbandonato e così sfrontatamente rovinato
abbandonandolo ‑ Il popolo non volea neanco sentir parlar di lui perchè
diceva: tutti quei bei vascelli, potea portarli con sè, condurli in Sicilia, in
vece di bruciarli e poichè avea promesso di ritornare, ritornare con essi ‑
Ma restavano in lui tre impressioni inculcate nel suo spirito da tanti anni, il
rispetto della religione, l'amor della patria, l'odio dei Francesi.
Avrebbe potuto trarsi gran
partito da queste disposizioni, tanto maggiormente in quanto che la situazione
dei francesi diveniva di più in più precaria.
L'armata francese, o meglio
il Corpo d'Armata di MacDonald, avea provato uno scacco avanti Capua che volea
prendere per sorpresa; un artigliere diede l'allarme mettendo fuoco al suo
pezzo situato su di un'opera avanzata a S. Giuseppe. La sorpresa per
conseguenza fallì. I francesi eransi provati a, passare il Volturno a Caiazzo;
e Roccaromana li avea respinti.
Championnet allora dette
ordine all'esercito di concentrarsi intorno a Capua, che egli volea prendere
pria di marciare su Napoli: l'esercito obbedì; ma noi abbiamo detto in mezzo a
quali pericoli ed a quali assassini.
Citavansi omicidi
spaventevoli.
L'aiutante di Campo, Claie,
mandato dal Generale in Capo al Generale Lemoine, erasi affidato alla sua
guida: tradito da essa, fu f atto a pezzi.
All'attacco del ponte del
Garigliano l'aiutante di Campo Gourdel, un Capo Battaglione di fanteria
leggiera, e vari ufficiali e soldati, rimasti feriti sul campo di battaglia
erano stati legati agli alberi ed arsi a fuoco lento, nel mentre che la
plebaglia, donne e ragazzi ballavano intorno ad essi una specie di danza di
tregenda.
Il Capitano Tremeau fu
circondato dalla parte di Traetto con un distaccamento di trenta o quaranta
uomini, ed egli e i suoi uomini, dal primo fino all'ultimo, furono trucidati
con tutte le varietà ed i raffinamenti del supplizio, che abbiano mai potuto
inventare i più esercitati inquisitori.
Allora, da Caserta il Re
avea lanciato il seguente ordine del giorno.
« Tosto che i Francesi metteranno il piede sul suolo napoletano, tutti i comuni devono insorgere in massa e il massacro
comincerà ».
Gli ordini del Re venivano
eseguiti alla lettera; oltre tutta quella turba di contadini, andati alla
caccia dei Francesi, appostati dietro tutti gli alberi, nascosti dietro ogni
rupe, che massacravano tutti quelli che avevano l'imprudenza di restare
all'indietro della colonna o di appartarsi dal loro campo, i sette mila uomini
di Livorno, riuniti al resto della colonna di Damas, s'erano rimbarcati per
scendere alle foci del Garigliano e minacciavano d'attaccare le spalle
dell'armata francese, mentre che Mack uscendo da Capua gli presenterebbe la
battaglia di fronte.
Lasciamo Championnet, col
suo solito sangue freddo, dare gli ordini per far fronte all'armata regolare
napoletana, alle guerillas, organizzate da Pronio, Rodio, Fra Diavolo, Mammone,
ai contadini in fine isolati e facendo la caccia per conto loro, e vediamo ciò
che accadeva a Napoli.
La Regina, partendo avea
lanciata la sua parola d'ordine: vera o no, si ripeteva con terrore.
‑ Noi partiti, avea
detto a Pignatelli, incendiate Napoli, e fate che non resti anima vivente dai
notai in sopra.
Dal 23 Dicembre, cioè, dal
momento in cui la squadra non era più a vista i rappresentanti DELLA CITTA' Si
riunirono per provvedere alla sicurezza di Napoli.
Chiamavansi LA CITTA' la
riunione di sette persone elette dai sedili
dei quali abbiamo già spiegato l'origine e le funzioni.
Di queste sette persone, sei
appartenevano alla nobiltà.
Una al popolo.
Gli è ciò che da noi
chiamasi la municipalità.
La CITTA' adunque ordinò
come prima misura di formare una Guardia Nazionale e di eleggere quattordici
deputati destinati a prendere gl'interessi e la difesa di Napoli nel mentre che
gli avvenimenti si preparavano.
Il 25 Decembre mentre si era
occupati all'elezione dei quattordici deputati, la Città e la magistratura
andarono ad ossequiare il Vicario Generale Pignatelli, il quale li ricevette
con tale insolenza da non far mettere più in dubbio che la regina avesse
effettivamente dato l'ordine fatale che faceva tremare i Napoletani.
I deputati eletti si
riunirono alla CITTA' e, malgrado il poco successo della prima ambasciata, ne
mandarono una seconda al Vicario Generale, dimostrandogli la necessità
d'autorizzare la Guardia Nazionale ch'essi avevano decretata. Ma il Vicario
Generale fu ancora più rozzo e più brutale questa volta che la prima,
rispondendo al messaggio che la sicurezza della città apparteneva a lui, e non
a loro, e che ne darebbe conto a chi di dritto.
Ma la CITTA' non si lasciò
intimidire, essa mandò nuovamente i deputati, e il dialogo fu breve, dappoiché il
Vicario Generale alzò la voce ancor più di quanto avea fatto nelle due
precedenti conferenze.
I deputati si contentarono
allora di rispondergli: Va bene! Agite,
da parte vostra, noi agiremo dalla nostra e vedremo per chi si deciderà il
popolo.
Poscia si ritirarono.
Due giorni dopo, avevano il
permesso di formare una guardia Nazionale
per mezzo di arrollamenti; allora sursero grandi discussioni sul modo di
formarla; si proposero piani sopra piani, ma sempre la prima condizione di
questi piani era di dare il comando ai Nobili. Gli eletti di Vaglio, di
Piedimonte, di Rocca, di Caposele e qualche deputato s'opposero a questa
preferenza; finalmente, prevalse un voto che pretendeva niente esser possibile
e durevole nella nuova milizia, se il comando non fosse egualmente diviso tra i
nobili ed i borghesi.
Questo voto era quello di un
cittadino nominato Gaetano Spinelli.
Su queste basi s'estese un
piano ben risoluto, e in meno di tre giorni quattordici mila uomini
s'arruolarono.
Ma ciò non era tutto: questi
quattordici mila uomini bisognava armarli ed in questo benanco s'incontrò da
parte del Vicario Generale un'opposizione ostinata; a forza di lotte si giunse
ad ottenere 500 fucili, una prima volta, 200 fucili l'altra. I patrioti, allora ‑ la parola
cominciava a circolare per la città ‑ i patrioti allora furono invitati a
prestare i loro. Le pattuglie incominciarono immediatamente e la città prese un
certo aspetto di tranquillità.
Tutto ad un tratto si seppe
a Napoli che una tregua di due mesi, le cui prime conseguenze dovevano essere
la reddizione di Capua, erasi stabilita la vigilia, cioè il 9 gennaio 1799, a
richiesta del Generale Mack fra il Principe di Migliano e il Duca del Gesso per
parte del Principe Pignatelli, ed il Commissario ordínatore, Arcambal, dall'altra
per l'esercito repubblicano.
In fatti, nel momento in cui
Championnet meno se lo aspettava, e cercava nella disperazione quell'ultima
risorsa che rimanga ai prodi, vedea aprirsi le porte di Capua e avanzarsi verso
di lui, preceduti dalla bandiera parlamentaria, alcuni ufficiali superiori
incaricati dal Vicario Generale di proporre l'armistizio.
Questi ufficiali superiori
che non conoscevano Championnet, erano, come abbiamo detto, il Principe di
Migliano e il Duca di Gesso.
Tale armistizio, diceva il
Principe, aveva per obbietto d'arrivare alla
Conclusione d'una pace solida o duratura.
Le condizioni che aveano
autorizzazione di proporre, erano la reddizione di Capua e la traccia di una
linea militare da ciascun lato della quale le due armate napolitana e francese
aspetterebbero le decisioni dei rispettivi governi.
Nella situazione in cui
Championnet trovavasi, simili condizioni erano non solo accettabili, ma tanto
più vantaggiose in quanto che non erano sperate.
Diciamo, secondo Bartolomeo
Nolli, testimonio oculare che ha scritto le memorie per servire alle ultime rivoluzioni di Napoli: quali motivi
condussero il Principe Pignatelli alle inattese condizioni.
Dicemmo che l'esercito
francese erasi presentato due volte dinanzi Capua e due volte era stato respinto.
I due capi che eransi maggiormente distinti in cotesti vantaggi riportati su
noi, erano l'uno il Principe di Moliterno, che abbiamo detto, avea combattuto
nel 1794 contro di noi, e avea perduto un occhio in uno dei combattimenti che
ci avea dati, l'altro era il Duca di Roccaromana, il più bell'uomo del Regno,
fino a quel momento, celebre soltanto per le sue avventure galanti, frivolo ed
ignorante, ma prode ed ambizioso. Avea alienato tutti i suoi beni per formare
due reggimenti di cavalleria che non potette completare, quantunque la regina
che si interessava da lui, in un modo tutto
particolare, dice l'autore dal quale rileviamo questi dettagli, l'avesse
aiutato con la sua borsa privata.
Ma il partito repubblicano
di Napoli, messo, dopo la partenza del Re, in comunicazione con gli esiliati
Napolitani che accompagnavano l'armata francese, risolvettero di tentare
qualche cosa da parte sua, per liberare il proprio paese e facilitare l'entrata
di Napoli a quelli che venivano in loro soccorso. Delle proposte furono fatte a
Moliterno e Roccaromana, gli si promisero alte situazioni nel nuovo governo,
facendo loro considerare le sciagure che potrebbero risultare dalla loro
ostinazione a difendere Capua, e sia patriottismo, sia ambizione, s'indussero a
pattuire coi repubblicani.
Mack e Pignatellí erano
dunque i soli che oramai s'opponevano ai disegni dei congiurati.
Un abboccamento, dice ancora
Bartolomeo Nolli, ebbe luogo allora fra Moliterno ed uno dei capi del partito
giacobino di Napoli che l'autore non
nomina per non nuocergli, ed in questo abboccamento che s'effettuò nella
notte del 10 dicembre si convenne, che si assassinerebbe Mack nel mezzo di Capua, che Moliterno prenderebbe
immediatamente il comando dell'esercito, manderebbe sotto le mura del Palazzo
reale dì Napoli, Gabriele Manthonnet [*1] ufficiale di artiglieria, ch'egli cercherebbe un congiurato già
designato, che assicuratosi della morte di Mack, si recherebbe al Palazzo e col
pretesto di visita amichevole, penetrerebbe fino a Pignatelli e lo assassinerebbe, come erasi assassinato
Mack. In seguito dovrebbesi impadronire del Castello Nuovo sul cui comandante
poteasi contare. Si prenderebbero tutte le misure necessarie ad un cambiamento
di governo, e si farebbe coi francesi, oramai divenuti fratelli, la pace più
vantaggiosa che sarebbe possibile.
Il 10 dicembre alla notte,
il congiurato napolitano con un pugnale sotto i suoi abiti aspettò, come era
convenuto, Gabriele Manthonnet, sotto le mura del Palazzo; verso dieci ore un
uomo l'avvicinò, era colui che aspettava, ma il messo non apportava la notizia
promessa.
Moliterno sospettato di
tradimento da Mack, venne arrestato e messo in prigione. I patriotti di Capua a
questo arresto aveano sollevato il popolo in favore di Moliterno, Moliterno era
stato rilasciato, ma inviato a Santa Maria dal Generale Mack.
Era evidente che la
cospirazione veniva sventata e che riusciva inutile sbarazzarsi di Pignatelli,
una volta che non erasi potuto sbarazzarsi di Mack.
Ma Pignatelli avvertito,
senza dubbio, da Mack, del complotto del quale tutti e due per poco non erano
stati vittime, ebbe paura, e mandò il Principe di Migliano e il Duca del Gesso,
per conchiudere un armistizio coi Francesi.
Ecco perchè, nel momento che
meno se lo aspettava, Championnet avea visto aprirsi le porte di Capua e
avanzarsi verso di lui i messi del Vicario Generale.
Ma Championnet, sia per
dissimulare la propria situazione, sia che sperasse ottenere di più, rispose
che non potea accettare alcuna condizione che non avesse per risultato la
sommissione delle provincie e la reddizione di Napoli.
Laonde, i plenipotenziari si
ritirarono, ma il domani ritornarono a fare le stesse proposizioni; come la
vigilia furono rimandati.
In fine due giorni dopo, nel
momento in cui la situazione dell'esercito repubblicano circondato d'ogni
parte, diveniva più che mai disperata, il Principe di Migliano e il Duca di
Gesso ritornarono per la terza volta e dichiararono essere autorizzati ad
accedere, a qualsiasi condizione purchè non fosse la reddizione di Napoli.
Questo nuovo procedimento
dei capi Napolitani nella situazione precaria in cui trovavansi, parve tanto
strana a Championnet, da fargli credere che essa celasse un agguato. In
conseguenza di che intese il parere dei suoi Generali riuniti in Consiglio di
Guerra; l'unanimità dei voli fu per l'armistizio che venne firmato.
‑ Questo stabiliva
tregua per due mesi.
‑ Cessione il domani
della fortezza di Capua.
Contribuzioni di due milioni
e mezzo di ducati per covrire le spese di guerra alla quale l'aggressione del
Re di Napoli forzava la Francia.
La somma era pagabile in due
volte, metà il 15 Gennaio, metà il 25 dello stesso mese.
Una linea era tracciata, nei
limiti della quale fino a quando l'armistizio sarebbe osservato si terrebbero i
due eserciti.
Questa tregua fu oggetto di
meraviglia per tutti, e benanco pei Francesi, dappoichè i Francesi ignoravano
come tutti gli altri la causa che l'aveva fatto conchiudere.
Firmato il 10, nel villaggio
di Sparanisi, dal quale prese il nome, questo trattato cominciò ad avere
effetto dal domani; l'11, la città di Capua fu rimessa ai Francesi.
Il 13 il Vicario Generale
fece venire a Palazzo i rappresentanti della Città.
Questa chiamata avea per
iscopo, d'invitarli a trovare i mezzi per ripartire sui grandi proprietari e i
negozianti più ricchi di Napoli, la metà della contribuzione dei due milioni e
mezzo di ducati, cioè, cinque milioni di franchi pagabili il 15, ma i deputati
ricusarono d'incaricarsi di questa impopolare missione, dicendo ch'essi non
entravano per nulla nell'impegno e lasciando colui che l'aveva intrapreso
adempiere all'obbligo come potrebbe.
Nella giornata del 14, si
vide ritornare a Napoli la spedizione di Livorno, comandata dal Generale
Naselli;
cioè, sette mila uomini di
truppe fresche, con le loro munizioni intatte, formando essi soli la metà dei
francesi che minacciavano Napoli.
Poteansi prendere questi
7000 uomini situarli avanti Napoli, farli sostenere da 30,000 lazzaroni e
rendere la città imprendibile.
Ma il Principe Pignatelli
non sentivasi nè forte nè abbastanza popolare per prendere una simile
risoluzione che rendeva urgente la rottura dell'armistizio. Dappoichè se i
cinque milioni non trovavansi pagati il domani, 15, l'armistizio era rotto di
dritto.
D'altra parte i patriotti
desideravano la rottura di quest'armistizio, rottura che permetteva ai Francesi
loro fratelli d'opinione, di marciare su Napoli.
Non si prese, adunque,
nessuna misura relativa ai sette mila uomini che arrivavano nel porto. Laonde
il popolo ciò vedendo, salì su tutte le barche che trovò dal ponte della
Maddalena fino a Mergellina e vogò verso le feluche, s'impadronì dei cannoni,
dei fucili e delle munizioni dei soldati i quali si lasciavano disarmare.
I soldati furono messi a
terra con permesso di ritirarsi ove volevano.
Settemila lazzaroni
rattrovavansi così armati, e vedendosi armati cominciarono a gridare: Viva il Re, Viva la religione, morte ai Francesi!
A questa vista, gli
ufficiali di artiglieria comandanti il Castello Nuovo compresero che
indubitatamente bisognerebbe venire alle mani col popolo: e mandarono il
Capitano Simeoni dal Vicario Generale, per dimandargli cosa dovevano fare ove
mai fossero attaccati.
‑ Difendete il
Castello, rispose il Vicario Generale, ma non fate male al popolo.
Gli ufficiali non compresero
bene questa risposta che parea loro mancare di chiarezza. Ed in fatti era
difficile difendere il castello contro il popolo, senza far male al popolo, e
perciò fecero domandare istruzioni più precise.
Il Capitano Simeoni ricevette
questa risposta.
‑ Fate fuoco, ma a
polvere; una tale dimostrazione basterà a spaventare il popolo.
Simeoni si ritirò alzando le
spalle, ma sulla piazza del Palazzo fu raggiunto dal Duca del Gesso, che gli
ordinò da parte dei Principe di Pignatelli, di non far fuoco per nulla.
Di ritorno al Castello,
Simeoni raccontò ai suoi compagni il risultato dei due abboccamenti avuti col
Vicario Generale, ma nel momento stesso che facea questo racconto, una turba
immensa si avventò sul Castello, sfondò la prima porta, ed occupò il ponte di
fabbrica. Dalla cortina l'ispettore Minichini parlamentò con la folla
domandandole cosa voleva.
‑ La Bandiera reale, la Bandiera reale gridarono tutti ad una voce.
La bandiera reale fu
inalberata.
Allora, la folla domandò con
forti grida armi e munizioni.
Le si rispose di andare a
chiedere un ordine in iscritto al Principe Pignatelli, attesocchè il comandante
del castello era responsabile di quanto esso racchiudeva.
Nel mentre che
parlamentavasi, i Cacciatori del Reggimento Sannita,
che aveano la guardia del Castello, aprirono le porte e la folla s'inoltrò
nell'interno e cacciò gli ufficiali.
Lo stesso giorno, alla
stessa ora, i lazzaroni s'impadronirono degli altri tre Castelli, S. Elmo,
dell'Uovo, e del Carmine.
Forse per movimento
istantaneo del popolo, forse per impulso dato dal Vicario Generale che scorgeva
nella dittatura popolare un doppio mezzo per neutralizzare le mene dei
patriotti e seguire le istruzioni della regina, la cosa rimase un mistero; ma
per quanto i mezzi restassero nascosti, pur nondimeno i fatti si videro
compiuti.
Il domani, 15 gennaio, verso
le due dopo mezzogiorno, cinque vetture cariche di Uffiziali francesi, fra i
quali rattrovavasi, l'Ordinatore Generale Arcambal, entrarono in Napoli, per
ricevervi i cinque milioni convenuti, e andare contemporaneamente allo
spettacolo.
Gli ufficiali discesero
all'Albergo Reale.
Immediatamente la voce si
sparse che dessi venivano a prendere possesso della città, che il Re era
tradito, e che bisognava vendicare il Re.
Chi aveva interesse a
propagare queste voci, era sicurissimamente colui che essendosi impegnato a
pagare i cinque milioni non aveva questi cinque milioni all'ora del pagamento.
Verso le sette di sera,
tutto il popolo in armi si condusse all'Albergo Reale, per scannare i Francesi;
essi non vi erano. Arcambal rattrovavasi al Palazzo presso Pignatelli. Gli
ufficiali erano a S. Carlo.
Tutto questo popolo
fanatizzato, si avventò sopra S. Carlo. Le guardie vennero uccise, e i
lazzaroni si precipitarono nella sala e inondarono la platea ed i palchi,
gridando: morte ai Francesi.
Dei patriotti che erano con
essi ebbero appena il tempo di far loro prendere il corridoio ignorato dal
popolo, e riserbato soltanto al Re e al suo seguito che comunica da S. Carlo
col Palazzo Reale. Dessi trovarono Arcambal dal Principe, lo riunirono a loro e
senza aver riscosso un soldo dei cinque milioni, avendo soltanto corso pericolo
imminente di essere trucidati, ripresero il cammino di Capua, accompagnati da un
forte picchetto di cavalleria.
Al rumore e alla vista di
quella plebaglia che invadeva la sala, gli attori avevano calato il telone e
interrotto lo spettacolo ; in quanto agli spettatori, essi pensavano solo a
mettersi in salvo.
Coloro che conoscono l'agilità
delle mani napoletane possonsi formare un'idea del saccheggio al quale diede
luogo quel tumulto. Varie persone furono SOffocate alle porte di uscita, altre
calpestate lungo le scale.
Il saccheggio fu continuato
nella via.
Col pretesto di assicurarsi
che non vi si nascondessero dei Francesi, si aprivano tutte le vetture, e si
svaligiavano coloro che in esse rinchiudevansi.
I membri del municipio che
avevano perduto ogni potere sul popolo, i patriotti, i personaggi infine di un
rango più elevato, che tutti quei miserabili, correndo le vie, spogliavano e
assassinavano, si condussero tutti presso il Cardinale Arcivescovo di Napoli,
Capece Zurlo, che godeva l'opinione generale, onde impegnarlo, a mettere in
opera i soccorsi della religione per far ritornare nell'ordine tutta quella
bordaglia. Egli salì in carrozza scoperta e si recò in mezzo di essa , ma non
arrivò mai a farsi intendere ; la sua parola era sempre coverta dal grido di: Viva la Santa Fede ‑ Viva S. Gennaro,
morte ai Giacobini. Ventimila uomini s'affollavano intorno a lui armati di
fucili, di sciabole, di spiedi, di spade, di bastoni, non insultandolo, anzi
onorandolo, ma senza dargli retta.
Il popolo, padrone dei tre
Castelli, era benanco padrone della intera città , allora cominciarono, sotto
gli occhi stessi del prelato e senza che vi si avesse potuto opporre, gli
omicidi organizzati. Fino allora poteansi chiamare quelli che succedevano degli
assassinii accidentali, il grido ai
giacobini era un segnale di morte, ora designavasi col nome di giacobino
chiunque era vestito con eleganza ed avea i capelli tagliati alla «Tito» moda
tutta francese e introdotta da Talma che avea portato i suoi capelli così
tagliati nella parte di Tito di Berenice:
da ciò il nome romano. Le mogli dei Lazzaroni li accompagnavano armate di
coltelli e di rasoi, uccidendo dal canto loro, ma sopra tutto, operando su
quelli che i mariti uccidevano, le mutilazioni più orribili ed oscene. In
questo momento di crisi suprema, alcuni patriotti pensarono ad un centinaio de'
loro amici arrestati e detenuti nelle fortezze come repubblicani. Si
travestirono da popolani, si mischiarono ai Lazzaroni e gridarono che bisognava
liberare i prigionieri, per accrescersi le forze di tanti bravi. La proposta fu
accolta con acclamazioni. Si corse alle prigioni si liberarono i prigionieri,
ma con essi sei mila Forzati, veterani dell'assassinio e del furto, i quali si
sparsero per la città, e raddoppiarono il tumulto e la confusione.
I Deputati del popolo, per
cercare di rimediare a tanti mali, si riunirono nella vecchia Basilica di S.
Lorenzo nella quale tante volte eransi discussi i dritti del popoli e quelli
del potere regio.
Abbiamo detto che per la
campagna del 1794 contro i Francesi, e per la sua difesa di Capua qualche
giorno prima, il Principe di Moliterno erasi fatto essenzialmente popolare.
Abbiamo soggiunto che i patriotti gli avevano fatte delle proposte da lui
accettate, e che la vigilanza sola di Mack avea fatto abortire il complotto; si
ebbe l'idea di proporlo ai Lazzaroni come generale
del popolo.
La proposta fu fatta e
accolta con acclamazioni.
La sua entrata era stata
preparata per aver luogo in mezzo all'entusiasmo: nel momento in cui il popolo
gridava :
‑ Sì, Sì, Moliterno,
Viva Moliterno ‑ il Principe comparve a cavallo.
Alla sua vista, le grida
moltiplicaronsi; il popolo lo circondava come avea il mattino circondato il
Cardinale, chiamando Moliterno, suo scudo, suo difensore, suo padre.
Moliterno entrò nella Chiesa
di S. Lorenzo: ciò che eravi di più urgente era di disarmare il popolo, e
disarmandolo arrestare i massacri. Per conseguenza digià proclamato dal popolo,
egli fu dal municipio proclamato Capo supremo del popolo e investito di poteri
illimitati, col dritto di scegliere un Luogotenente.
Nel tempo stesso, si spedì
al Vicario Generale Pignatelli una deputazione incaricata di esporgli che la
città non voleva obbedire ad altro capo che a quello che erasi scelto, e che
questo Capo che essa avea eletto era Don Girolamo Principe di Moliterno.
Egli era dunque invitato a
riconoscere i nuovi poteri creati dal municipio e accettati o meglio proclamati
dal popolo.
La deputazione si presentò a
Palazzo.
Questa volta i deputati non
venivano più da supplicanti ma da padroni.
Fu il Principe di Piedimonte
che parlò il primo.
« Signore, diss'egli al
Vicario Generale senza dargli il titolo di principe e neanco quello di
Eccellenza. Noi veniamo in nome della Città ad invitarvi a rinunziare ai poteri
che avete dal re, a rendere il denaro dello Stato che è a vostra disposizione e
a prescrivere con editto, che sarà l'ultimo reso da voi, ubbidienza intera al
municipio e al Principe di Moliterno, nominato da esso Generale del popolo.
Il Vicario Generale senza
ricusare positivamente, chiese 24 ore per riflettere e nella notte s'imbarcò
col tesoro reale, sopra un bastimento facendo vela per la Sicilia.
Arrivato a Palermo fu
arrestato e messo in prigione per ordine del Re.
Era il terzo gran
funzionario pubblico che riceveva simile ricompensa pei suoi servigi.
Il primo era il ministro
della Guerra Ariola, il quale essendosi sempre opposto a quella fatale campagna
di Roma, era stato accusato dal Re di aver fomentato il tradimento per non
farla riuscire.
Il secondo era quel General
Michaux o Micheroux, rifuggiato di Tolone, di cui parla Nelson nelle sue
lettere e che con tanta diligenza era fuggito dinanzi ai Francesi.
In fine il terzo era il
Vicario Generale Principe di Pignatelli.
Il nuovo capo del popolo
dopo aver impegnata la sua parola ai patriotti, e promesso di caminare in ogni
punto di accordo con essi, uscì dalla Chiesa di S. Lorenzo, montò di nuovo a
cavallo, e con la sciabola sguainata alla mano dopo aver risposto col grido di
Viva il popolo al grido di Viva Moliterno,
cominciò dal nominare per per suo secondo D. Lucio Caracciolo Duca di
Roccaromana, il cui nome quasi popolare quanto il suo, sempre a causa della sua
difesa contro i francesi, fu salutato da immense acclamazioni. Poscia ci fece
un'arringa per invitare il popolo a depositare le armi in un convento vicino
destinato a servir da quartiere e ordinò sotto
pena di morte di obbedire a tutte le misure ch'egli credeva necessarie per
ristabilire la pubblica tranquillità.
Nel tempo stesso, onde
appoggiare materialmente le sue parole fece drizzare le forche su tutte le
strade, e per tutta la città distribuì delle pattuglie scelte fra i cittadini
più onesti, incaricate di arrestare e d'impiccare i ladri o gli assassini colti
in flagrante delitto.
Questa ordinanza non era del
resto che l'applicazione di un decreto emanato dal Municipio.
Era stato benanco convenuto
che si sostituirebbe la bandiera dei popolo, gialla, rossa e bleu alla bandiera
reale.
Moliterno prese per pretesto
che volendo difendersi ad oltranza contro i Francesi, era d'uopo mostrar loro
una bandiera diversa da quella che era fuggita dinanzi ad essi.
Il popolo, orgoglioso di
avere la sua bandiera, accettò.
Era il segnale che dovea
esser dato ai patrioti napoletani che trovavansi nelle fila francesi, che si
era padrone dei Castelli.
Si nominarono a questi
castelli quattro comandanti che ne presero possesso la sera istessa.
Era in questo modo che a
poco a poco detronizzava il popolaccio.
Allorquando il mattino, si
conobbe la fuga del Principe e le nuove sciagure, che in seguito di questa
fuga, minacciavano Napoli, la collera del popolo si rivolse contro Mack. Una
banda di tre o quattro mila Lazzaroni si mise a rintracciarlo, e si diresse
verso Casoria, ove credeva di trovarlo; le ricerche furono vane: il Generale
Mack erasi rifuggiato in una piccola casa di Caivano : là seppe che i Lazzaroni
erano in cerca di lui, e avevano ferito sulla strada di Caserta il Duca di
Salandra che scambiarono per lui ‑ Mandò un uffiziale per dimandare asilo
al Generale Championnet, ma senza attendere che l'uffiziale gli arrecasse la
risposta, egli vestì un uniforme Tedesco, parti da Caivano allo spuntar del
giorno e giunse al campo repubblicano quasi contemporaneamente al suo inviato
il Conte di Dietrischtein.
Scorgendo il Generale Mack
sulla soglia della sua tenda e esitando ad entrare, Championnet si alzò e andò
verso di lui.
Allora Mack tutto smarrito
sguainò la spada e la presentò al generale.
‑ Ritenete la vostra
spada, Generale, gli disse Championnet con disinvoltura ‑ il mio governo
mi ha proibito ricevere dei regali di fabbrica inglese.
Poscia gli diede un
passaporto per Milano, mettendolo a disposizione del Direttorio.
Il Direttorio lo fece
arrestare e lo cambiò più tardi col Generale Alessandro Dumas mio padre, prigioniero
egli ancora a Brindisi.
Finiamo presto con questa
incapacità sconosciuta, chiamato il Generale Mack.
Malgrado i falli da lui
commessi nel 1793, nei Paesi Bassi, e nel 1799 a Napoli, ottenne il Comando
dell'esercito di Baviera nel 1804. Allo avvicinarsi di Napoleone nel 1805 si
rinchiuse dentro Ulma e dopo due mesi di blocco, firmò la Capitolazione la più
vergognosa che mai potessero menzionare gli annali della Guerra. Egli si arrese
con 35,000 uomini.
Per questa volta gli si fece
un processo e fu condannato a morte. La sua pena venne commutata in una
detenzione perpetua allo Spielberg, d'onde uscì in grazia, dopo due anni.
I Lazzaroni furiosi di
vedersi sfuggire il Generale Mack da essi considerato come la causa di tutti i
mali di Napoli, marciarono sugli avamposti francesi, situati al Ponte Rotto ;
battettero le guardie avanzate e benanco la Gran guardia, ma il Capo Brigata
Poitou che al primo colpo di fucile fece prendere le armi ai suoi uomini,
caricò tutta quella moltitudine nel momento in cui essa traversava la linea di
demarcazione, tracciata fra le due armate, ne uccise una parte, mise il resto
in fuga, ma senza inseguirla, si arrestò nei limiti.
Due avvenimenti avevano
rotta la tregua.
La mancanza di pagamento dei
cinque milioni stipulati nel trattato, e l'aggressione dei lazzaroni.
I ventiquattro deputati
della Città compresero a qual pericolo erano esposti. I francesi dopo i due
insulti che gli erano stati fatti non potevano mancare di marciare su Napoli.
Essi adunque partirono per
Caserta avendo alla testa il Principe di Moliterno.
Dapprima comparendo dinanzi
al generale tutti parlarono insieme, gli uni pregandolo, gli altri
minacciandolo, gli uni domandando umilmente la pace, gli altri sfidandolo con
insolenza alla guerra.
Finalmente il Principe di
Moliterno prese la parola.
« Generale, egli disse, dopo
la fuga del re e del Vicario Generale, il governo del Regno è nelle mani del
Senato della Città, cosicchè noi facciamo un atto legittimo e durevole
trattando con voi ».
Presentando allora una
lettera al Generale Championnet : « Ecco una lettera, continuò, che racchiude i
poteri dei deputati qui presenti. Intanto voi che, vincitore di numerosa
armata, venite al passo di corsa dai piani di Fermo fino alle rive dei Lagni,
voi crederete che le dieci miglia che vi separano da Napoli non sieno che un
breve spazio; ma lo direte lunghissimo, invarcabile forse, se penserete che
avete intorno a voi popoli armati e coraggiosi, che sessantamila cittadini con
armi, castelli, navi da guerra, animati dalla religione, esaltati
dall'indipendenza, difendono una Città di cinquecento mila abitanti, che le
provincie sono insorte contro di voi, numerose ed irritate. Supponiamo anche
che vi sarebbe possibile il vincere, vi sarà impossibile mantenere la vostra
conquista. Cosicchè tutto vi consiglia far la pace con noi. Noi vi offriamo i
due milioni e mezzo di Ducati pattuiti nell'armistizio, e tutto il denaro che
dimanderete purchè non usciate dai limiti della moderazione: in oltre,
vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno ; in fine
strade libere e sicure. Voi avete riportato dei grandi successi guerreschi.
Avete preso armi, bandiere, avete fatto molti prigionieri, avete debellate
quattro fortezze, adesso noi vi offriamo del denaro e vi domandiamo la pace
come ad un vincitore. Così avete in una volta la gloria e la fortuna. Pensate
Generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito, e se
accordandoci la pace voi consentirete a non entrare nella Città, il mondo
applaudirà alla vostra magnanimità; se al contrario la resistenza degli
abitanti ve ne chiude l'entrata, non vi resterà allora che la vergogna. »
Championnet avea ascoltato
con meraviglia questo lungo discorso preparato anticipatamente e che parca più
tosto scritto che parlato.
« Signore, diss'egli
freddamente al Principe di Moliterno, credo che commettete un grave errore. Voi
parlate a' vincitori come parlereste a' vinti; la tregua è rotta per due
ragioni: la prima è che non avete pagato il 15 la somma convenuta, la seconda è
che i vostri lazzaroni ci son venuti ad attaccare nelle nostre linee.
« Domani io marcerò contro
Napoli ».
La discussione durò lungo
tempo fra il Generale ed i deputati, ma senza nulla arrecare di definitivo.
Durante questo tempo uno di
quei volta bordo, sì frequenti nelle guerre civili, operavasi in Napoli.
I Lazzaroni che avevano
visto partire i deputati e con essi Moliterno pel campo francese, si credettero
traditi, ed esaltati dal partito dei preti e dei monaci, che ricoprivano
l'egoismo ecclesiastico del mantello reale, slanciaronsi verso il convento ove
dessi avevano deposte le armi, se ne impadronirono di nuovo, fecero irruzione
quando meno si aspettavano, nel Castello, ne ritolsero il comando ai nobili, vi
misero guarnigione e Capi propri.
In quanto alle bandiere
tricolori, quantunque si fosse abbassata la bandiera reale non erasi avuto il
tempo d'inalberarle in vece di questa.
Le bandiere reali furono
nuovamente rimesse ai luoghi da dove erano state tolte.
Il popolo s'impadronì in
oltre di sette ad otto pezzi di cannone che trascinò nella strada, si nominò al
posto del Principe di Moliterno e del Duca di Roccaromana, due capi tratti dai
suoi ranghi, l'uno, mercante di farina chiamato Paggio, l'altro, facchino,
chiamato Michele il Pazzo a causa delle sue sfrenatezze giovanili.
Allora ricominciarono i
saccheggi e le esecuzioni; le forche drizzate da Moliterno per impiccare i
ladri e gli assassini, servirono ad impiccare i giacobini, cioè tutti coloro,
l'abbiamo detto, che i lazzaroni incontrarono con un abito decente e dei
capelli tagliati rasi. Una spia dell'antico governo denunziò l'avvocato Fasulo,
s'irruppe nella sua casa e l'avvocato e suo fratello ebbero appena il tempo di
salvarsi pei tetti; si trovò presso di loro una scatola riempita di coccarde francesi,
ed erasi per trucidare la giovane sorella di essi, allorchè questa si mise al
coverto dietro un gran crocifisso. Il timore religioso arrestò gli assassini
che si contentarono di saccheggiare la casa e di appiccarvi il fuoco.
Ad un tratto, fecesi nella
città un tumulto che dominava tutti gli altri.
Si arrestò a Capodichino un
corriere che portava al generale Mack un dispaccio del Direttore delle finanze;
Zurlo [*2]. Qualunque cosa in simile momento apportava con esso il sospetto di
tradimento.
Una banda di Lazzaroni si
precipitò subito verso la casa di Zurlo, e lo condusse al Palazzo della città
nella sua propria carrozza che si trovò messa in ordine. Colà, siccome il
Municipio non era ancora radunato, e che fra la folla di quelli che avevano
recato Zurlo, nessuno sapeva leggere, si fece aprir la lettera dal Curato di S.
Angelo a Segno, ch'erasi andato espressamente a cercare.
Il dispaccio diceva a Mack
che gli darebbero notizie della sommossa popolare allorquando avrebbe prodotto
un risultato.
Poi soggiungeva:
Relativamente al Generale
Championnet, egli è prevenuto che è questo stesso sollevamento popolare del
quale mi chiedete notizie, che à impedito di pagarglisi que' cinque milioni.
Ma non appena il nome di
Championnet fu pronunziato, il popolo, pel quale questo nome equivaleva a
quello dell'Anticristo, voleva trucidare Zurlo. Per fortuna trovavasi colà, al
palazzo di città il Duca di S. Valentino che era in gran credito presso il
popolaccio. Egli ottenne dai Lazzaroni che Zurlo sarebbe condotto e
imprigionato al Castello del Carmine, mentre che il Municipio si riunirebbe e
deciderebbe sulla sorte di lui. Un gruppo d'uomini s'impadronì allora di Zurlo,
e lo trascinò al Castello del Carmine percotendolo con colpi di bastone,
sputandogli in viso, facendogli in fine ogni sorta d'insulti.
Degli altri meglio avvisati
corsero alla di lui casa per saccheggiarla.
Vi si trovarono mille
novecento ducati in argento contante, 300 suoi e 1600 depositati da
particolari.
Ma almeno aveva salva la
vita.
Il domani, un avvenimento
ancora più terribile successe.
Erano a Napoli due
gentiluomini, due fratelli che vivevano stimati da tutti.
Erano il Duca della Torre e
D. Clemente Filomarino.
L'uno era un distinto
matematico, l'altro un poeta sul genere di Sanazzaro.
Verso mezzogiorno, il Duca
faceasi pettinare dal suo cameriere ; ricevette una lettera dal suo parente il
principe Rospigliosi da Roma: questi raccomandavagli Championnet come un uomo
distintissimo, dicendogli che non potrebbe abbastanza bene riceverlo.
Pettinando il Duca, il
cameriere lesse la lettera per di sopra la spalla.
Il Duca pettinato che fu, si
alzò e rinchiuse la lettera in un forziere.
Il Cameriere discese, si
recò al posto vicino e raccontò al popolo quanto era accaduto, denunciandogli
il Duca della Torre come giacobino, e indicandogli dove potrebbe rinvenir la
lettera.
Il popolo irruppe nel
Palazzo del Duca, richiese la lettera e poichè questi non voleva darla, scassinò
il forziere, trovò la lettera, menò il Duca e il fratello di lui sulla strada
nuova della Marina, formò un rogo di ogni sorta di materia combustibile, vi
legò le sue due vittime, e le bruciò a fuoco lento fra le grida di Viva il re, Viva la santa religione, muoiano
i giacobini.
Il supplizio durò tre ore!
In questo frattempo metteasi
a sacco ed a fuoco il palazzo del Duca della Torre, si sparpagliò la biblioteca
composta di libri rari, e manoscritti unici, fecersi a pezzi macchine preziose
e un Gabinetto di Storia naturale che il Duca della Torre avea impiegato
trent'anni a formare!
Ferrari avea aperta la via
sanguinosa, il popolo entrato una volta in questa via dovea portare l'omicidio,
e l'assassinio fino allo spavento.
‑ Non è abbastanza che muoiano, diceva Domiziano, bisogna sentirli morire !
Il popolo di Napoli fu sotto
questo rapporto, il degno allievo del tiranno Romano.
Intanto Championnet
manteneva la parola data al
Principe di Moliterno e
marciava su Napoli. Alla notizia che le guardie avanzate erano a vista della
città, i lazzaroni urlarono di rabbia: essi chiamarono nei loro ranghi, misero
alla loro testa, quei medesimi soldati e quegli stessi ufficiali del General
Naselli dei quali avevano preso le armi e le cartuccie, e cominciarono a
trascinare dei cannoni a Poggio Reale, a Capodichino, a Capodimonte, e al ponte
della Maddalena, vale a dire su tutti i punti pei quali i francesi potevano
entrare.
Frattanto gli assassini
dell'interno seguivano il loro stile: correa voce che i Clubi erano riuniti per
favorire l'entrata ai francesi ; sfondaronsi le porte a più d'una casa col
pretesto di rintracciare e disperdere tali riunioni, si saccheggiava, si
derubava, si bruciava: poi se scorgevasi da lungi o da vicino un nemico lo si
additava gridando, al giacobino! ‑ e il giacobino vero o falso era messo
a morte.
In tutto ciò il peggio si
era che la plebaglia come abbiamo detto, erasi impossessato dei quattro
Castelli che dominavano la Città.
Intanto, Moliterno al suo
ritorno da Caserta, era stato istruito, fortunatamente per lui, fuori della
città, da quegli stessi che se ne fuggivano, di quanto accadeva nell'interno di
Napoli.
Egli spedì allora due
corrieri latori ciascuno di un biglietto del quale avean preso conoscenza, e
che dovevano distruggere se erano arrestati, sia lacerandolo, sia ingoiandolo.
La commissione veniva, ciò nonostante, eseguita avvegnachè i messi conoscevano
il contenuto dei biglietti strutti.
Uno di questi biglietti era
pel Duca di Roccaromana, ed indicandogli il luogo dove era nascosto Moliterno,
diccagli venirlo a riprendere con una ventina de' suoi amici, caduta la notte.
L'altro era pel cardinale
arcivescovo; gl'ingiungeva pena la morte, di mettere in movimento alle dieci di
sera tutte le campane della città, di raccogliere col suo capitolo, tutto il
clero della Cattedrale, e di esporre il sangue e la testa di S. Gennaro.
Il resto lo riguardava.
Due ore dopo, i due messi
erano giunti alla loro destinazione.
Verso le sette di sera,
Roccaromana arrivò con suo fratello Nicolino Caracciolo, che oggi vive ancora,
e dalla cui bocca l'autore di questo libro ricevè una parte di questi dettagli,
e venticinque dei loro amici sui quali potevano contare.
Moliterno li rimandò nel
medesimo istante a Napoli, ordinando loro di trovarsi a mezzanotte nella piazza
del Convento della Trinità, ove impegnavasi di raggiungerli. Dovevano quivi
ricevere il maggior numero possibile di loro camerati, ognuno armarsi il meglio
che gli era possibile.
La parola d'ordine era: Patria e Libertà.
Non dovevano curarsi di
nulla, qualunque fosse l'avvenimento che accadeva, Moliterno rispondeva di
tutto.
Solamente egli ritenne
presso di sè Roccaromana in assenza di ambi loro, e i Patriotti convocati
dovevano obbedire a Nicolino Caracciolo.
Alle dieci della sera, fedele all'ordine ricevuto, il Cardinale Arcivescovo fece suonare contemporaneamente tutte le campane della città.
A questo rumore inatteso
sopra tutto a simile ora, i lazzaroni arrestaronsi nell'opera di distruzione,
gli uni credendo a un segnale di gioia dicevano che i francesi avevano preso la
fuga, gli altri al contrario credendo ad un appello alle armi, credevano che i
francesi erano padroni d'una porta della Città.
In ogni caso, gli uni e gli
altri correvano alla Cattedrale.
Vi trovarono il Cardinale
vestito dei suoi abiti pontificali in mezzo del suo clero, nella Chiesa,
illuminata da un migliaio di ceri, con la testa ed il sangue di S. Gennaro
esposte sull'altare.
Si sa la divozione che il
popolo napolitano ha per queste sante reliquie ; alla loro vista i più furiosi
ed i più accaniti cominciarono a montare in collera; caddero in ginocchio nella
chiesa quelli che avevano potuto entrare, e nella strada quelli che, a causa
dell'innumerevole folla, erano stati obbligati a restare di fuori : si misero a
pregare.
La processione col Cardinale
Arcivescovo in testa, si apparecchiò ad uscire ed a percorrere la città.
In questo momento, ai due
lati del prelato comparvero, rappresentanti del dolore popolare, Moliterno e Roccaromana,
vestiti a lutto, co' piedi nudi, le lagrime agli occhi. Il popolo vedendo tutto
ad un tratto in costume di penitenti due dei più grandi signori di Napoli, non
pensò più alla accusa di tradimento; ma fanciullo sempre, illuso alle
apparenze, si lasciò commuovere alla vista di questa umiltà e non pensò più che
a seguire le sante reliquie portate dall'Arcivescovo. La processione fece un
gran giro per la città, e ritornò alla Chiesa, ove Moliterno montò in pergamo e
fece al popolo un discorso nel quale gli disse che S. Gennaro, protettore
celeste della città, non permetterebbe che essa cadesse nelle mani dei
francesi. Poscia invitò tutti a rientrare nelle proprie case, e riposarsi di
tante fatiche col sonno, dando appuntamento, colle armi alla mano alla punta
del giorno a tutti coloro che volevano combattere.
Poi, l'Arcivescovo impartì
la benedizione al popolo che si ritirò ripetendo le parole del celebre
predicatore: ‑ Non abbiamo che due mani come i francesi, ma S. Gennaro è
per noi.
La chiesa sgombrata, le
strade ritornate solitarie, Moliterno e Roccaromana ripresero le loro armi, e
si recarono alla piazza della Trinità ove doveva attenderli Nicolino Caracciolo
con quelli fra i loro compagni che sarebbonsi riuniti a lui.
Nicolino Caracciolo era uno dei
quattro gentiluomini che era stato nominato dalla città Governatore dei
Castelli di Napoli e che non avevano avuto il tempo di prender possesso del
loro comando: i patriottiche avevano riuniti erano Simeone, che abbiamo visto
andare a chiedere degli ordini al Vice Re, e a cui il Vice Re rispose di tirare
sul popolo senza fargli male, il capitano di artiglieria Antonio Sicardi,
Nicola Verdinois, Guglielmo Granalès, il nome degli altri non è conservato
dall'istoria.
La piccola truppa
componevasi presso o poco di cento cinquanta uomini. Essa doveva, coll'aiuto
della parola d'ordine che erasi procurata, entrare nella piazza.
Ma arrivata alla porta del
Castello S. Elmo, colui che volea far prendere i suoi compagni per una ronda di
notte, si avvicinò alla sentinella e si abboccò con essa, ma in luogo di darle
una parola d'ordine, che era Partenope, disse
Napoli.
La sentinella riconobbe
l'astuzia; diede l'allarme. La piccola truppa fu respinta da una fucilata e tre
colpi di cannone che fortunatamente non le fecero alcun male, e bisognò trovare
un altro mezzo per entrare nella piazza, che era tenuta da tre o quattro cento
lazzaroni e da uno dei loro capi molto noto per la sua crudeltà chiamato
Brandi.
Ecco a che si convenne :
l'audacia stessa del progetto doveva farli riuscire.
Nella stessa mattina, cioè,
in quella di sabato 19 Gennaio, Nicolino Caracciolo, munito del suo brevetto
firmato dal capo del Municipio, accompagnato dal Capitano Comandante Simeoni,
dal Capitano Verdinois e da cinque o sei patriotti solamente, gruppo che non
potea ispirar diffidenza, si avanzò di pieno giorno verso il Castello S. Elmo,
per prenderne il Comando e dirigerne la difesa. Fu giuocoforza riceverlo con
gli onori dovuti ai capi. D'altronde siccome erano sette o otto soltanto così il
loro numero non sembrò terribile ai 250 lazzaroni che lo guardavano. Il
Capitano Simeone a cui Nicolino Caracciolo diede immediatamente la direzione
dell'artiglieria chiamò il magazziniere che venne scusandosi di non aver le
chiavi le quali erano nelle mani di Brandi. Simeoni gridò contro questo ordine,
e ordinò che Brandi rendesse le chiavi. Brandi obbedì dicendo : Cosa vogliono
da noi, questi damerini? non mi piacciono per nulla e non ci metto nulla a far
loro tagliare la testa! Ma la fermezza espressa sul viso di Caracciolo, quella
superiorità che esercitano, sempre a Napoli, principalmente i gran signori
sull'uomo del popolo, le parole di fratellanza che caddero dalla bocca dei
nuovi venuti, la speranza di fare, in grazia dei loro talenti, una buona difesa,
fecero sì che le minacce di Brandi non avessero alcun seguito.
Prima dell'entrata di
Nicolino Caracciolo, e dei suoi cinque o sei compagni, un'altra astuzia era
stata combinata : trenta o quaranta Patrioti, travestiti da popolani, vennero
all'imbrunire della notte, come se fossero inseguiti da'giacobini, a domandare
aiuto al Castello S. Elmo, parlavano il dialetto napoletano ed erano inermi, si
chiese l'avviso di Nicolino, che rispose di non trovare sconveniente che si
facessero entrare. Furono introdotti; erano una parte di quelli che Nicolino
aspettava, e fra essi rattrovavasi, travestita da uomo Eleonora Fonseca
Pimentel che era fuggita dalle prigioni della Vicaria ove trovavasi arrestata
come sospetta.
Avremo ad occuparci più
tardi, di questa bella, nobile e generosa donna.
Si trovarono così riuniti,
al numero di una cinquantina di patrioti, uomini risoluti e pronti a rischiare
tutto. Dall'altra parte, dei contadini mischiati ai lazzaroni e facendo parte
della guarnigione del Castello, erano da due giorni senza soldo e sentendo dire
a Simeoni che per la patria bisogna saper soffrire la fame la sete e la
miseria, chiesero di uscire dal Castello, le cui porte furono loro aperte
immediatamente.
Erano altrettanti nemici dei
quali disfaceansi.
La sera Nicolino Caracciolo
col pretesto di sicurezza, ordinò di fare due grandi ronde intorno al Castello
S. Elmo; ognuna di queste ronde dovea essere di quaranta uomini. Brandi
comandava l'una di esse. Non appena, le due ronde. furono fuori del Castello,
28 soldati di Naselli mischiati ai popolani vennero disarmati e chiusi; poscia,
accanto ad ogni lazzarone in sentinella, fu situato un patriota coi pretesto
che l'imminenza del pericolo esigeva doppia guardia.
Prese tali preacauzioni A
richiamò Brandi colla scusa di dargli nuovi ordini. Brandi rientrò al Castello,
fu preso disarmato, rinchiuso nel sotterraneo; si pensò un istante a
processarlo ed impiccarlo, ma una voce surse che disse che essendo rientrato al
Castello per ordine del suo superiore la vita di lui doveva esser sacra. Questa
leale osservazione bastò per ricondurre tutti alla lealtà, e Brandi restò
prigioniero; ma ebbe la vita salva.
Alle sei di sera Moliterno e
Roccaromana furono introdotti alla lor volta, col resto dei congiurati, nel
Castello.
I due Generali portavano con
essi la cassa dei propri reggimenti, dimodochè potettero non solo pagare il
soldo agli artiglieri; ma approviggionare il Castello, che d'allora appartenne
senza contrasto ai patriotti.
La rabbia del popolo divenne
grande allorchè seppe il castello S. Elmo non essere più suo, e principalmente
quando vide che per annunziare questa nuova a Championnet, i patrioti
napoletani inalberarono la bandiera tricolore della Repubblica Francese.
Vi furono grandi discussioni
su questo oggetto. Moliterno e Roccaromana considerandosi sempre come i Capi
del Popolo, non volevano inalberare altra bandiera che quella del popolo. Ma
Simeoni che conosciamo digià e Logoteta che conosceremo fra breve, tutti e due
bravi patrioti e molti altri cittadini insistettero, dicendo che poichè
dall'alto del castello scorgevansi i fuochi dei bivacchi Francesi, doveasi dai
bivacchi francesi vedere la bandiera che sventolava sopra S. Elmo, ch'era
perciò importante che i francesi vedessero lo stendardo repubblicano sulla
fortezza e riconoscessero che eranvi degli amici.
Fu allora che si confezionò
una bandiera tricolore con un lembo di un'antica bandiera bianca, un cappotto
bleu e un uniforme rosso.
Alle due dopo mezzo giorno
il 21 gennaio 1799, giorno anniversario dell'esecuzione di Luigi XVI sulla
piazza della rivoluzione, la bandiera francese era inalberata sul castello S.
Elmo e assicurata con quattro colpi di cannone.
Da quell'ora, da quel
giorno, data veramente l'era della repubblica partenopea.
A quella vista in effetti,
Championnet, se gli restava qualche dubbio, lasciò almeno ogni esitazione e
marciò su Napoli per attaccarla lo stesso giorno.
Gli è nello stesso
Championnet che bisogna vedere i dettagli di questo assedio memorabile, degno
di essere accoppiato a quello di Saragozza, e la giustizia resa a quell'eroica
difesa che sventuratamente attaccavasi ad interessi antiliberali. Quindi è che
particolarmente da Championnet impronteremo il racconto che segue.
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