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Di
Alexandre Dumas
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CAPITOLO II.
Ad un tratto, come
dicemmo, la voce sì diffuse per Napoli che una rivoluzione era scoppiata in
Francia, e che i Parigini avevano presa la Bastiglia.
Fin dalla riunione degli
Stati Generali, la regina Maria Carolina seguiva con uno sguardo inquieto ciò
che accadeva in Francia.
La sua seconda sorella, di
tre anni più giovane di essa, aveva, come si sa, sposato nel 1770, il giovane
Duca di Berry Delfino di Francia.
Per coloro fra i nostri
lettori che non sieno perfettamente familiarizzati colla istoria della nostra
rivoluzione, noi daremo alcuni dettagli su Maria Antonietta e su Luigi XVI ‑
dettagli che non saranno inutili, dappoichè gli avvenimenti dei quali furono
vittime reagirono potentemente su quelli che abbiamo preso a narrare.
Maria Antonietta era
bella, ancora più bella di Maria Carolina ‑ di quella bellezza fiera e
sdegnosa delle principesse di Casa d'Austria. Aveva il temperamento dominante
di sua madre Maria Teresa, ed entrata una volta nelle vie della resistenza,
preferiva esser spezzata anzichè piegare.
Resistette e fu spezzata.
La sua entrata in Francia
fu accompagnata da ogni specie di sinistri presagi. Non senza un certo terrore
le principesse di Casa d'Austria, o alleate a Casa d'Austria, mettevano il
piede sul suolo di Francia. Caterina dei Medici eravi venuta per contribuire
potentemente alle stragi di S. Bartolomeo, e vide il suo marito Enrico Il
ucciso in un torneo. Maria dei Medici era sospetta di aver preso parte
all'assassinio di Enrico IV e morì proscritta nella casa del suo pittore Rubens
ad Anversa. Anna d'Austria passò la vita detestata dalla sua epoca, e in mira
alle violenze di Richelieu, ed era sfuggita allo sdegno del Re, e all'odio del
ministro, per lottare contro i parigini sotto la incerta protezione del signor
Mazzarino Mazzarini, chiamato dalla Regina Cristina di Svezia l'illustrissimo
facchino di Piscina, ‑ in modo che Maria Antonietta quantunque ricevuta
con grandi acclamazioni di gioia e come l'angelo della pace destinata a
sorvolare su' due regni, notava tutto ciò che succedeva, come un cattivo
presagio.
Essa notò dunque che la
prima camera ove si coricò entrando in Francia ‑ rappresentava la strage
degl'innocenti.
Notò che durante la prima
tappa che fece su questa terra che parea dichiararsi sua nemica, un uragano
scoppiò e il fulmine ruppe un albero sulla sua sinistra distante venti passi da
essa.
Notò che una sera mentre
era sola nella camera da letto, rischiarata da un candelabro a tre candele, le
tre candele si smorzarono una dopo l'altra, senza che il vento le spegnesse
senza che il lucignolo fosse completamente bruciato.
Notò finalmente che alle
feste dei suoi sponsali, la folla essendosi accalcata con troppa curiosità,
sulla piazza Luigi XV, cinque o sei cento persone caddero nel giardino scavato
su questa piazza, mentre che altri premuti contro i cancelli del Guardaroba vi
furono soffocati, cosicchè la sera della festa, sui fiori appassiti e
disseminati sulla via si raccolsero due o tre cento cadaveri.
Vociferavasi benanco, ma
ciò non era che una tradizione popolare che durante il suo viaggio attraverso
la Francia avendo chiesto ospitalità in un Castello, v'incontrò un ciarlatano
chiamato Cagliostro il quale aveale fatto questa singolare predizione sul suo
marito e i suoi due fratelli cioè che il Delfino morrebbe senza testa, che il
Conte di Provenza morrebbe senza gambe e che il conte di Artois morrebbe senza
corte dopo che tutti e tre avessero regnato.
In quanto a lei, pretendevasi,
che le avesse fatto vedere in una caraffa uno strumento di morte sconosciuto, e
tanto spaventevole, che essa, a quella vista, svenne.
Per lo spazio di quattro
anni la sua posizione presso del Re Luigi XV fu inferiore, la vera regina era
Madama Dubarry, e le Delfine erano le tre prime figlie di Luigi XV. Una delle
quali, a quanto assicurasi, fu amata da suo padre, nel modo istesso che Lot amò
le sue figlie.
Poi il sig. di Choiseul
che aveva combinato il matrimonio, che erale stato raccomandato da Maria Teresa
come un amico intimo, qualche mese dopo il matrimonio celebrato, ma non
consumato cadeva rovesciato dalla fazione Richelieu.
Noi abbiamo scritto e
sottolineato due parole che meritano una spiegazione.
Dicemmo che il matrimonio
erasi celebrato, ma non consumato.
In fatti Maria Antonietta
era la sposa e non la moglie di Luigi XVI.
Una lieve infermità di
Luigi XVI che un leggiero colpo di bistorì bastava a far scomparire, impedì,
dall'anno 1770 al 1777 al matrimonio di consumarsi.
Durante questo tempo la
giovane regina dal temperamento austriaco, sentì il bisogno di dare il proprio
cuore poichè il marito parea sprezzasse il suo corpo, non osando avere dei
favoriti essa ebbe delle favorite.
Queste favorite, come Emma
Lionna, hanno i loro nomi scritti nella storia, in un modo meno sanguinoso, è
vero, ma non meno scandaloso.
Queste favorite furono
particolarmente la Principessa di Lamballe per la quale la regina creò la
carica di Dama del letto, e Madama di Polignac che andò a trovare lungi sei
leghe da Versailles e dalla quale prese la rosolia, un giorno che la Duchessa
era inferma di questa malattia, e che essa entrò nella camera malgrado le
istanze del medico per impedirnela.
Tutti conoscono il
terribile affare della collana, la regina fu sotto il peso di due accuse: o
essa aveva acconsentito ad essere l'amante del Cardinal di Rohan affinchè
questi le donasse una collana di brillanti valutata 1600.000 fr. o essa aveva
comprato la collana dai gioiellieri, Bosange e Boechemer con la certezza di non
pagarla mai.
La Contessa della Motte
era stata condannata, ma la regina era stata diffamata.
Ne risultò che a poco a
poco, la regina che dai Francesi era stata ricevuta come un angelo di speranza,
metà per imprudenza metà per calunnia perdette tutta la sua popolarità. E dopo
che fu chiamata la Delfina ‑ si chiamò l'Austriaca. Poi Madama Deficit ‑
per un deficit attribuito alle sue stravaganti spese, e più tardi in fine, la
si chiamò Madama Veto per l'opposizione che credeasi da essa ispirata al re.
Questo deficit che il sig.
di Calonne annunziò pel primo, ammontava alla fine del 1776 a ventisette
milioni, cioè a una miseria, dopo otto o nove anni ammontava a mille e ducento
milioni, cioè ad una somma spaventosa paragonata alle risorse della Francia.
In effetti la Francia
esausta per le prodigalità di Luigi XIV intorno a Versailles, e per quelle di
Luigi XV, a proposito del Parco dei cervi, affannava agonizzante sotto il peso
dell'imposte.
E' in Michelet, il nostro
grande scrittore patrio, che bisogna sentire le grida affannose messe da lei.
Il coro lugubre, che per
lo spazio di 110 anni la Francia sentirà ripercotersi alle sue orecchie
cominciò nel 1681.
Non si può andare più
innanzi dice Colbert, e siccome ciò malgrado egli deve andare innanzi, sospinto
com'è da Luigi XIV così muore spossato.
Nel 1698, si fa una
memoria pel Duca di Borgogna, in questa memoria è detto che tale paese ha
perduto un quarto dei suoi abitanti, tal'altro il terzo, tal'altro la metà, si
soggiunge che la popolazione non si sostituisce, e che il contadino non mangia
tanto da soddisfare la sua fame ed è tanto miserabile che i suoi figli sono
tutti deboli, infermicci e non possono vivere.
Il Magistrato normanno,
Boisguilbert, esclama parlando del 1698. Allora eravi ancora dell'olio nella
lampada, oggi tutto è finito per mancanza di materia. Il processo si aggira
oggi fra quelli che pagano e quelli che non fanno altro che ricevere.
Nel 1710 l'Arcivescovo di
Cambray dice: I popoli non vivono più da uomini, non è più permesso di contare
sulla loro pazienza, la vecchia macchina finirà di rompersi al primo urto,
tutto si riduce a chiudere gli occhi e ad aprire la mano per prendere sempre.
Luigi XIV muore, il
Reggente gli succede, s'informa degli affari, e indietreggia spaventato.
Se fossi suddito, dice,
senza dubbio mi rivolterei.
E come gli si annunzia una
sommossa.
In fede mia il popolo ha
ragione, disse, ed è troppo buono a soffrir tutto.
Nel 1739, si presentò a
Luigi XV il pane che mangia il popolo, è un pane di felce nel quale il grano
non entra neanco per un sesto.
« Nella mia diocesi scrive
l'Arcivescovo di Chartres gli uomini pascolano coi montoni.
Nel 1742 la Duchessa di
Chateau Roux, alla quale il Re ha dato un Ducato di 300,000 lire di rendita,
scrive alla sua volta.
« Io veggo che ci sarà un
grande sconvolgimento, se non vi si apporti rimedio.
In effetti, alcuni anni
dopo, in un anno di carestia, quale? la storia non lo dice, ne avvengono tante,
che non si contano più, Luigi XV, cacceggiando secondo il suo solito nella
foresta di Senart, incontra un contadino che portava una bara.
‑ Per chi serve
questa bara, domandò il Re.
‑ Per un uomo morto
di fame ‑ rispose il contadino.
Il re restò un momento
pensieroso, e raggiunse la caccia, mettendo il suo cavallo al galoppo.
La Francia non era in
istato migliore di quell'uomo morto. La Francia era in agonia.
E in fatti il contadino
non ha più nulla che si possa confiscare, il Fisco ha dapprima sequestrati i
suoi mobili, poscia ha sequestrato il suo armento. Se la legge non avesse
garantito l'aratro, gli uscieri avrebbero sequestrato financo il vomero che
apriva la terra. Gli uomini, le donne e i ragazzi attacavansi all'aratro e
provavansi a rimpiazzare gli animali da soma, ma ciò che non possono
rimpiazzare è il concime che manca. La terra non può più rifare le sue forze.
Ella digiuna alla sua volta. Ella sospira. Ella agonizza.
« A misura che si procede
verso il 1789, la natura accorda meno, l'anno non nutrisce più l'anno come la
bestia troppo stanca che ama meglio coricarsi e morire, essa attende, e non
produce più, la libertà non è soltanto la vita dell'uomo essa è benanco quella
della natura[*1].
Cosicchè quando Luigi XVI,
intese la terribile confessione, che non poteasi andare più innanzi, uscire
dalla bocca del sig. di Vergennes morente
‑ Oh amico mio
disse, quanto sarei felice di riposare vicino a voi.
Luigi XVI era serbato a
più dure prove.
Il sig. di Calonne
nominato Ministro delle Finanze propose l'Assemblea dei notabili.
L'Assemblea dei notabili
fu convocata.
Bisognò togliere dinanzi
ad essa il velo che copriva la botte delle Danaidi.
L'abisso era senza fondo.
Gl'imprestiti eransi
realmente elevati ad un bilione e seicento quarantasei milioni, in vece di
duecento milioni che si erano accusati.
Il deficit era di 140 milioni all'anno in vece di cento.
Il capogiro prese Calonne,
ed egli cadde nell'abisso.
Lamenie di Brienne
Arcivescovo gli succedette, e dal principio fu impopolare, diceasi che era
l'uomo della regina.
Non interamente.
Era l'uomo dell'abate di
Vermond, il lettore della regina.
Un anno dopo il popolo
bruciava Brienne in effigie, ed egli a stento fuggiva da Parigi, ove
l'aspettava il martirio di S. Stefano, se era preso.
In questo frattempo una
malattia epidemica si manifestò, si riconobbe che era una specie di peste senza
nome conosciuto.
Il popolo le ne diede uno,
la chiamò la Brienne.
Ecco a quel punto erano in
Francia le cose nel 1785.
Il popolo nudo, affamato,
morente di peste.
Il clero, grasso e grosso,
ben nutrito, non pagando altre imposte che il dono gratuito.
La nobiltà rovinata a carico
del potere regio.
La regina impopolare,
accusata di furto per l'affare della collana, di tradimento negli affari dello
Stato, chiamata Madama Deficit, avendo
tre figli, dei quali cominciavasi la paternità a suo marito.
Il Re, ancora compianto,
amato ancori, stimato sopra tutto, ma ammonito da tutti, su tutti i propositi.
I ministri arsi in
effigie.
La voce pubblica chiamò il
sig. Necker. La Regina che abitualmente lo chiamava il Ginevrino, o il Ciarlatano, come esso era chiamata l'Austriaca o Madama Deficit, gli scrisse una lettera di
proprio pugno onde annunziargli il suo richiamo.
Mai un trionfatore fu
ricevuto come Necker, quattordici medaglie sono coniate in onore di lui, il suo
ritratto è su tutte le facciate dei mercanti di stampe, s'incornicia nelle
tabacchiere, s'incastra sui bottoni, si battezza una strada che chiamasi la
strada Necker, si grida Viva il Re, viva il Parlamento, viva Necker.
In mezzo a tanta gioia una
grandine spaventosa cade il 13 luglio 1788, e rovina la Francia, il giornale di
Parigi annunzia, che la Turenna, la Piccardia, il Velay ed il Foretz, muoiono
di fame e che il grano per seminare mancherà pel venturo anno.
Viene l'inverno più
terribile coi suoi freddi che la estate coi suoi uragani, il termometro scende
a 17 gradi, avanti Calais il mare si agghiaccia sopra una superficie di due
leghe. Alcuni vecchi ed alcuni fanciulli si rinvengono morti dì freddo nei
proprii letti, s'invoca la statua di Enrico IV come quella di un santo, si obbligano
coloro che passano a scovrirsi il capo, ai principi come agli altri.
Il Re fece abbattere tutti
i boschi della sua lista civile circostanti a Parigi, e fece fare delle
distribuzioni di legna al popolo. Egli affettava di portare le sue scarpe
scucite, e non giocava che uno scudo al Tritrac.
D'altra parte a misura che
sminuiva la popolarità del Re e della Regina, quella del Duca D'Orleans au‑
mentavasi. Poichè questa popolarità derivavagli principalmente dall'odio che
portavagli Maria Antonietta. Egli facea distribuire del pane e della carne ai
poveri e accendere dei fuochi sulle pubbliche piazze, le scuderie del Palazzo
reale trasformate in cucine erano aperte a coloro che avevano fame. Valutavansi
a 1500 libre di pane e a 800 libre di carne la distribuzione quotidiana.
Del resto come se il cielo
avesse voluto additare i grandi della terra alla vendetta del popolo, è al
momento in cui la regina abbellisce Rambouillet, S. Cloud e il piccolo Trianon
in cui i gran signori fanno fabbricare, quelle case che si chiamano folie ‑ la folie Beaujon ‑ la
folie d'Artois ‑ la folie Mericourt folie S. James ‑ la folie
Genlis ‑ che quel ghiaccio, quella neve che uccidono il povero,
forniscono delle partite di piacere all'aristocrazia ; facevansi delle corse
nelle slitte, nel mezzo al baluardo, mentre che ai due lati gli eleganti di
second'ordine, avviluppati nei tabarri impellicciati, le mani perdute in enormi
manicotti, guardavano sdrucciolare le agili macchine dal collo di cigno e dalla
testa di dragone che portavano via, con la velocità delle visioni dorate,
sciami di graziose signore.
Fra la nobiltà che
divertivasi, e il popolo che agonizzava, i filosofi, discepoli di Voltaire e di
Rousseau, facevano la loro opera rivoluzionaria.
Si sarebbe detta una
malattia, tutti vogliono più o meno la rivoluzione. Il Re la vuole fino alle
massime di Fenelon; il Conte d'Artois e la regina, che si accusa volere un poco
troppo ciò che vuole il Conte d'Artois, la vogliono fino al matrimonio di Figaro;
Necker la vuole fino agli Stati. Lafayette la vuole fino ad una Costituzione,
il Conte d'Entragues la vuole fino ad una Repubblica.
Quest'ultimo pubblicò una
memoria.
Egli prende l'uomo nello
stato di natura e lo conduce fino all'anno 1778.
La sua epigrafe è l'antico
richiamo delle Cortes al Re di Aragona.
« Noi che valiamo quanto
voi, e che tutt'insieme siamo più potenti di voi, vi promettiamo d'obbedire al
vostro governo se voi mantenete i nostri dritti e i nostri privilegi, Se no, no. »
Volete avere un'idea dello
spirito col quale è stato scritto quel libro, leggetene la prima frase.
Eccola :
« Fu senza dubbio per dare
alle più eroiche virtù una patria degna di essa, che il cielo volle che
esistessero delle repubbliche, e forse per punire l'ambizione degli uomini,
permise che esistessero dei grandi imperii dei re e dei padroni.
Tutto ciò non impedisce al
Carnevale di essere superbo e Longchamps magnifico, soltanto i meno perspicaci
comprendono che le cose non possono andare di questo passo; con questa
prodigalità in alto, la miseria abbasso e la rivoluzione nel mezzo.
Tutti, senza sapere
perchè, sperano negli Stati generali.
Gli Stati generali devono
aprirsi il 27 aprile 1789.
Essi sono stati convocati
con una lettera in data del 24 gennaio diretta dal re ai Baliaggi.
Questa convocazione era
stabilita su basi più larghe di qualunque altra precedente convocazione.
Tutti quelli che pagavano
una imposta e che avevano più di 26 anni, dovevano nominare degli elettori i quali
eleggeranno dei Deputati.
Era un appello a tutta la
nazione meno ì domestici e l'esercito.
Cinque milioni d'uomini
intervennero all'elezione.
Il Clero diede, 44
prelati, 52 Abati, Vicarii generali, Canonici professori, 205 parrochi, 7
monaci, o Canonici regolari.
Totale 308.
La nobiltà diede 266
gentiluomini da spada, 19 magistrati di Corti superiori.
Totale 285.
In fine il terzo stato
mandò 4 preti, 15 nobili o Amministratori militari. 29 Sindaci, o magistrati municipali, due Magistrati di Corti
superiori, 158 magistrati di tribunali inferiori, 214 legisti o notai, 178 proprietarii, negozianti, Borghesi,
Coltivatori, 12 Medici, 5 Finanzieri
e 4 Letterati.
Totale 621. Gli altri due ordini Nobiltà e
Clero aveano dato 593 deputati, così dunque in tutto 1214 deputati.
Gli elettori, sopra tutto
a Parigi erano stati di opinione popolare lo che significava una grandissima opposizione
contro il Re.
Sopra sessanta distretti,
cinquantasette sostituirono un presidente di loro scelta a quello che aveva
nominato il Re.
Gli altri tre distretti
rielessero gli stessi presidenti a patti però che essi dichiarassero aver
ricevuti i loro poteri, non dal Re ma dal popolo.
L'apertura degli Stati
fissata pel 27 aprile, venne fra lo scontento generale, prorogata al 4 maggio.
Si sentiva che si
avvicinava qualche cosa d'ignoto, diciamo meglio di strano, che procedeva dal
passato e camminava verso l'avvenire.
Era la Rivoluzione.
Ma per tutti i cuori essa
si avvicina, dolce, fratellevole, e santa.
Tutti aspettavano un
abbracciarsi generale, universale, tutti, eccetto Sièyès, l'ultimo eletto dei
deputati di Parigi.
‑ Tre ordini ‑ aveva detto ‑ non Tre nazioni.
Un mese passa in
discussioni di etichetta e di preferenze a verificare i poteri, e cercare di
riunire i due altri ordini al Terzo.
In questo frattempo il
popolo muore di fame.
Un giorno un prelato trae
di sotto alla sua sottana pavonazza, un tozzo di pane nero, che senza dubbio
avrebbe rifiutato il cane di un nobile.
‑ Ecco il pane del
contadino, egli dice.
Allora dal mezzo
dell'assemblea si levò una voce aspra.
« Gli antichi canoni ‑
dice quella voce ‑ per sollevare il povero, autorizzano a vendere fino
agli arredi sacri.
Era la voce di un
omiciattolo, meschino, pallido, dagli occhi velati, incipriato con
ricercatezza, quantunque vestito con un'estrema semplicità.
Quell'omicciattolo era il
Cittadino Massimiliano Robespierre, deputato d'Arras.
Il 10 Giugno niente è
finito ancora; Sièyès propone di dichiarare fuori causa la nobiltà e il Clero che non
hanno voluto riunirsi al Terzo stato, il 15 propone di prendere il titolo di Deputati verificati ‑ il 17 propone,
costituirsi in Assemblea nazionale.
Il 21, nella sala del
giuoco delle palle, l'Assemblea nazionale
giurò di non sciogliersi se pria non avesse compita la costituzione.
Il domani, 148 membri del
Clero si separano dal loro ordine e vengono a riunirsi al Terzo Stato.
Restano adunque come unico
baluardo al potere regio contro il popolo, la nobiltà e la minoranza del Clero.
La Seduta Reale era
fissata pel 23 giugno.
Il 23 giugno, la monarchia
gioca il tutto per tutto: Luigi XVI spera che l'apparecchio della maestà e
della potenza monarchica, porrà un termine ad ogni discussione, fermerà i
soprusi dei Terzo Stato, e produrrà la chiusura degli Stati generali.
Il discorso del Re, il
quale non parlava che di benefizi conceduti da lui al suo popolo e che
conteneva l'enumerazione dei dritti accordati alla nazione, ferì profondamente
i deputati del Terzo Stato.
Cosicchè, allorquando
finito il discorso, il Re in modo di post‑scriptum, pronunziò le parole
seguenti:
« Vi ordino o signori di
separarvi subito, e recarvi, domani mattina, nella Camera destinata a voi, per
riprendere le vostre sedute », e pronunziate queste parole si ritirò, tutto il
Terzo Stato, in vece di ubbidire, rimase immobile, e come inchiodato ai banchi.
Allora il gran maestro
delle cerimonie il sig. di Dreux‑Brézé vedendo quella immobilità, si
avvicinò al Presidente Bailly.
‑ Signori, gli
disse, avete inteso l'ordine del Re?
‑ Sì signore,
rispose Bailly ‑ ma l'assemblea essendosi aggiornata oggi, dopo la seduta
reale, io non posso scioglierla senza che essa abbia deliberato.
‑ E’ questa la
vostra risposta, riprese il Signor di Dreux‑Brézé, debbo io parteciparlo
al Re?
‑ Si, Signore.
E poichè de Brèzè
insisteva ‑ Mirabeau si slanciò dal suo posto, e con la sua voce tuonante
disse:
‑ Dite a coloro che
vi mandano che la forza delle baionette non può nulla contro la volontà della nazione[*2].
Lo stesso giorno, dieci
minuti dopo l'uscita di DreuxBrézé, l'Assemblea dichiarò.
‑ Che la persona dei
suoi deputati era inviolabile.
‑ Che qualunque
Particolare, qualunque Corporazione ‑ Tribunale, Corte ‑ o
Commissione ‑ che osasse durante o dopo la presente sessione
perseguitare, ricercare, o fare arrestare, ritenere o far ritenere, un deputato
per ragione di qualche proposizione, consiglio, opinione, o discorso da lui
fatto agli Stati generali, come ancora qualunque persona che prestasse il suo
ministero ad alcuno dei detti attentati, da qualunque parte venissero dati gli
ordini ‑ sarebbe infame e vile verso la nazione e colpevole di
delitto capitale, L'Assemblea delibera che nei suddetti casi, prenderà, tutte
le necessarie misure per far ricercare, inseguire, e punire quelli che ne
saranno gli autori, gl'istigatori ed esecutori.
E non ci fu eccezione per
alcuno, lo stesso Re è compreso in questa deliberazione.
Da quel momento non vi è
più re in Francia; il solo Re il vero Re é l'assemblea nazionale.
Il Re cedette.
Ma pur cedendo, dava
l'ordine di concentrare intorno a Versailles, un certo numero di reggimenti.
Sia per scelta, sia per
calcolo, sia per avventura, ì reggimenti erano tutti esteri.
Ben presto, convennero,
fra Parigi e Versailles 30,000, uomini, e treni considerevoli di artiglieria.
Di più altri 20,000,
uomini erano attesi.
Il maresciallo di Broglie
era stato fatto venire dalla Lorena, e raccontavasi che al suo arrivo a
Versailles, il Re erasi gettato fra le sue braccia esclamando:
Ah Maresciallo! quanto
sono infelice, ho perduto tutto; non ho più il cuore dei mie sudditi, e sono
nel tempo stesso senza esercito e senza denari.
Intanto perchè erano
reggimenti stranieri quelli che il re concentrava a Versailles? andremo a
dirlo.
Il 23 Giugno vi era stata
una sommossa: due compagnie delle Guardie Francesi, alle quali erasi dato
l'ordine di far fuoco, aveano ricusato.
I Capi consegnarono le
truppe nelle caserme, ma il 25 e il 26 dello stesso mese, i soldati consegnati
fuggirono e corsero al Palazzo Reale ‑gridando ‑ Viva il Terzo
Stato.
Il Palazzo Reale ‑
palazzo del Duca d'Orleans, era il centro dell'opposizione parigina; vi si era
aperta un circo ‑ il Circolo sociale ‑ teneavi le sue sedute e si
occupava dell'avvenire del genere umano ‑‑
La bocca di ferro eravi redatta dai franchi‑fratelli
‑ in fine, il giardino era pieno di ammutinatori tutti pronti a
sommuovere il popolo alla prima occasione.
Le guardie fancesi per
conseguenza vi furono accolte con acclamazioni.
Gli ammutinatori misero il
grido di viva le guardie francesi cui risposero le guardie francesi, col grido
di Viva la Nazione.
Questi due gridi erano
così bene accoppiati che si dimenticò di aggiungervi quello di Viva il Re ‑ Si fraternizzò.
Gli ammutinatori fecero
apportare dei vino e de' rinfreschi di ogni specie; attirati da quelle grida e
sollecitati a prender parte alla festa, Dragoni, Svizzeri, alcune compagnie di
Artiglieria tutte intere, presero parte alla festa, la quale durò tutta la
notte.
Il 30 giugno, verso le
sette della sera, un messaggiero entrava nel Caffè di Foy, e rimetteva a tutti
quelli che si trovavano nel Caffè una lettera con questo indrizzo.
‑ Ai zelanti di
libertà.
Questa lettera annunziava
che Il soldati delle Guardie francesi, detenuti all'Abbazia, per non aver
voluto far fuoco sul popolo, col favore della notte sarebbero trasferiti a
Bicétre, sul luogo, soggiungeva la corrispondenza, destinato a vili scellerati
e non a brava gente come quelli.
La lettera, letta dapprima
al Caffè, è riletta nel giardino, alcuni giovani sollevano i propri cappelli in
cima ai bastioni, e gridano: all'Abbazia,
all'Abbazia. Un assembramento di oltre le seicento persone, si dirige verso
la prigione. Lungo il cammino, questo assembramento diventa un esercito, le
porte della prigione, sono sfondate. Nove soldati delle guardie francesi, sei
soldati delle guardie di Parigi, e due altri ufficiali rinchiusi per diversi
motivi, vengono messi in libertà.
Ma al momento in cui la
spedizione si compie, una compagnia di Dragoni, seguita da un distaccamento di
Usseri, si presenta colla sciabola in pugno.
Però in vece di fuggire,
il popolo va incontro a loro, prende le briglie dei cavalli, si appella alla
fratellanza che deve unire tutti i Francesi: le Guardie francesi, chiamano i
Dragoni e gli Usseri loro camerati, questi rimettono le sciabole nel fodero, da
tutte le case esce gente con bicchieri e bottiglie, e là benanco si
fraternizza, e si beve al grido di viva la nazione.
Allora i soldati liberati,
sono condotti in trionfo al Palazzo Reale, e nel tempo stesso che si mena in
prigione un soldato accusato di furto, delle tavole sono imbandite nel
giardino, si cena al lume delle fiaccole.
Nella notte del 4 al 5
luglio, all'invito dell'Assemblea nazionale che vuol che resti forza alla
legge, i soldati rientrano all'Abbazia, dove il domani ricevono la grazia dal
Re.
Parigi in tumulto per
un'intera settimana rientrò, o sembrò rientrare nel riposo, ma sotto
quell'apparenza di calma, batteva nelle arterie della gran capitale, la febbre
ardente che sei giorni dopo sarebbe scoppiata.
« Trenta reggimenti
marciarono sopra Parigi », dice il marchese de Ferrieres nelle sue memorie.
Il pretesto era la
tranquillità pubblica, ma i Parigini non credevano che questo fosse il vero
scopo.
Il vero scopo era per essi
la dissoluzione degli Stati generali.
L'Assemblea nazionale da
parte sua sentiva per istinto che tutte queste forze si dirigevano contro di
lei.
Redasse un indirizzo
chiedendo l'allontanamento delle truppe; questo indirizzo fu presentato al Re
il dieci luglio dal sig. Clermont Tonnerre.
Il Re rispose a questa
domanda che era suo dovere il vegliare alla sicurezza pubblica e che per
adempiere a questo dovere, faceva venire delle truppe, e se queste truppe
insospettivano l'assemblea, traslocherebbe l'assemblea a Noyon o a Soissons ed
egli stesso si recherebbe a Compiègne.
Questa traslocazione
dell'assemblea a Noyon o a Soissons aveva molta rassomiglianza coll'esilio
degli antichi parlamenti.
Necker, ginevrino,
repubblicano per conseguenza, ispirava diffidenza.
Si fece venire un
intendente delle finanze, chiamato Foullon; contavasi con esso rimpiazzare
Necker.
Era una cattiva scelta,
egli era molto impopolare, e gli si attribuivano, unitamente al suo genero
Berthier, le più sinistre intenzioni.
Consultato sulla situazione
rispose.
« Vi sono due partiti da
prendere; il primo si è che il Re accetti francamente la rivoluzione, divenga
il primo rivoluzionario della sua epoca, e si metta alla testa del movimento.
« Il secondo, all'opposto,
era di arrestare il Duca di Orleans, di processarlo, di sciogliere l'assemblea,
e mandare alla Bastiglia i 47 deputati nobili che eransi uniti al Terzo Stato,
d'aggiungere a questi Mirabeau, un centinaio di deputati del Terzo, e fare
occupar Parigi dal Maresciallo di Broglie e da trenta mila uomini.
Si prese un mezzo termine:
si licenziò Necker, si nominò Foullon in sua vece, si fece intorno a Parigi una
specie di cordone di reggimenti esteri, si mise il Royal Cravatte a Charenton Diesbach
a Sevres Nassau a Versaille Salis Samnade a Issy, Diesten alla scuola militare, Estherazyi‑Roemer nei dintorni.
Si mandò un rinforzo di
Svizzeri alla Bastiglia e si aspettò: questa era approviggionata di tanta
polvere, per quanto basterebbe a far saltare in aria la metà dì Parigi, e avea
i suoi cannoni, tirati in dietro sui bastioni fin dal 31 giugno, allungando il
loro collo al di fuori dei merli.
Il 12 luglio a Parigi
tutti ignoravano il licenziamento di Necker; aveasi di lui un'idea terribile;
temeasi che, sapendo la sua dimissione,
scendesse in piazza e vi facesse una rivoluzione; niente di più opposto alle
sue intenzioni e sopra tutto al suo naturale. Era a tavola quando gli si
partecipò l'ordine del Re, l'11 alle due dopo il mezzogiorno. Egli si contenne innanzi
a' suoi convitati, ma quantunque rimpiangesse il suo ministero, parti dopo il
pranzo, solo colla moglie, senza neppure avvertire la signora di Staél, sua
figlia.
Vi sono dei giorni in cui
il tempo annunzia l'uragano, in cui si respira un'aria pesante e carica di
elettricità, in cui si sente che basta una scintilla per accendere la folgore
ancora sopita.
Il 12 luglio era uno di
questi giorni, alcune grida passavano come baleni.
Bonneville gridava:
all'armi!
Marat gridava: Attenzione!
‑ All'armi chi?
Contro l'esercito.
‑ Attenzione a chi?
Alla Corte.
Il popolo aveva dunque due
nemici, la Corte e l'esercito.
Svegliandosi, i Parigini
avevano visto affissi in tutte le strade, grandi cartelli, nei quali in nome
del Re, erano invitati a rimanersi in casa, e a non fare degli assembramenti.
Era questa una ragione per
farli sortire e per farli assembrare.
Verso il mezzo giorno,
questa notizia scoppia al Palazzo Reale:
Necker è stato licenziato.
Il Palazzo reale, come già
è stato detto, senza sapere, nè come, nè perchè, era divenuto il centro
dell'opinione pubblica.
Allora da questo centro
esce ad un tratto l'ordine di chiudere gli spettacoli, di cessare i giuochi, di
dare in fine alla città l'aspetto di un pubblico lutto.
Si accorre, si ammutinano,
il Palazzo Reale s'ingombra, fra le grida di minaccia, un giovane esce dal
Caffè di Foy, sale sopra una panca, sguaina con una mano la spada, con l'altra
impugna la pistola e grida ‑ All'armi.
‑ Come si
distingueranno gli amici dai nemici?
‑ Strappa una foglia
di castagno, la mette al suo cappello.
‑ Alla coccarda
verde.
Ognuno strappa una foglia
ed imita il promotore, quasi ignoto, ma il cui nome comincia a passare di bocca
in bocca.
E’ Camillo Desmoulins.
In quel momento, senza
sapersi quali mani le agitano, le campane suonano.
la campana a martello.
All'armi! ripete Camillo
Desmoulins.
Perchè all'armi?
Perchè i Tedeschi entrano
questa sera in Parigi, risponde, così per caso, Camillo Desmoulins. E si
slancia fuori del palazzo reale ove la insurrezione soffoca.
Essa si sparge nelle vie.
Un gruppo di cittadini
irrompe nel magazzino di stampe di Curtius
[*3], vi prende il busto di Necker, e quello del
Duca d'Orleans.
Si coprono questi busti di
un crespo, si portano attraverso Parigi gridando: Viva l'Orleans, Viva Necker.
Viene la notte, si
accendono delle torce, il corteggio prende un aspetto più fantastico e più
terribile.
Al lume delle torce,
veggonsi luccicare, nelle mani del corteggio, delle spade, delle scuri, e delle
spistole.
Alla piazza Vendóme,
dinanzi al palazzo degli Appaltatori Generali, si trova un picchetto di Dragoni
di Noailles e un distaccamento del Royal
Allemand.
I cavalieri, colle
sciabole in alto, caricano la folla, rompono il busto di Necker, uccidono una
guardia francese, disperdono la folla.
Due ore prima, una cosa
simile era avvenuta alle Tuilleries.
Il Principe di Lambese
avea caricata la folla coi suoi Dragoni, un uomo era stato stramazzato e
calpestato dai cavalli, un vecchio colpito da un colpo di sciabola.
Corre voce che il vecchio
sia stato ferito dalla mano stessa del Principe.
La folla smarrita si
spande nelle strade gridando, all'assassino
‑ I tedeschi assassinano il popolo.
Un nucleo di guardie
francesi, fuggite dalle caserme si forma, marcia contro i Tedeschi per
vendicare il proprio commilitone, ucciso sulla piazza Vendóme; uccide tre
Cavalieri sui boulevard.
Queste rappresaglie si
compiono gridando: Vendetta.
Le guardie francesi,
consegnate nelle loro caserme, seguitano a fuggirsene, si mischiano al popolo
ed organizzano la resistenza.
Il loro uniforme popolare
è salutato con acclamazioni dovunque apparisce.
Essi sì gettano nel
Palazzo Reale ‑ il Palazzo reale è illuminato a giorno e fiammeggia.
Alle Il della sera si
viene ad annunziare al Palazzo Reale che i Tedeschi ed i Dragoni si accalcano
sulla piazza Luigi XV.
Le Guardie francesi si
contano, esse sono all'incirca mille e duecento.
‑ Ai Dragoni, ai
Tedeschi, gridano due o tre voci.
‑ Ai Dragoni ai
Tedeschi, ripetono tutte le voci.
E, senza ufficiali,
sospinte dal popolo che le accompagna, e che occorrendo combatterà con esse, le
guardie francesi, si slanciano sulla Piazza Luigi XV.
La piazza Luigi XV è
vuota; il signor Lambese si è ritirato pel Corso della Regina.
Il popolo saluta le Guardie
francesi, col titolo di soldati della patria.
La mezzanotte scocca
all'orologio delle Tuileries.
Nel tempo stesso scorgesi
un chiarore d'incendii dalla parte delle Barriere.
E’, il popolo che brucia i
posti di dogana.
Il sole del 13 luglio
sorge.
Versailles è nella
costernazione ; si sparge la voce che i signori di Bezenval e di Lambese sono
stati obbligati a sgombrare Parigi.
Che le barriere sono
bruciate, dal sobborgo S. Antoine al sobborgo S. Honoré.
Che dovunque avviene una
lotta fra il popolo e la truppa ‑ il popolo è vincitore.
Arriva una lettera di
Bezenval che conferma queste voci, che domanda degli ordini, e un piano di
condotta da seguirsi.
Egli aspetta agl'lnvalidi,
ove si è ritirato e fortificato.
Due ore dopo l'arrivo
della lettera del sig. di Bezenval, si apprende che le comunicazioni sono
interrote fra Versailles e Parigi, che le vetture non passano più le barriere,
e che i pedoni ne sortono a stento.
La corte copre di truppe
la strada di Versailles. Le Guardie del corpo sono in ordine di battaglia
nell'atrio principale ‑ una batteria di difendere il ponte di Sevres.
Alle sei del mattino si
sparge a Versailles la voce che centomila Parigini armati marciano contro il
Re.
I Parigini non vi pensano ‑
hanno tutt'altro a fare.
Non è il popolo che ha
bruciato le barriere, è una turba di uomini che non si sa d'onde esca, forse
donde esce la schiuma che la tempesta fa risalire sulla sommità delle onde, e
spinge alla riva.
Essi passano nelle strade
con fiaccole e scuri ‑ rompono le porte di S. Lazare e della Force ‑ gridano
farina e pane.
Di minuto in minuto,
questo pericolo, al quale nessuno si attendea, diventa più imminente ‑
quella truppa di banditi ha svaligiato i Lazaristi, accusati di nascondere il
grano ‑ ha gettato i mobili dalle finestre, i libri, i quadri, ha
sfondato le botti del vino nelle cantine.
Non si tratta più di
difendersi contro i Tedeschi, ma contro di quella turba.
Tutte le botteghe si
chiudono con la rapidità propria dei giorni di sommossa, quel vento che fa
correre la popolazione spaventata come turbini di foglie secche, soffia nelle
vie di Parigi ‑ la campana a martello squilla su tutt'i campanili della
Capitale, da sembrar che le campane dondolino da sé sole ‑ Si capisce che
un gran pericolo sovrasta all'esistenza comune.
Verso le 11 del mattino,
il Comitato degli Elettori decreta la formazione di una guardia cittadina, per
mantener l'ordine nella città.
Nell'apprendere questa
decisione, ognuno corre a farsi inscrivere al palazzo municipale. I cittadini
di ogni rango e di ogni età chiedono di essere iscritti come soldati della
Patria.
Una donna distribuisce
gratis migliaia di coccarde verdi. Da chi fatte? Non si sa.
Gli uscieri de'Tribunali,
gli Studenti di Dritto, glìImpiegati dello Chatelet, gli Studenti di Chirurgia
vengono ad offrire i loro servigi, questi servigi sono accettati, e questi
volontari sono iscritti ; classificati, organizzati al medesimo istante.
Avevasi un esercito, non
mancavano che le armi ed un Capo.
Se ne proposero tre: il
Duca d'Aumont, il marchese della Salle, il marchese de La Fayette.
Nel tempo stesso,
annunziavasi al palazzo di città, che due cittadini hanno scoperto al porto S.
Nicola un battello carico di cinque mila libbre di polvere.
Si trasporta la presa al
palazzo di città e si deposita nel cortile.
Appena questo annunzio è
dato, nel cortile istesso ove è stata depositata la polvere, rimbomba un colpo
di fucile.
Per miracolo il palazzo di
città non va in aria.
Un elettore, l'abate
Lefevre d'Ormesson, scende, trova che tutti fuggono, il colpo di fucile ha
spaventato i più valorosi, le sole guardie municipali sono restate colle spade
nude presso i barili.
Si rotolano in un magazzino a volta, e s'incarica l'abate di farne
la distribuzione ai soldati cittadini.
Il suo zucchetto servirà
di misura.
Sopraggiunta la notte,
l'abate vuole far cessare la terribile distribuzione e chiudere la porta; al
momento in cui egli la spinge, un uomo passa il suo braccio armato di pistola
nell'apertura della porta, e fa fuoco.
La palla non colpisce
l'abate, il fuoco non s'apprende alla polvere.
L'Abate si coricò sui
barili, capiva bene che se lasciava la polvere per soli dieci minuti avverrebbe
qualche grave sciagura.
Alle 11 della sera, una
turba di uomini ubriachi sfonda la porta e chiede della polvere: colui che li
guida porta in bocca la sua pipa accesa.
L'abate vuole strappargli
la pipa dalla bocca, l'uomo non vuol farsela prendere, l'abate se la compra per
una lira, e la getta nel cortile quanto più può lontano.
L'assemblea nazionale è
stata durante il giorno prevenuta di quanto avviene a Parigi, e si è dichiarata
in permanenza.
Un cittadino ha fatto
osservare che il verde è il colore del Conte d'Artois, e che per conseguenza il
popolo non può portare i colori di un principe.
I colori rosso ed azzurro
sono sostituiti al colore verde.
Più tardi, Lafayette,
aggiungendovi il bianco, creerà la coccarda tricolore.
Durante il giorno, il sig.
di Flesselles, prevosto dei mercanti, ha ricevuto contemporaneamente dal Re
l'ordine di recarsi a Versaille, dal popolo l'ordine di recarsi al palazzo
municipale.
Ubbidisce al popolo, va al
palazzo municipale, ove è molto acclamato.
Gli si domandarono dei
fucili, egli li promise per dopo‑ il mezzogiorno.
In attesa dei fucili si dà
l'ordine di fabbricare 50,000 picche.
Queste picche sì
fabbricano sulle pubbliche piazze. Parigi offriva un meraviglioso spettacolo,
parea un immenso cratere in cui sobbolliva la lava delle rivoluzioni.
Sulla piazza di Grève un
immenso rogo composto di carrozze prese a quelli che già chiamavansi i nemici,
e fre le quali era quella del sig. di Lambese, rischiarava di una luce
tremolante, le tetre torri di Notre Dame che
pareano vacillare sulle loro basi_Dovunque si sentiva il rumore dei martelli, e
dei ferri infuocati che passavano dalle fucine alle incudini dappertutto si
vedeano le scintille slanciandosi in fasci intorno ad un esercito di cielopi.
Nelle strade, passeggiate
strane terribili, minacciose d'uomini armati di scuri e di falci, poi dominando
tutto ciò, la voce lugubre, lamentevole stridula, della campana a martello. Il
grido all'armi al quale rispondevano
clamori incompresi più formidabili delle minacce articolate
La sera del 13 Parigi si
coricò con l'unica intenzione di difendersi.
Il domani 14 si levò con
la volontà di attaccare.
Il 14 luglio comparve,
sereno, luminoso, terribile: sembrava che allo spuntar dell'aurora una voce
avesse gridato su Parigi:
‑ Alla Bastiglia.
‑ Cento mila voci
ripeterono questa parola insensata: alla Bastiglia.
Infatti, per un popolo
senza armi, senza artiglieria la Bastiglia era imprendibile.
Sì procurarono le armi,
trentamila fucili era stato gridato durante la notte, erano depositati
agl'Invalidi.
Il mattino, cinquanta mila
uomini rompono i cancelli e si impadroniscono dei fucili.
E allora, da ogni parte,
non si sentì più che questo immenso coro.
Alla Bastiglia.
Da cinque secoli il
vecchio edifizio di Carlo V pesava sul petto della Francia, come la rupe
infernale sulle spalle di Sisifo.
Soltanto, meno presuntuosa
del Titano, la Francia non aveva mai tentato di sollevarla.
Era l'emblema del
dispotismo, era il simbolo vivente della schiavitù.
La Bastiglia!.... da
cinque secoli, questa parola era il terrore dei Parigini.
Una volta rinchiusi nella
Bastiglia erasi dimenticato, sequestrato, sepolto, annientato.
La morte lascia la
speranza della risurrezione.
La Bastiglia non lasciava
altra speranza che la morte.
Una volta che erasi alla
Bastiglia, vi si restava fino a quando il Re si ricordasse di voi; e i Re
devono sempre pensare a tante cose nuove, che non fa meraviglia se dimenticano
le cose vecchie.
Non eravi in Francia una
sola Bastiglia, vi erano venti Bastiglie che si chiamavano: il forte Leveque, S. Lazare. le Chatelet, la
Conciergerie, Vincennes, il Castello di Laroche,
il Castello d'If, le Isole S. Marguerite,
Pigneroles, etc.
Solo la fortezza della
porta S. Antoine chiamavasi la Bastiglia, come a Roma la Prigione
Mamertina chiamavasi la Prigione.
La Bastiglia della Porta S. Antoìne era la Bastiglia per
eccellenza, essa solo valeva quanto tutte le altre Bastiglie.
A questa riannodavansi le
più lugubri tradizioni.
Le istorie della Maschera di ferro, e di Latude, vegliavano come due fantasmi ai
due lati delle porte della Bastiglia.
Il popolo ne aveva fatto
una cosa vivente, un mostro simile ad uno di quelle tarasques gigantesche, a una di quelle bestie colossali del Gevaudan, che divorano gli uomini
inesorabilmente.
Cosicchè, al grido: alla Bastiglia, un brivido elettrico
corse pel corpo di tutti.
Si precipitarono verso il
gigante di pietra.
La Bastiglia aveva sui
suoi terrazzi quindici pezzi di cannone, tre pezzi di campagna nel cortile,
rimpetto la porta di entrata.
Dodici fucili da bastione
chiamati les Amusettes del Conte di
Sassonia.
La Bastiglia aveva
duecento cinquanta barili di polvere, ognuno dei quali pesava centoventicinque
libbre; proiettili in proporzione.
Fin dalle dieci il sig. De
Launay, suo governatore, avea fatto trasportare sulle torri, sei vetture, sei
carri di pietre, di ferracci, e di palle che non erano di calibro per gettarli
dall'alto dei terrazzi sulla testa degli assalitori.
Alle otto del mattino,
facevasi questo formidabile rapporto a Luigi XVI e a Maria Antonietta, e
soggiungevasi che de Launay aveva giurato di far saltare in aria se e là
Bastiglia, con la metà di Parigi, anzichè rendersi.
Alle sette di sera ‑
il sig. di Noailles coverto di sudore e di polvere entrava di galoppo sopra un
cavallo tutto schiumante nel 'cortile dì Versafilles grìdando ; la Bastiglia è
presa.
Dietro di lui, giunse non
meno spaventato' il signor di Wimpfen.
Il governatore è stato
ucciso. Flesseles è stato ucciso ed è mancato poco che egli non fosse stato
ucciso con
essi.
Il Re, la Regina, i Principi, i cortigiani furono annientati.
La Bastiglia era una parte
del potere regio- instrumentum regni ‑ come dice Tacito.
Cosicchè, quando due
giorni dopo, si annunziò al Re che il Municipio avea, deciso che la Bastiglia
fosse demolita, egli, che ha tutto sopportato, esclama:
Ah! questo poi è troppo.
Egli la sentiva bene la
monarchia era scossa fin dalle fondamenta.
Cosicchè a quest'ultima
notizia il terrore si sparge a Versailles ‑ il Conte d'Artois fugge ‑
Il Principe di Condé fugge ‑ la stessa Madama di Polignac, la prediletta
della regina, ancor essa _fugge.
Ecco le notizie che,
siccome dicemmo, giungevano alla corte di Napoli, corroborate da nuovi
assassinii
quelli di Foullon e
Berthier.
E tutte queste cose che
sembravano impossibili a Carolina e al Re Ferdinando, sono state consacrate dal
Re Luigi XVI, che è andato in mezzo a quell'assemblea che voleva sciogliere
dicendo ‑ Mi affido a voi; che è andato a quel Parigi che egli voleva
bruciare, e al quale Bailly ha detto presentandogli le chiavi della città:
‑ Sire, sono le
stesse chiavi che furono offerte ad Enrico IV. Quel giorno egli aveva
riconquistato il suo popolo: oggi, è il popolo che ha riconquistato il suo Re.
In fine, cosa più
incredibile ancora, il Re ha smesso i colori dei suoi antenati, ha rinnegato le
bandiere dovrò e di Denain, e, al posto della coccarda bianca ha messo sul suo
cappello la coccarda tricolore, cioè il simbolo visibile della rivoluzione.
Ci siamo forse un poco
dilungati sugli avvenimenti che hanno prodotta la rivoluzione francese e su'
primi avvenimenti di questa rivoluzione, a causa dell'incontestabile influenza
che questi avvenimenti avranno sulla rivoluzione napoletana, la quale, in certo
modo, non è che una florescenza della rivoluzione francese, quantunque una sia
scoppiata quando l'altra era presso al suo termine.
Ci è dunque sembrato
impossibile il continuare il nostro racconto, senza farvi entrare questa
intercalazione che spiegherà i cambiamenti che avvennero non solo nella
politica del Regno delle due Sicilie, ma benanco nel carattere del suo Re.
Ed infatti in Ferdinando
vi sono due uomini ben distinti, quello che abbiamo conosciuto fino ad ora, e
quello che vedremo comparire e svilupparsi.
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