I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro II 

 

 

 

CAPITOLO XV.

 

« Al bagliore dell'incendio che divorava questa marina la quale era costata tanto denaro, il Popolo Napoletano ‑ dice Cuoco ‑ vide tutti gli errori del suo governo e tutte le miserie del suo destino ».

Il popolo non amava più il re che lo aveva con tanta durezza abbandonato e così sfrontatamente rovinato abbandonandolo ‑ Il popolo non volea neanco sentir parlar di lui perchè diceva: tutti quei bei vascelli, potea portarli con sè, condurli in Sicilia, in vece di bruciarli e poichè avea promesso di ritornare, ritornare con essi ‑ Ma restavano in lui tre impressioni inculcate nel suo spirito da tanti anni, il rispetto della religione, l'amor della patria, l'odio dei Francesi.

Avrebbe potuto trarsi gran partito da queste disposizioni, tanto maggiormente in quanto che la situazione dei francesi diveniva di più in più precaria.

L'armata francese, o meglio il Corpo d'Armata di MacDonald, avea provato uno scacco avanti Capua che volea prendere per sorpresa; un artigliere diede l'allarme mettendo fuoco al suo pezzo situato su di un'opera avanzata a S. Giuseppe. La sorpresa per conseguenza fallì. I francesi eransi provati a, passare il Volturno a Caiazzo; e Roccaromana li avea respinti.

Championnet allora dette ordine all'esercito di concentrarsi intorno a Capua, che egli volea prendere pria di marciare su Napoli: l'esercito obbedì; ma noi abbiamo detto in mezzo a quali pericoli ed a quali assassini.

Citavansi omicidi spaventevoli.

L'aiutante di Campo, Claie, mandato dal Generale in Capo al Generale Lemoine, erasi affidato alla sua guida: tradito da essa, fu f atto a pezzi.

All'attacco del ponte del Garigliano l'aiutante di Campo Gourdel, un Capo Battaglione di fanteria leggiera, e vari ufficiali e soldati, rimasti feriti sul campo di battaglia erano stati legati agli alberi ed arsi a fuoco lento, nel mentre che la plebaglia, donne e ragazzi ballavano intorno ad essi una specie di danza di tregenda.

Il Capitano Tremeau fu circondato dalla parte di Traetto con un distaccamento di trenta o quaranta uomini, ed egli e i suoi uomini, dal primo fino all'ultimo, furono trucidati con tutte le varietà ed i raffinamenti del supplizio, che abbiano mai potuto inventare i più esercitati inquisitori.

Allora, da Caserta il Re avea lanciato il seguente ordine del giorno.

« Tosto che i Francesi metteranno il piede sul suolo napoletano, tutti i comuni devono insorgere in massa e il massacro comincerà ».

Gli ordini del Re venivano eseguiti alla lettera; oltre tutta quella turba di contadini, andati alla caccia dei Francesi, appostati dietro tutti gli alberi, nascosti dietro ogni rupe, che massacravano tutti quelli che avevano l'imprudenza di restare all'indietro della colonna o di appartarsi dal loro campo, i sette mila uomini di Livorno, riuniti al resto della colonna di Damas, s'erano rimbarcati per scendere alle foci del Garigliano e minacciavano d'attaccare le spalle dell'armata francese, mentre che Mack uscendo da Capua gli presenterebbe la battaglia di fronte.

Lasciamo Championnet, col suo solito sangue freddo, dare gli ordini per far fronte all'armata regolare napoletana, alle guerillas, organizzate da Pronio, Rodio, Fra Diavolo, Mammone, ai contadini in fine isolati e facendo la caccia per conto loro, e vediamo ciò che accadeva a Napoli.

La Regina, partendo avea lanciata la sua parola d'ordine: vera o no, si ripeteva con terrore.

‑ Noi partiti, avea detto a Pignatelli, incendiate Napoli, e fate che non resti anima vivente dai notai in sopra.

Dal 23 Dicembre, cioè, dal momento in cui la squadra non era più a vista i rappresentanti DELLA CITTA' Si riunirono per provvedere alla sicurezza di Napoli.

Chiamavansi LA CITTA' la riunione di sette persone elette dai sedili dei quali abbiamo già spiegato l'origine e le funzioni.

Di queste sette persone, sei appartenevano alla nobiltà.

Una al popolo.

Gli è ciò che da noi chiamasi la municipalità.

La CITTA' adunque ordinò come prima misura di formare una Guardia Nazionale e di eleggere quattordici deputati destinati a prendere gl'interessi e la difesa di Napoli nel mentre che gli avvenimenti si preparavano.

Il 25 Decembre mentre si era occupati all'elezione dei quattordici deputati, la Città e la magistratura andarono ad ossequiare il Vicario Generale Pignatelli, il quale li ricevette con tale insolenza da non far mettere più in dubbio che la regina avesse effettivamente dato l'ordine fatale che faceva tremare i Napoletani.

I deputati eletti si riunirono alla CITTA' e, malgrado il poco successo della prima ambasciata, ne mandarono una seconda al Vicario Generale, dimostrandogli la necessità d'autorizzare la Guardia Nazionale ch'essi avevano decretata. Ma il Vicario Generale fu ancora più rozzo e più brutale questa volta che la prima, rispondendo al messaggio che la sicurezza della città apparteneva a lui, e non a loro, e che ne darebbe conto a chi di dritto.

Ma la CITTA' non si lasciò intimidire, essa mandò nuovamente i deputati, e il dialogo fu breve, dappoiché il Vicario Generale alzò la voce ancor più di quanto avea fatto nelle due precedenti conferenze.

I deputati si contentarono allora di rispondergli: Va bene! Agite, da parte vostra, noi agiremo dalla nostra e vedremo per chi si deciderà il popolo.

Poscia si ritirarono.

Due giorni dopo, avevano il permesso di formare una guardia Nazionale per mezzo di arrollamenti; allora sursero grandi discussioni sul modo di formarla; si proposero piani sopra piani, ma sempre la prima condizione di questi piani era di dare il comando ai Nobili. Gli eletti di Vaglio, di Piedimonte, di Rocca, di Caposele e qualche deputato s'opposero a questa preferenza; finalmente, prevalse un voto che pretendeva niente esser possibile e durevole nella nuova milizia, se il comando non fosse egualmente diviso tra i nobili ed i borghesi.

Questo voto era quello di un cittadino nominato Gaetano Spinelli.

Su queste basi s'estese un piano ben risoluto, e in meno di tre giorni quattordici mila uomini s'arruolarono.

Ma ciò non era tutto: questi quattordici mila uomini bisognava armarli ed in questo benanco s'incontrò da parte del Vicario Generale un'opposizione ostinata; a forza di lotte si giunse ad ottenere 500 fucili, una prima volta, 200 fucili l'altra. I patrioti, allora ‑ la parola cominciava a circolare per la città ‑ i patrioti allora furono invitati a prestare i loro. Le pattuglie incominciarono immediatamente e la città prese un certo aspetto di tranquillità.

Tutto ad un tratto si seppe a Napoli che una tregua di due mesi, le cui prime conseguenze dovevano essere la reddizione di Capua, erasi stabilita la vigilia, cioè il 9 gennaio 1799, a richiesta del Generale Mack fra il Principe di Migliano e il Duca del Gesso per parte del Principe Pignatelli, ed il Commissario ordínatore, Arcambal, dall'altra per l'esercito repubblicano.

In fatti, nel momento in cui Championnet meno se lo aspettava, e cercava nella disperazione quell'ultima risorsa che rimanga ai prodi, vedea aprirsi le porte di Capua e avanzarsi verso di lui, preceduti dalla bandiera parlamentaria, alcuni ufficiali superiori incaricati dal Vicario Generale di proporre l'armistizio.

Questi ufficiali superiori che non conoscevano Championnet, erano, come abbiamo detto, il Principe di Migliano e il Duca di Gesso.

Tale armistizio, diceva il Principe, aveva per obbietto d'arrivare alla Conclusione d'una pace solida o duratura.

Le condizioni che aveano autorizzazione di proporre, erano la reddizione di Capua e la traccia di una linea militare da ciascun lato della quale le due armate napolitana e francese aspetterebbero le decisioni dei rispettivi governi.

Nella situazione in cui Championnet trovavasi, simili condizioni erano non solo accettabili, ma tanto più vantaggiose in quanto che non erano sperate.

Diciamo, secondo Bartolomeo Nolli, testimonio ocu­lare che ha scritto le memorie per servire alle ultime rivoluzioni di Napoli: quali motivi condussero il Principe Pignatelli alle inattese condizioni.

Dicemmo che l'esercito francese erasi presentato due volte dinanzi Capua e due volte era stato respinto. I due capi che eransi maggiormente distinti in cotesti vantaggi riportati su noi, erano l'uno il Principe di Moliterno, che abbiamo detto, avea combattuto nel 1794 contro di noi, e avea perduto un occhio in uno dei combattimenti che ci avea dati, l'altro era il Duca di Roccaromana, il più bell'uomo del Regno, fino a quel momento, celebre soltanto per le sue avventure galanti, frivolo ed ignorante, ma prode ed ambizioso. Avea alienato tutti i suoi beni per formare due reggimenti di cavalleria che non potette completare, quantunque la regina che si interessava da lui, in un modo tutto particolare, dice l'autore dal quale rileviamo questi dettagli, l'avesse aiutato con la sua borsa privata.

Ma il partito repubblicano di Napoli, messo, dopo la partenza del Re, in comunicazione con gli esiliati Napolitani che accompagnavano l'armata francese, risolvettero di tentare qualche cosa da parte sua, per liberare il proprio paese e facilitare l'entrata di Napoli a quelli che venivano in loro soccorso. Delle proposte furono fatte a Moliterno e Roccaromana, gli si promisero alte situazioni nel nuovo governo, facendo loro considerare le sciagure che potrebbero risultare dalla loro ostinazione a difendere Capua, e sia patriottismo, sia ambizione, s'indussero a pattuire coi repubblicani.

Mack e Pignatellí erano dunque i soli che oramai s'opponevano ai disegni dei congiurati.

Un abboccamento, dice ancora Bartolomeo Nolli, ebbe luogo allora fra Moliterno ed uno dei capi del partito giacobino di Napoli che l'autore non nomina per non nuocergli, ed in questo abboccamento che s'effettuò nella notte del 10 dicembre si convenne, che si assassinerebbe Mack nel mezzo di Capua, che Moliterno prenderebbe immediatamente il comando dell'esercito, manderebbe sotto le mura del Palazzo reale dì Napoli, Gabriele Manthonnet [*1]  ufficiale di artiglieria, ch'egli cercherebbe un congiurato già designato, che assicuratosi della morte di Mack, si recherebbe al Palazzo e col pretesto di visita amichevole, penetrerebbe fino a Pignatelli e lo assassinerebbe, come erasi assassinato Mack. In seguito dovrebbesi impadronire del Castello Nuovo sul cui comandante poteasi contare. Si prenderebbero tutte le misure necessarie ad un cambiamento di governo, e si farebbe coi francesi, oramai divenuti fratelli, la pace più vantaggiosa che sarebbe possibile.

Il 10 dicembre alla notte, il congiurato napolitano con un pugnale sotto i suoi abiti aspettò, come era convenuto, Gabriele Manthonnet, sotto le mura del Palazzo; verso dieci ore un uomo l'avvicinò, era colui che aspettava, ma il messo non apportava la notizia promessa.

Moliterno sospettato di tradimento da Mack, venne arrestato e messo in prigione. I patriotti di Capua a questo arresto aveano sollevato il popolo in favore di Moliterno, Moliterno era stato rilasciato, ma inviato a Santa Maria dal Generale Mack.

Era evidente che la cospirazione veniva sventata e che riusciva inutile sbarazzarsi di Pignatelli, una volta che non erasi potuto sbarazzarsi di Mack.

Ma Pignatelli avvertito, senza dubbio, da Mack, del complotto del quale tutti e due per poco non erano stati vittime, ebbe paura, e mandò il Principe di Migliano e il Duca del Gesso, per conchiudere un armistizio coi Francesi.

Ecco perchè, nel momento che meno se lo aspettava, Championnet avea visto aprirsi le porte di Capua e avanzarsi verso di lui i messi del Vicario Generale.

Ma Championnet, sia per dissimulare la propria situazione, sia che sperasse ottenere di più, rispose che non potea accettare alcuna condizione che non avesse per risultato la sommissione delle provincie e la reddizione di Napoli.

Laonde, i plenipotenziari si ritirarono, ma il domani ritornarono a fare le stesse proposizioni; come la vigilia furono rimandati.

In fine due giorni dopo, nel momento in cui la situazione dell'esercito repubblicano circondato d'ogni parte, diveniva più che mai disperata, il Principe di Migliano e il Duca di Gesso ritornarono per la terza volta e dichiararono essere autorizzati ad accedere, a qualsiasi condizione purchè non fosse la reddizione di Napoli.

Questo nuovo procedimento dei capi Napolitani nella situazione precaria in cui trovavansi, parve tanto strana a Championnet, da fargli credere che essa celasse un agguato. In conseguenza di che intese il parere dei suoi Generali riuniti in Consiglio di Guerra; l'unanimità dei voli fu per l'armistizio che venne firmato.

‑ Questo stabiliva tregua per due mesi.

‑ Cessione il domani della fortezza di Capua.

Contribuzioni di due milioni e mezzo di ducati per covrire le spese di guerra alla quale l'aggressione del Re di Napoli forzava la Francia.

La somma era pagabile in due volte, metà il 15 Gennaio, metà il 25 dello stesso mese.

Una linea era tracciata, nei limiti della quale fino a quando l'armistizio sarebbe osservato si terrebbero i due eserciti.

Questa tregua fu oggetto di meraviglia per tutti, e benanco pei Francesi, dappoichè i Francesi ignoravano come tutti gli altri la causa che l'aveva fatto conchiudere.

Firmato il 10, nel villaggio di Sparanisi, dal quale prese il nome, questo trattato cominciò ad avere effetto dal domani; l'11, la città di Capua fu rimessa ai Francesi.

Il 13 il Vicario Generale fece venire a Palazzo i rappresentanti della Città.

Questa chiamata avea per iscopo, d'invitarli a trovare i mezzi per ripartire sui grandi proprietari e i negozianti più ricchi di Napoli, la metà della contribuzione dei due milioni e mezzo di ducati, cioè, cinque milioni di franchi pagabili il 15, ma i deputati ricusarono d'incaricarsi di questa impopolare missione, dicendo ch'essi non entravano per nulla nell'impegno e lasciando colui che l'aveva intrapreso adempiere all'obbligo come potrebbe.

Nella giornata del 14, si vide ritornare a Napoli la spedizione di Livorno, comandata dal Generale Naselli;

cioè, sette mila uomini di truppe fresche, con le loro munizioni intatte, formando essi soli la metà dei francesi che minacciavano Napoli.

Poteansi prendere questi 7000 uomini situarli avanti Napoli, farli sostenere da 30,000 lazzaroni e rendere la città imprendibile.

Ma il Principe Pignatelli non sentivasi nè forte nè abbastanza popolare per prendere una simile risoluzione che rendeva urgente la rottura dell'armistizio. Dappoichè se i cinque milioni non trovavansi pagati il domani, 15, l'armistizio era rotto di dritto.

D'altra parte i patriotti desideravano la rottura di quest'armistizio, rottura che permetteva ai Francesi loro fratelli d'opinione, di marciare su Napoli.

Non si prese, adunque, nessuna misura relativa ai sette mila uomini che arrivavano nel porto. Laonde il popolo ciò vedendo, salì su tutte le barche che trovò dal ponte della Maddalena fino a Mergellina e vogò verso le feluche, s'impadronì dei cannoni, dei fucili e delle munizioni dei soldati i quali si lasciavano disarmare.

I soldati furono messi a terra con permesso di ritirarsi ove volevano.

Settemila lazzaroni rattrovavansi così armati, e vedendosi armati cominciarono a gridare: Viva il Re, Viva la religione, morte ai Francesi!

A questa vista, gli ufficiali di artiglieria comandanti il Castello Nuovo compresero che indubitatamente bisognerebbe venire alle mani col popolo: e mandarono il Capitano Simeoni dal Vicario Generale, per dimandargli cosa dovevano fare ove mai fossero attaccati.

‑ Difendete il Castello, rispose il Vicario Generale, ma non fate male al popolo.

Gli ufficiali non compresero bene questa risposta che parea loro mancare di chiarezza. Ed in fatti era difficile difendere il castello contro il popolo, senza far male al popolo, e perciò fecero domandare istruzioni più precise.

Il Capitano Simeoni ricevette questa risposta.

‑ Fate fuoco, ma a polvere; una tale dimostrazione basterà a spaventare il popolo.

Simeoni si ritirò alzando le spalle, ma sulla piazza del Palazzo fu raggiunto dal Duca del Gesso, che gli ordinò da parte dei Principe di Pignatelli, di non far fuoco per nulla.

Di ritorno al Castello, Simeoni raccontò ai suoi compagni il risultato dei due abboccamenti avuti col Vicario Generale, ma nel momento stesso che facea questo racconto, una turba immensa si avventò sul Castello, sfondò la prima porta, ed occupò il ponte di fabbrica. Dalla cortina l'ispettore Minichini parlamentò con la folla domandandole cosa voleva.

‑ La Bandiera reale, la Bandiera reale gridarono tutti ad una voce.

La bandiera reale fu inalberata.

Allora, la folla domandò con forti grida armi e munizioni.

Le si rispose di andare a chiedere un ordine in iscritto al Principe Pignatelli, attesocchè il comandante del castello era responsabile di quanto esso racchiudeva.

Nel mentre che parlamentavasi, i Cacciatori del Reggimento Sannita, che aveano la guardia del Castello, aprirono le porte e la folla s'inoltrò nell'interno e cacciò gli ufficiali.

Lo stesso giorno, alla stessa ora, i lazzaroni s'impadronirono degli altri tre Castelli, S. Elmo, dell'Uovo, e del Carmine.

Forse per movimento istantaneo del popolo, forse per impulso dato dal Vicario Generale che scorgeva nella dittatura popolare un doppio mezzo per neutralizzare le mene dei patriotti e seguire le istruzioni della regina, la cosa rimase un mistero; ma per quanto i mezzi restassero nascosti, pur nondimeno i fatti si videro compiuti.

Il domani, 15 gennaio, verso le due dopo mezzogiorno, cinque vetture cariche di Uffiziali francesi, fra i quali rattrovavasi, l'Ordinatore Generale Arcambal, entrarono in Napoli, per ricevervi i cinque milioni convenuti, e andare contemporaneamente allo spettacolo.

Gli ufficiali discesero all'Albergo Reale.

Immediatamente la voce si sparse che dessi venivano a prendere possesso della città, che il Re era tradito, e che bisognava vendicare il Re.

Chi aveva interesse a propagare queste voci, era sicurissimamente colui che essendosi impegnato a pagare i cinque milioni non aveva questi cinque milioni all'ora del pagamento.

Verso le sette di sera, tutto il popolo in armi si condusse all'Albergo Reale, per scannare i Francesi; essi non vi erano. Arcambal rattrovavasi al Palazzo presso Pignatelli. Gli ufficiali erano a S. Carlo.

Tutto questo popolo fanatizzato, si avventò sopra S. Carlo. Le guardie vennero uccise, e i lazzaroni si precipitarono nella sala e inondarono la platea ed i palchi, gridando: morte ai Francesi.

Dei patriotti che erano con essi ebbero appena il tempo di far loro prendere il corridoio ignorato dal popolo, e riserbato soltanto al Re e al suo seguito che comunica da S. Carlo col Palazzo Reale. Dessi trovarono Arcambal dal Principe, lo riunirono a loro e senza aver riscosso un soldo dei cinque milioni, avendo soltanto corso pericolo imminente di essere trucidati, ripresero il cammino di Capua, accompagnati da un forte picchetto di cavalleria.

Al rumore e alla vista di quella plebaglia che invadeva la sala, gli attori avevano calato il telone e interrotto lo spettacolo ; in quanto agli spettatori, essi pensavano solo a mettersi in salvo.

Coloro che conoscono l'agilità delle mani napoletane possonsi formare un'idea del saccheggio al quale diede luogo quel tumulto. Varie persone furono SOffocate alle porte di uscita, altre calpestate lungo le scale.

Il saccheggio fu continuato nella via.

Col pretesto di assicurarsi che non vi si nascondessero dei Francesi, si aprivano tutte le vetture, e si svaligiavano coloro che in esse rinchiudevansi.

I membri del municipio che avevano perduto ogni potere sul popolo, i patriotti, i personaggi infine di un rango più elevato, che tutti quei miserabili, correndo le vie, spogliavano e assassinavano, si condussero tutti presso il Cardinale Arcivescovo di Napoli, Capece Zurlo, che godeva l'opinione generale, onde impegnarlo, a mettere in opera i soccorsi della religione per far ritornare nell'ordine tutta quella bordaglia. Egli salì in carrozza scoperta e si recò in mezzo di essa , ma non arrivò mai a farsi intendere ; la sua parola era sempre coverta dal grido di: Viva la Santa Fede ‑ Viva S. Gennaro, morte ai Giacobini. Ventimila uomini s'affollavano intorno a lui armati di fucili, di sciabole, di spiedi, di spade, di bastoni, non insultandolo, anzi onorandolo, ma senza dargli retta.

Il popolo, padrone dei tre Castelli, era benanco padrone della intera città , allora cominciarono, sotto gli occhi stessi del prelato e senza che vi si avesse potuto opporre, gli omicidi organizzati. Fino allora poteansi chiamare quelli che succedevano degli assassinii accidentali, il grido ai giacobini era un segnale di morte, ora designavasi col nome di giacobino chiunque era vestito con eleganza ed avea i capelli tagliati alla «Tito» moda tutta francese e introdotta da Talma che avea portato i suoi capelli così tagliati nella parte di Tito di Berenice: da ciò il nome romano. Le mogli dei Lazzaroni li accompagnavano armate di coltelli e di rasoi, uccidendo dal canto loro, ma sopra tutto, operando su quelli che i mariti uccidevano, le mutilazioni più orribili ed oscene. In questo momento di crisi suprema, alcuni patriotti pensarono ad un centinaio de' loro amici arrestati e de­tenuti nelle fortezze come repubblicani. Si travestirono da popolani, si mischiarono ai Lazzaroni e gridarono che bisognava liberare i prigionieri, per accrescersi le forze di tanti bravi. La proposta fu accolta con acclamazioni. Si corse alle prigioni si liberarono i prigionieri, ma con essi sei mila Forzati, veterani dell'assassinio e del furto, i quali si sparsero per la città, e raddoppiarono il tu­multo e la confusione.

I Deputati del popolo, per cercare di rimediare a tanti mali, si riunirono nella vecchia Basilica di S. Lorenzo nella quale tante volte eransi discussi i dritti del popoli e quelli del potere regio.

Abbiamo detto che per la campagna del 1794 contro i Francesi, e per la sua difesa di Capua qualche giorno prima, il Principe di Moliterno erasi fatto essenzial­mente popolare. Abbiamo soggiunto che i patriotti gli avevano fatte delle proposte da lui accettate, e che la vigilanza sola di Mack avea fatto abortire il complotto; si ebbe l'idea di proporlo ai Lazzaroni come generale del popolo.

La proposta fu fatta e accolta con acclamazioni.

La sua entrata era stata preparata per aver luogo in mezzo all'entusiasmo: nel momento in cui il popolo gri­dava :

‑ Sì, Sì, Moliterno, Viva Moliterno ‑ il Principe comparve a cavallo.

Alla sua vista, le grida moltiplicaronsi; il popolo lo circondava come avea il mattino circondato il Cardinale, chiamando Moliterno, suo scudo, suo difensore, suo padre.

Moliterno entrò nella Chiesa di S. Lorenzo: ciò che eravi di più urgente era di disarmare il popolo, e disarmandolo arrestare i massacri. Per conseguenza digià proclamato dal popolo, egli fu dal municipio proclamato Capo supremo del popolo e investito di poteri illimitati, col dritto di scegliere un Luogotenente.

Nel tempo stesso, si spedì al Vicario Generale Pignatelli una deputazione incaricata di esporgli che la città non voleva obbedire ad altro capo che a quello che erasi scelto, e che questo Capo che essa avea eletto era Don Girolamo Principe di Moliterno.

Egli era dunque invitato a riconoscere i nuovi poteri creati dal municipio e accettati o meglio proclamati dal popolo.

La deputazione si presentò a Palazzo.

Questa volta i deputati non venivano più da supplicanti ma da padroni.

Fu il Principe di Piedimonte che parlò il primo.

« Signore, diss'egli al Vicario Generale senza dargli il titolo di principe e neanco quello di Eccellenza. Noi veniamo in nome della Città ad invitarvi a rinunziare ai poteri che avete dal re, a rendere il denaro dello Stato che è a vostra disposizione e a prescrivere con editto, che sarà l'ultimo reso da voi, ubbidienza intera al municipio e al Principe di Moliterno, nominato da esso Generale del popolo.

Il Vicario Generale senza ricusare positivamente, chiese 24 ore per riflettere e nella notte s'imbarcò col tesoro reale, sopra un bastimento facendo vela per la Sicilia.

Arrivato a Palermo fu arrestato e messo in prigione per ordine del Re.

Era il terzo gran funzionario pubblico che riceveva simile ricompensa pei suoi servigi.

Il primo era il ministro della Guerra Ariola, il quale essendosi sempre opposto a quella fatale campagna di Roma, era stato accusato dal Re di aver fomentato il tradimento per non farla riuscire.

Il secondo era quel General Michaux o Micheroux, rifuggiato di Tolone, di cui parla Nelson nelle sue lettere e che con tanta diligenza era fuggito dinanzi ai Francesi.

In fine il terzo era il Vicario Generale Principe di Pignatelli.

Il nuovo capo del popolo dopo aver impegnata la sua parola ai patriotti, e promesso di caminare in ogni punto di accordo con essi, uscì dalla Chiesa di S. Lorenzo, montò di nuovo a cavallo, e con la sciabola sguainata alla mano dopo aver risposto col grido di Viva il popolo al grido di Viva Moliterno, cominciò dal nominare per per suo secondo D. Lucio Caracciolo Duca di Roccaromana, il cui nome quasi popolare quanto il suo, sempre a causa della sua difesa contro i francesi, fu salutato da immense acclamazioni. Poscia ci fece un'arringa per invitare il popolo a depositare le armi in un convento vicino destinato a servir da quartiere e ordinò sotto pena di morte di obbedire a tutte le misure ch'egli credeva necessarie per ristabilire la pubblica tranquillità.

Nel tempo stesso, onde appoggiare materialmente le sue parole fece drizzare le forche su tutte le strade, e per tutta la città distribuì delle pattuglie scelte fra i cittadini più onesti, incaricate di arrestare e d'impiccare i ladri o gli assassini colti in flagrante delitto.

Questa ordinanza non era del resto che l'applicazione di un decreto emanato dal Municipio.

Era stato benanco convenuto che si sostituirebbe la bandiera dei popolo, gialla, rossa e bleu alla bandiera reale.

Moliterno prese per pretesto che volendo difendersi ad oltranza contro i Francesi, era d'uopo mostrar loro una bandiera diversa da quella che era fuggita dinanzi ad essi.

Il popolo, orgoglioso di avere la sua bandiera, accettò.

Era il segnale che dovea esser dato ai patrioti napoletani che trovavansi nelle fila francesi, che si era padrone dei Castelli.

Si nominarono a questi castelli quattro comandanti che ne presero possesso la sera istessa.

Era in questo modo che a poco a poco detronizzava il popolaccio.

Allorquando il mattino, si conobbe la fuga del Principe e le nuove sciagure, che in seguito di questa fuga, minacciavano Napoli, la collera del popolo si rivolse contro Mack. Una banda di tre o quattro mila Lazzaroni si mise a rintracciarlo, e si diresse verso Casoria, ove credeva di trovarlo; le ricerche furono vane: il Generale Mack erasi rifuggiato in una piccola casa di Caivano : là seppe che i Lazzaroni erano in cerca di lui, e avevano ferito sulla strada di Caserta il Duca di Salandra che scambiarono per lui ‑ Mandò un uffiziale per dimandare asilo al Generale Championnet, ma senza attendere che l'uffiziale gli arrecasse la risposta, egli vestì un uniforme Tedesco, parti da Caivano allo spuntar del giorno e giunse al campo repubblicano quasi contemporaneamente al suo inviato il Conte di Dietrischtein.

Scorgendo il Generale Mack sulla soglia della sua tenda e esitando ad entrare, Championnet si alzò e andò verso di lui.

Allora Mack tutto smarrito sguainò la spada e la presentò al generale.

‑ Ritenete la vostra spada, Generale, gli disse Championnet con disinvoltura ‑ il mio governo mi ha proibito ricevere dei regali di fabbrica inglese.

Poscia gli diede un passaporto per Milano, mettendolo a disposizione del Direttorio.

Il Direttorio lo fece arrestare e lo cambiò più tardi col Generale Alessandro Dumas mio padre, prigioniero egli ancora a Brindisi.

Finiamo presto con questa incapacità sconosciuta, chiamato il Generale Mack.

Malgrado i falli da lui commessi nel 1793, nei Paesi Bassi, e nel 1799 a Napoli, ottenne il Comando dell'esercito di Baviera nel 1804. Allo avvicinarsi di Napoleone nel 1805 si rinchiuse dentro Ulma e dopo due mesi di blocco, firmò la Capitolazione la più vergognosa che mai potessero menzionare gli annali della Guerra. Egli si arrese con 35,000 uomini.

Per questa volta gli si fece un processo e fu condannato a morte. La sua pena venne commutata in una detenzione perpetua allo Spielberg, d'onde uscì in grazia, dopo due anni.

I Lazzaroni furiosi di vedersi sfuggire il Generale Mack da essi considerato come la causa di tutti i mali di Napoli, marciarono sugli avamposti francesi, situati al Ponte Rotto ; battettero le guardie avanzate e benanco la Gran guardia, ma il Capo Brigata Poitou che al primo colpo di fucile fece prendere le armi ai suoi uomini, caricò tutta quella moltitudine nel momento in cui essa traversava la linea di demarcazione, tracciata fra le due armate, ne uccise una parte, mise il resto in fuga, ma senza inseguirla, si arrestò nei limiti.

Due avvenimenti avevano rotta la tregua.

La mancanza di pagamento dei cinque milioni stipulati nel trattato, e l'aggressione dei lazzaroni.

I ventiquattro deputati della Città compresero a qual pericolo erano esposti. I francesi dopo i due insulti che gli erano stati fatti non potevano mancare di marciare su Napoli.

Essi adunque partirono per Caserta avendo alla testa il Principe di Moliterno.

Dapprima comparendo dinanzi al generale tutti parlarono insieme, gli uni pregandolo, gli altri minacciandolo, gli uni domandando umilmente la pace, gli altri sfidandolo con insolenza alla guerra.

Finalmente il Principe di Moliterno prese la parola.

« Generale, egli disse, dopo la fuga del re e del Vicario Generale, il governo del Regno è nelle mani del Senato della Città, cosicchè noi facciamo un atto legittimo e durevole trattando con voi ».

Presentando allora una lettera al Generale Championnet : « Ecco una lettera, continuò, che racchiude i poteri dei deputati qui presenti. Intanto voi che, vincitore di numerosa armata, venite al passo di corsa dai piani di Fermo fino alle rive dei Lagni, voi crederete che le dieci miglia che vi separano da Napoli non sieno che un breve spazio; ma lo direte lunghissimo, invarcabile forse, se penserete che avete intorno a voi popoli armati e coraggiosi, che sessantamila cittadini con armi, castelli, navi da guerra, animati dalla religione, esaltati dall'indipendenza, difendono una Città di cinquecento mila abitanti, che le provincie sono insorte contro di voi, numerose ed irritate. Supponiamo anche che vi sarebbe possibile il vincere, vi sarà impossibile mantenere la vostra conquista. Cosicchè tutto vi consiglia far la pace con noi. Noi vi offriamo i due milioni e mezzo di Ducati pattuiti nell'armistizio, e tutto il denaro che dimanderete purchè non usciate dai limiti della moderazione: in oltre, vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno ; in fine strade libere e sicure. Voi avete riportato dei grandi successi guerreschi. Avete preso armi, bandiere, avete fatto molti prigionieri, avete debellate quattro fortezze, adesso noi vi offriamo del denaro e vi domandiamo la pace come ad un vincitore. Così avete in una volta la gloria e la fortuna. Pensate Generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito, e se accordandoci la pace voi consentirete a non entrare nella Città, il mondo applaudirà alla vostra magnanimità; se al contrario la resistenza degli abitanti ve ne chiude l'entrata, non vi resterà allora che la vergogna. »

Championnet avea ascoltato con meraviglia questo lungo discorso preparato anticipatamente e che parca più tosto scritto che parlato.

« Signore, diss'egli freddamente al Principe di Moliterno, credo che commettete un grave errore. Voi parlate a' vincitori come parlereste a' vinti; la tregua è rotta per due ragioni: la prima è che non avete pagato il 15 la somma convenuta, la seconda è che i vostri lazzaroni ci son venuti ad attaccare nelle nostre linee.

« Domani io marcerò contro Napoli ».

La discussione durò lungo tempo fra il Generale ed i deputati, ma senza nulla arrecare di definitivo.

Durante questo tempo uno di quei volta bordo, sì frequenti nelle guerre civili, operavasi in Napoli.

I Lazzaroni che avevano visto partire i deputati e con essi Moliterno pel campo francese, si credettero traditi, ed esaltati dal partito dei preti e dei monaci, che ricoprivano l'egoismo ecclesiastico del mantello reale, slanciaronsi verso il convento ove dessi avevano deposte le armi, se ne impadronirono di nuovo, fecero irruzione quando meno si aspettavano, nel Castello, ne ritolsero il comando ai nobili, vi misero guarnigione e Capi propri.

In quanto alle bandiere tricolori, quantunque si fosse abbassata la bandiera reale non erasi avuto il tempo d'inalberarle in vece di questa.

Le bandiere reali furono nuovamente rimesse ai luoghi da dove erano state tolte.

Il popolo s'impadronì in oltre di sette ad otto pezzi di cannone che trascinò nella strada, si nominò al posto del Principe di Moliterno e del Duca di Roccaromana, due capi tratti dai suoi ranghi, l'uno, mercante di farina chiamato Paggio, l'altro, facchino, chiamato Michele il Pazzo a causa delle sue sfrenatezze giovanili.

Allora ricominciarono i saccheggi e le esecuzioni; le forche drizzate da Moliterno per impiccare i ladri e gli assassini, servirono ad impiccare i giacobini, cioè tutti coloro, l'abbiamo detto, che i lazzaroni incontrarono con un abito decente e dei capelli tagliati rasi. Una spia dell'antico governo denunziò l'avvocato Fasulo, s'irruppe nella sua casa e l'avvocato e suo fratello ebbero appena il tempo di salvarsi pei tetti; si trovò presso di loro una scatola riempita di coccarde francesi, ed erasi per trucidare la giovane sorella di essi, allorchè questa si mise al coverto dietro un gran crocifisso. Il timore religioso arrestò gli assassini che si contentarono di saccheggiare la casa e di appiccarvi il fuoco.

Ad un tratto, fecesi nella città un tumulto che dominava tutti gli altri.

Si arrestò a Capodichino un corriere che portava al generale Mack un dispaccio del Direttore delle finanze; Zurlo [*2] . Qualunque cosa in simile momento apportava con esso il sospetto di tradimento.

Una banda di Lazzaroni si precipitò subito verso la casa di Zurlo, e lo condusse al Palazzo della città nella sua propria carrozza che si trovò messa in ordine. Colà, siccome il Municipio non era ancora radunato, e che fra la folla di quelli che avevano recato Zurlo, nessuno sapeva leggere, si fece aprir la lettera dal Curato di S. Angelo a Segno, ch'erasi andato espressamente a cercare.

Il dispaccio diceva a Mack che gli darebbero notizie della sommossa popolare allorquando avrebbe prodotto un risultato.

Poi soggiungeva:

Relativamente al Generale Championnet, egli è prevenuto che è questo stesso sollevamento popolare del quale mi chiedete notizie, che à impedito di pagarglisi que' cinque milioni.

Ma non appena il nome di Championnet fu pronunziato, il popolo, pel quale questo nome equivaleva a quello dell'Anticristo, voleva trucidare Zurlo. Per fortuna trovavasi colà, al palazzo di città il Duca di S. Valentino che era in gran credito presso il popolaccio. Egli ottenne dai Lazzaroni che Zurlo sarebbe condotto e imprigionato al Castello del Carmine, mentre che il Municipio si riunirebbe e deciderebbe sulla sorte di lui. Un gruppo d'uomini s'impadronì allora di Zurlo, e lo trascinò al Castello del Carmine percotendolo con colpi di bastone, sputandogli in viso, facendogli in fine ogni sorta d'insulti.

Degli altri meglio avvisati corsero alla di lui casa per saccheggiarla.

Vi si trovarono mille novecento ducati in argento contante, 300 suoi e 1600 depositati da particolari.

Ma almeno aveva salva la vita.

 

 

Il domani, un avvenimento ancora più terribile successe.

Erano a Napoli due gentiluomini, due fratelli che vivevano stimati da tutti.

Erano il Duca della Torre e D. Clemente Filomarino.

L'uno era un distinto matematico, l'altro un poeta sul genere di Sanazzaro.

Verso mezzogiorno, il Duca faceasi pettinare dal suo cameriere ; ricevette una lettera dal suo parente il principe Rospigliosi da Roma: questi raccomandavagli Championnet come un uomo distintissimo, dicendogli che non potrebbe abbastanza bene riceverlo.

Pettinando il Duca, il cameriere lesse la lettera per di sopra la spalla.

Il Duca pettinato che fu, si alzò e rinchiuse la lettera in un forziere.

Il Cameriere discese, si recò al posto vicino e raccontò al popolo quanto era accaduto, denunciandogli il Duca della Torre come giacobino, e indicandogli dove potrebbe rinvenir la lettera.

Il popolo irruppe nel Palazzo del Duca, richiese la lettera e poichè questi non voleva darla, scassinò il forziere, trovò la lettera, menò il Duca e il fratello di lui sulla strada nuova della Marina, formò un rogo di ogni sorta di materia combustibile, vi legò le sue due vittime, e le bruciò a fuoco lento fra le grida di Viva il re, Viva la santa religione, muoiano i giacobini.

Il supplizio durò tre ore!

In questo frattempo metteasi a sacco ed a fuoco il palazzo del Duca della Torre, si sparpagliò la biblioteca composta di libri rari, e manoscritti unici, fecersi a pezzi macchine preziose e un Gabinetto di Storia naturale che il Duca della Torre avea impiegato trent'anni a formare!

Ferrari avea aperta la via sanguinosa, il popolo entrato una volta in questa via dovea portare l'omicidio, e l'assassinio fino allo spavento.

‑ Non è abbastanza che muoiano, diceva Domiziano, bisogna sentirli morire !

Il popolo di Napoli fu sotto questo rapporto, il degno allievo del tiranno Romano.

Intanto Championnet manteneva la parola data al

Principe di Moliterno e marciava su Napoli. Alla notizia che le guardie avanzate erano a vista della città, i lazzaroni urlarono di rabbia: essi chiamarono nei loro ranghi, misero alla loro testa, quei medesimi soldati e quegli stessi ufficiali del General Naselli dei quali avevano preso le armi e le cartuccie, e cominciarono a trascinare dei cannoni a Poggio Reale, a Capodichino, a Capodimonte, e al ponte della Maddalena, vale a dire su tutti i punti pei quali i francesi potevano entrare.

Frattanto gli assassini dell'interno seguivano il loro stile: correa voce che i Clubi erano riuniti per favorire l'entrata ai francesi ; sfondaronsi le porte a più d'una casa col pretesto di rintracciare e disperdere tali riunioni, si saccheggiava, si derubava, si bruciava: poi se scorgevasi da lungi o da vicino un nemico lo si additava gridando, al giacobino! ‑ e il giacobino vero o falso era messo a morte.

In tutto ciò il peggio si era che la plebaglia come abbiamo detto, erasi impossessato dei quattro Castelli che dominavano la Città.

Intanto, Moliterno al suo ritorno da Caserta, era stato istruito, fortunatamente per lui, fuori della città, da quegli stessi che se ne fuggivano, di quanto accadeva nell'interno di Napoli.

Egli spedì allora due corrieri latori ciascuno di un biglietto del quale avean preso conoscenza, e che dovevano distruggere se erano arrestati, sia lacerandolo, sia ingoiandolo. La commissione veniva, ciò nonostante, eseguita avvegnachè i messi conoscevano il contenuto dei biglietti strutti.

Uno di questi biglietti era pel Duca di Roccaromana, ed indicandogli il luogo dove era nascosto Moliterno, diccagli venirlo a riprendere con una ventina de' suoi amici, caduta la notte.

L'altro era pel cardinale arcivescovo; gl'ingiungeva pena la morte, di mettere in movimento alle dieci di sera tutte le campane della città, di raccogliere col suo capitolo, tutto il clero della Cattedrale, e di esporre il sangue e la testa di S. Gennaro.

Il resto lo riguardava.

Due ore dopo, i due messi erano giunti alla loro destinazione.

Verso le sette di sera, Roccaromana arrivò con suo fratello Nicolino Caracciolo, che oggi vive ancora, e dalla cui bocca l'autore di questo libro ricevè una parte di questi dettagli, e venticinque dei loro amici sui quali potevano contare.

Moliterno li rimandò nel medesimo istante a Napoli, ordinando loro di trovarsi a mezzanotte nella piazza del Convento della Trinità, ove impegnavasi di raggiungerli. Dovevano quivi ricevere il maggior numero possibile di loro camerati, ognuno armarsi il meglio che gli era pos­sibile.

La parola d'ordine era: Patria e Libertà.

Non dovevano curarsi di nulla, qualunque fosse l'avvenimento che accadeva, Moliterno rispondeva di tutto.

Solamente egli ritenne presso di sè Roccaromana in assenza di ambi loro, e i Patriotti convocati dovevano obbedire a Nicolino Caracciolo.

Alle dieci della sera, fedele all'ordine ricevuto, il Cardinale Arcivescovo fece suonare contemporaneamente tutte le campane della città.

A questo rumore inatteso sopra tutto a simile ora, i lazzaroni arrestaronsi nell'opera di distruzione, gli uni credendo a un segnale di gioia dicevano che i francesi avevano preso la fuga, gli altri al contrario credendo ad un appello alle armi, credevano che i francesi erano padroni d'una porta della Città.

In ogni caso, gli uni e gli altri correvano alla Cattedrale.

Vi trovarono il Cardinale vestito dei suoi abiti pontificali in mezzo del suo clero, nella Chiesa, illuminata da un migliaio di ceri, con la testa ed il sangue di S. Gennaro esposte sull'altare.

Si sa la divozione che il popolo napolitano ha per queste sante reliquie ; alla loro vista i più furiosi ed i più accaniti cominciarono a montare in collera; caddero in ginocchio nella chiesa quelli che avevano potuto entrare, e nella strada quelli che, a causa dell'innumerevole folla, erano stati obbligati a restare di fuori : si misero a pregare.

La processione col Cardinale Arcivescovo in testa, si apparecchiò ad uscire ed a percorrere la città.

In questo momento, ai due lati del prelato comparvero, rappresentanti del dolore popolare, Moliterno e Roccaromana, vestiti a lutto, co' piedi nudi, le lagrime agli occhi. Il popolo vedendo tutto ad un tratto in costume di penitenti due dei più grandi signori di Napoli, non pensò più alla accusa di tradimento; ma fanciullo sempre, illuso alle apparenze, si lasciò commuovere alla vista di questa umiltà e non pensò più che a seguire le sante reliquie portate dall'Arcivescovo. La processione fece un gran giro per la città, e ritornò alla Chiesa, ove Moliterno montò in pergamo e fece al popolo un discorso nel quale gli disse che S. Gennaro, protettore celeste della città, non permetterebbe che essa cadesse nelle mani dei francesi. Poscia invitò tutti a rientrare nelle proprie case, e riposarsi di tante fatiche col sonno, dando appuntamento, colle armi alla mano alla punta del giorno a tutti coloro che volevano combattere.

Poi, l'Arcivescovo impartì la benedizione al popolo che si ritirò ripetendo le parole del celebre predicatore: ‑ Non abbiamo che due mani come i francesi, ma S. Gennaro è per noi.

La chiesa sgombrata, le strade ritornate solitarie, Moliterno e Roccaromana ripresero le loro armi, e si recarono alla piazza della Trinità ove doveva attenderli Nicolino Caracciolo con quelli fra i loro compagni che sarebbonsi riuniti a lui.

Nicolino Caracciolo era uno dei quattro gentiluomini che era stato nominato dalla città Governatore dei Castelli di Napoli e che non avevano avuto il tempo di prender possesso del loro comando: i patriottiche avevano riuniti erano Simeone, che abbiamo visto andare a chiedere degli ordini al Vice Re, e a cui il Vice Re rispose di tirare sul popolo senza fargli male, il capitano di artiglieria Antonio Sicardi, Nicola Verdinois, Guglielmo Granalès, il nome degli altri non è conservato dall'istoria.

La piccola truppa componevasi presso o poco di cento cinquanta uomini. Essa doveva, coll'aiuto della parola d'ordine che erasi procurata, entrare nella piazza.

Ma arrivata alla porta del Castello S. Elmo, colui che volea far prendere i suoi compagni per una ronda di notte, si avvicinò alla sentinella e si abboccò con essa, ma in luogo di darle una parola d'ordine, che era Partenope, disse Napoli.

La sentinella riconobbe l'astuzia; diede l'allarme. La piccola truppa fu respinta da una fucilata e tre colpi di cannone che fortunatamente non le fecero alcun male, e bisognò trovare un altro mezzo per entrare nella piazza, che era tenuta da tre o quattro cento lazzaroni e da uno dei loro capi molto noto per la sua crudeltà chiamato Brandi.

Ecco a che si convenne : l'audacia stessa del progetto doveva farli riuscire.

Nella stessa mattina, cioè, in quella di sabato 19 Gennaio, Nicolino Caracciolo, munito del suo brevetto firmato dal capo del Municipio, accompagnato dal Capitano Comandante Simeoni, dal Capitano Verdinois e da cinque o sei patriotti solamente, gruppo che non potea ispirar diffidenza, si avanzò di pieno giorno verso il Castello S. Elmo, per prenderne il Comando e dirigerne la difesa. Fu giuocoforza riceverlo con gli onori dovuti ai capi. D'altronde siccome erano sette o otto soltanto così il loro numero non sembrò terribile ai 250 lazzaroni che lo guardavano. Il Capitano Simeone a cui Nicolino Caracciolo diede immediatamente la direzione dell'artiglieria chiamò il magazziniere che venne scusandosi di non aver le chiavi le quali erano nelle mani di Brandi. Simeoni gridò contro questo ordine, e ordinò che Brandi rendesse le chiavi. Brandi obbedì dicendo : Cosa vogliono da noi, questi damerini? non mi piacciono per nulla e non ci metto nulla a far loro tagliare la testa! Ma la fermezza espressa sul viso di Caracciolo, quella superiorità che esercitano, sempre a Napoli, principalmente i gran signori sull'uomo del popolo, le parole di fratellanza che caddero dalla bocca dei nuovi venuti, la speranza di fare, in grazia dei loro talenti, una buona difesa, fecero sì che le minacce di Brandi non avessero alcun seguito.

Prima dell'entrata di Nicolino Caracciolo, e dei suoi cinque o sei compagni, un'altra astuzia era stata combinata : trenta o quaranta Patrioti, travestiti da popolani, vennero all'imbrunire della notte, come se fossero inseguiti da'giacobini, a domandare aiuto al Castello S. Elmo, parlavano il dialetto napoletano ed erano inermi, si chiese l'avviso di Nicolino, che rispose di non trovare sconveniente che si facessero entrare. Furono introdotti; erano una parte di quelli che Nicolino aspettava, e fra essi rattrovavasi, travestita da uomo Eleonora Fonseca Pimentel che era fuggita dalle prigioni della Vicaria ove trovavasi arrestata come sospetta.

Avremo ad occuparci più tardi, di questa bella, nobile e generosa donna.

Si trovarono così riuniti, al numero di una cinquantina di patrioti, uomini risoluti e pronti a rischiare tutto. Dall'altra parte, dei contadini mischiati ai lazzaroni e facendo parte della guarnigione del Castello, erano da due giorni senza soldo e sentendo dire a Simeoni che per la patria bisogna saper soffrire la fame la sete e la miseria, chiesero di uscire dal Castello, le cui porte furono loro aperte immediatamente.

Erano altrettanti nemici dei quali disfaceansi.

La sera Nicolino Caracciolo col pretesto di sicurezza, ordinò di fare due grandi ronde intorno al Castello S. Elmo; ognuna di queste ronde dovea essere di quaranta uomini. Brandi comandava l'una di esse. Non appena, le due ronde. furono fuori del Castello, 28 soldati di Naselli mischiati ai popolani vennero disarmati e chiusi; poscia, accanto ad ogni lazzarone in sentinella, fu situato un patriota coi pretesto che l'imminenza del pericolo esigeva doppia guardia.

Prese tali preacauzioni A richiamò Brandi colla scusa di dargli nuovi ordini. Brandi rientrò al Castello, fu preso disarmato, rinchiuso nel sotterraneo; si pensò un istante a processarlo ed impiccarlo, ma una voce surse che disse che essendo rientrato al Castello per ordine del suo superiore la vita di lui doveva esser sacra. Questa leale osservazione bastò per ricondurre tutti alla lealtà, e Brandi restò prigioniero; ma ebbe la vita salva.

Alle sei di sera Moliterno e Roccaromana furono introdotti alla lor volta, col resto dei congiurati, nel Castello.

I due Generali portavano con essi la cassa dei propri reggimenti, dimodochè potettero non solo pagare il soldo agli artiglieri; ma approviggionare il Castello, che d'allora appartenne senza contrasto ai patriotti.

La rabbia del popolo divenne grande allorchè seppe il castello S. Elmo non essere più suo, e principalmente quando vide che per annunziare questa nuova a Championnet, i patrioti napoletani inalberarono la bandiera tricolore della Repubblica Francese.

Vi furono grandi discussioni su questo oggetto. Moliterno e Roccaromana considerandosi sempre come i Capi del Popolo, non volevano inalberare altra bandiera che quella del popolo. Ma Simeoni che conosciamo digià e Logoteta che conosceremo fra breve, tutti e due bravi patrioti e molti altri cittadini insistettero, dicendo che poichè dall'alto del castello scorgevansi i fuochi dei bivacchi Francesi, doveasi dai bivacchi francesi vedere la bandiera che sventolava sopra S. Elmo, ch'era perciò importante che i francesi vedessero lo stendardo repubblicano sulla fortezza e riconoscessero che eranvi degli amici.

Fu allora che si confezionò una bandiera tricolore con un lembo di un'antica bandiera bianca, un cappotto bleu e un uniforme rosso.

Alle due dopo mezzo giorno il 21 gennaio 1799, giorno anniversario dell'esecuzione di Luigi XVI sulla piazza della rivoluzione, la bandiera francese era inalberata sul castello S. Elmo e assicurata con quattro colpi di cannone.

Da quell'ora, da quel giorno, data veramente l'era della repubblica partenopea.

A quella vista in effetti, Championnet, se gli restava qualche dubbio, lasciò almeno ogni esitazione e marciò su Napoli per attaccarla lo stesso giorno.

Gli è nello stesso Championnet che bisogna vedere i dettagli di questo assedio memorabile, degno di essere accoppiato a quello di Saragozza, e la giustizia resa a quell'eroica difesa che sventuratamente attaccavasi ad interessi antiliberali. Quindi è che particolarmente da Championnet impronteremo il racconto che segue.

 

 

 

 

 

 

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 [*1]         Scriviamo il nome come deve essere scritto e non Manthonè, attesochè il celebre Generale era Sabaudo e non Napolitano.

 [*2]          Da non confondersi col Cardinale Arcivescovo Capece Zurlo.