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Di
Alexandre Dumas
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CAPITOLO IV.
Il Re Ferdinando e la Regina Carolina
assisterono dunque alle feste che ebbero luogo per l'incoronazione del loro
fratello; sì a Vienna nel Palazzo imperiale, sì a Pesth, allorchè il nuovo
imperatore andò a farsi incoronare Re d'Ungheria. Poi, dopo aver preso sopra di
sé di far aderire i principi d'Italia alla coalizione che si preparava contro
la Francia, ripresero la strada de' loro Stati, passando per Roma, che aveano
evitata, nel loro primo viaggio, perchè come abbiam detto, erano in qualche
freddezza col Sovrano Pontefice, quello stesso Pio VI sulla morale del quale ci
siamo distesamente dilungati. Ma, gli avvenimenti politici avean ravvicinato
Roma a Napoli. Papa e Re avean capito che il terremoto che scuoteva i troni,
scuoteva, nello stesso tempo, la Religione, ed era stato convenuto fra loro che
il tributo della Chinea, già caduto
in disuso, ed il titolo di Vassallo della
Santa Sede che avean portato fin allora i Re di Napoli, fossero aboliti, e
che, solamente alla loro incoronazione i Re di Napoli offrirebbero alla Santa
Sede in segno di devozione, verso gli apostoli Pietro e Paolo, una grossa somma
di danaro. Il Papa nominerebbe ai beneficii ecclesiastici del reame delle due
Sicilie, ma soltanto individui soli sudditi del Re, ed in una lista presentata
da lui.
Il Re e la Regina, nel passare per Roma. vi
trovarono Madama Adelaide, quella figlia di Re Luigi XV, di cui abbiamo
raccontato il sacrifizio, e la principessa Vittoria, sua sorella.
Giunta a Napoli, Carolina, s'occupò
immediatamente di mantenere la parola ch'avea data a suo fratello.
Ma gli altri governi, meno interessati nella
questione di quel che fossero Ferdinando e Carolina, mettevano in ciò meno
entusiasmo: ognuno riguardava infatti la rivoluzione di Francia cogli occhi del
suo privato interesse, ovvero i suoi proprii imbarazzi non gli permettevano di
mischiarsi di quelli degli altri.
L'Inghilterra era contentissima del dissesto
finanziero e politico nel quale ci trovavamo, il quale non poteva, nè sotto il
primo nè sotto il secondo rispetto, rimbalzare su lei. La Spagna, s'indeboliva
sotto il suo nuovo Re, Carlo IV, che lasciava le cure dello Stato alla Regina
Maria Luisa, ed al favorito della Regina, Godoy, Principe della Pace, e che non
s'occupava d'altro che di strigliare, da se stesso, i suoi cavalli, e di tenere
esattamente il giornale di caccia di suo padre, che avea fedelmente continuato
dopo la sua morte.
La Prussia avea l'occhio sulla Polonia, che
si preparavano a smembrare, e di cui ella contava avere la sua parte. La Russia
lottava con gran pena contro i Turchi, suoi eterni nemici, il Piemonte,
doppiamente agitato, tanto a causa dei suoi patrioti, che provavano il contro
colpo della Rivoluzione francese, quanto per gli emigrati francesi che
abbondavano in casa sua, vedeva la Savoia in insurrezione, o vicina ad
insorgere e lungi dall'essere quella potenza militare che è diventata poi,
abbisognava per sé di tutti le sue milizie. Il Reame delle due Sicilie, o
piuttosto i suoi Sovrani erano i soli che fossero disposti a fare seriamente la
guerra.
L'ora era mal scelta, le Due Sicilie riunite
aveano una popolazione di sei e mezzo a sette milioni d'uomini, poco bellicosi però, e niente affatto esercitati
alle armi. Dopo le battaglie di Bitonto e di Velletri, Napoli non avea inteso
il rombo del cannone e, a queste due battaglie, siccome abbiam detto, non avea
preso nessuna parte. I baroni, che formavano la forza principale delle due
Sicilie, s'erano snervati in una lunga pace e, nel loro contatto con' una corte
tutta di piaceri, siccome era quella del Re Ferdinando e della Regina Carolina.
Le inclinazioni guerriere di Ferdinando si limitavano al suo gusto smodato per
la caccia, e se qualche volta avea diretto il punto di mira del suo facile
sopra uomini, era sopra gente inoffensiva che passava, per far pruova di
destrezza, abbattendo, a palla sciolta, il loro cappello, ed ancora, dacchè in
uno di que' giuochi il Re avea colpito il cranio invece del cappello,
cagionando così la morte immediata dell'uomo, che aveva avuto, nello stesso
tempo, l'onore e la disgrazia di servire di punto di mira al Re, egli aveva
rinunziato a questo divertimento, che doveva riprendere, con buona riuscita,
uno dei figli di suo figlio. Il Clero, senza amare il Governo, che s'era posto
in lotta con Roma, si ravvicinava a lui, è vero che il faceva per l'odio che
avea contro la Rivoluzione francese, ma non bisognava contare su lui, se non
che a parole. I legali dipendendo non già da un codice che assicura
l'eguaglianza fra i cittadini, l'equità ne' giudizii, ma dalla volontà del
Sovrano, non eran punto fermi né sulla loro base né sulla loro fede, perchè,
per quanto sia corrotto resta sempre all'uomo un poco di coscienza in fondo al cuore,
che gli dice che il bene è il bene ed il male è il male. Tutto il mezzo ceto,
cioè, la parte savia ed intelligente della società, simpatizzava con principii
dell'89; ma assuefatti a ricevere tutti miglioramenti sociali dalla grazia del
Sovrano, eglino riguardavano con un certo spavento la lotta di una nazione, la
quale comprendendo che il suo re non voleva riconoscere i suoi diritti, glieli
strappava a forza. Infine, tutto il resto della nazione, e particolarmente le
basse classi del popolo erano sinceramente affezionate al Re, siccome sono
sempre a tutti quelli che parlano a voce alta, a tutti quelli che brillano, a
tutti quelli che distribuiscon un danaro che si può ottenere senza darsi la
pena di guadagnarlo.
Su questa porzione di popolo che si siam
provati di dipingere più innanzi, i preti, dai loro pulpiti e coi loro
confessionali, esercitavano un potere più grande ancora di quello del Re , e di
questo potere il clero si serviva per rappresentargli la nazione francese come
una nazione d'eretici, d'incendiarii, di assassini, di devastatori, in
abbominazione a Dio ed in orrore agli altri popoli.
Oggi, abbiam detto che cosa era questo
disgraziato reame, governato non già dal Re, ma da Carolina, animo imperioso,
vendicativo, irrequieto, offuscato da passioni violente, ardente nell'amore
come nell'odio. Secondata dal suo amante, o piuttosto dal suo schiavo, Acton,
ambizioso senza genio e dalla sua favorita Emma Lyonna, cortegiana senza cuore.
Alcuni giorni dopo il ritorno de'due
Sovrani., Napoli, vi fu un consiglio di Stato presieduto per pura forma da
Ferdinando, nel quale fu risoluto che si facessero i preparativi per la guerra
e che si sorvegliassero rigorosamente i rivoluzionari nell'interno.
Nell'istesso tempo l'Imperatrice Caterina
trattava colla Turchia, e firmava una pace che le dava agio di rivolgere i suoi
occhi verso la Polonia e la Francia.
Il 7 febbraio, l'Austria e la Prussia
firmavano a Berlino un trattato d'alleanza difensiva ed offensiva. Però le due
potenze non doveano operare se non quando la guerra civile fosse scoppiata in
Francia.
Ma la Francia in vece di aspettare doveva
prevenirle.
Fin dal 14 gennaio 1792, il Comitato
diplomatico conchiuse che il Re dimandasse all'Imperator Leopoldo di dichiarare
nettamente, prima dell'11 febbraio, s'egli era per la Francia o contro di lei.
Noi vediamo che il 7 egli firmava un trattato
d'alleanza offensiva e difensiva con la Prussia.
Nello stesso tempo che l'imperatore firmava
quel trattato, il Re di Francia rispondeva all'assemblea nazionale che essa
riceveva da Treviri la parola che l'impero non meditava nulla contro la
Francia; che anzi l'imperatore avea dato ordine perchè si disperdessero e di
disarmassero gli emigrati.
Ma mentre Leopoldo mentiva a sé stesso, e che
Luigi XVI mentiva alla Francia in nome suo, egli moriva di dissenteria il I
marzo, a 40 anni, vecchio come un ottuagenario, logoro degli strani piaceri del
harem toscano, lasciando il trono a
suo figlio Francesco II.
Senza dubbio, il dolore che provò Carolina
per la morte di suo fratello fu scemato dalla gioia di veder salire sul trono
di Austria un nemico dichiarato della Rivoluzione francese. Il nostro
ambasciatore, Noailles, presso a poco prigioniero nel suo palazzo di Vienna, fu
richiamato.
Si mandò il signor di Segur, sul quale si
fecero correre le voci più burlesche, dicendo ch'egli avea missione di
ottenere, sia per amore, sia per danaro dalle amicheintime del Re di Prussia, che gli rivelassero i segreti di
stato. Non potendo fare a meno però di riceverlo, l'imperatore lo ricevette in
udienza pubblica, e gli volse le spalle domandando all'inviato di Coblentz come
stava il Conte d'Artois.
Volete sapere che cosa pensa il nostro grande
Storico, Michelet del nuovo imperatore, del prediletto nipote di Carolina ?
Ascoltate :
« Nessun volto forse non caratterizza meglio
la controrivoluzione di quello del nuovo imperatore Francesco Il cui lungo regno incomincia: limitato d'ingegno,
debole e violento, mal fortunato da due nature ‑ tedesco, nato a Firenze ‑
falso italiano, falso tedesco :
Era l'uomo onesto de' preti; un devoto
macchiavellesco, la cui anima dura ed ipocrita non era perciò men f facile a
commettere delitti politici. E quel Francesco che accettò dalle mani del suo
nemico Venezia sua alleata, quel Francesco che, per mezzo di sua figlia,
incominciò la ruina del suo genero: che poi, quando egli era in Russia,
l'attaccò alle spalle, e ne compì la perdita.
Vedetelo ne' numerosi quadri di Versailles, ‑
in cui è rappresentato, ‑ E noi aggiungiamo, sull'arco di trionfo di
Milano. ‑ E ben sicuro che sia un uomo? Egli va, teso, e sopra le molle,
come la statua del Commendatore, e lo spettro di Banco ‑ per me, ciò che
mi fa paura è quella maschera fresca e color rosa, nella sua spaventevole
immobilità ‑Un essere simile, non avrà evidentemente mai rimorsi. Egli
commette i delitti con coscienza; l'ipocrisia inesorabile è visibilmente
scritta su quel volto petrificato, non è un uomo non è una maschera, è il muro
di pietra dello Spielberg, meno immobile e meno muto è il carcere, ove per
spezzare il cuore degli eroi dell'Italia, gli costringeva per la fame, a far la
calza, come le donne, e ciò, nell'interesse del loro miglioramento, e come rimedio per la loro anima.
Questa è la risposta invariabile che egli
dava alla sorella d'uno de' prigionieri, che ogni anno faceva invano il lungo
viaggio di Vienna ed andava a piangere a' suoi piedi. »
Ecco il nemico della Francia ‑ ed ecco,
aggiungeremo noi, il fedele alleato di Carolina e di Ferdinando, che, in alcune
occasioni, noi lo vedremo poi, sarà tanto implacabile nemico della Francia.,
quanto è meno corrivo e più prudente del suo zio e della sua zia di Napoli.
Nell'aprile, malgrado la morte di Gustavo
III, di cui siam per parlare fra poco, egli dà ordine al suo generale Hoenlohee
d'intendersela col duca di Brunswik, generalissimo dell'esercito prussiano. Per
ordine suo, o piuttosto sotto la sua dettatura, il suo ministro il Conte di
Cobentzel, scrive insieme al vecchio Kaunitz una nota breve e severa, nella
quale intima alla Francia l'ultimatum dell'Austria.
Quest'ultimatum è :
1. di mantenere i diritti dei principi
tedeschi, che aveano possessioni nel Regno di Francia, o, in altri termini,
riconoscere l'alto dominio dell'imperatore in mezzo a' nostri dipartimenti.
2. di restituire Avignone, la grande strada
da Marsiglia a Parigi, perchè si potesse, quanto ne venisse la volontà
smembrare la Provenza, e ridurla siccome era prima di Luigi XI, e farne, forse
chi sa? come a' tempi di Carlo e di Giovanna d'Angiò., un'appendice del Regno
delle Due Sicilie.
3.di ristabilire infine, la Monarchia siccome
era il 23 giugno 1789, e di riorganare di nuovo, come ordini, la nobiltà e il
Clero.
« In verità, dice Domouriez nel suo rapporto
all'Assemblea nazionale che pure egli scriveva nell'esilio, quando il Gabinetto
di Vienna avesse dormito 33 mesi. Dopo la seduta del Giugno 1789 ; quando non
avese saputa la presa della Bastiglia, nè tutto ciò che n'è venuto dopo, non
avrebbe fatte proposizioni più strane, né più incoerenti con la marcia
invincibile della Rivoluzione.
Noi abbiam fatto cenno dell'assassinio di
Gustavo III, promettendo di parlar di questo assassinio, che era un gran motivo
di turbamento per la coalizione.
Sull'esercito vi era poco da fidarsi. Esso
era forte di 24.000 uomini circa, metà napoletani e siciliani, metà stranieri,
cioè Svizzeri, Bavaresi, Croati. Era mal composto, come sono tutti gli eserciti
ne' quali i semplici soldati non possono ottenere avanzamento, e che si
completava con galeotti e malfattori ; mal disciplinato, perchè nella sua vita
d'ozio, il soldato si deprava e riguarda, come una superiorità morale, il
diritto concedutogli di portare le armi, spesso, molto mal collocate nelle sue
mani, supponendo che queste armi gli sien state date per la difesa de' suoi
compatrioti. Non vi era nell'esercito nè l'abitudine, nè scienza militare.
Gli istruttori, che successivamente eransi
fatti venire di Austria e di Francia, non avean potuto far nulla di buono. Il
sig. de Pomereuil solo aveva bene ordinata la artiglieria, ma gli arsenali
erano male approvvigionati, ma si mancava d'arme, ma l'amministrazione della
guerra, siccome tutte le altre amministrazioni, riboccava di ladri, ed era
piena di soprusi; ma le fortezze, rimaste, per ben quarant'anni senza
riparazioni, rovinavano.
La marina era, è d'uopo dirlo, in uno stato
meno deplorabile, il governo avea tre vascelli di alto bordo sette o otto
fregate, dieci o dodici corvette in tutto, trenta bastimenti da guerra
comandati da buoni uffiziali, e montati da abili e coraggiosi marinari. E lungo
tempo che noi abbiam detto dover essere l'Italia Meridionale una potenza
marittima, e non già militare, errore nel quale sono caduti tutti i suoi Re.
Per quanto la sua marina alimentata dai suoi
mille porti Napoli, Baja, Ischia, Gaeta, Procida Ponza, Ventotene,
Castellammare, Salerno, Palermo, Messina, Siracusa, Reggio, Marsala, Taranto,
Brindisi, Manfredonia, e che so io? può darle bravi arditi ed avventurosi
marinari, altrettanto le sue città, molli, effeminate, delle spiagge, delle sue
montagne, scoscese ed inaccessibili, le danno una cattiva razza militare.
Il tesoro era press'a poco ruinato. Due
viaggi pomposi, uno in Ttalia, l'altro a Vienna, una corte prodiga, e per se
stessa e per i favori accordati da lei.
Un terremoto spaventevole che avea nello
stesso tempo richiesto imperiosamente la munificenza reale ed impedito
l'incasso delle imposizioni, due matrimoni e sponsali nella famiglia reale,
l'aveano posto in un tale stato di penuria, che bastava appena ai bisogni in
tempo di pace, e non potrebbe certamente far fronte ai bisogni della guerra.
Bisognava far poco assegno su nuove
imposizioni. Il popolo napolitano, popolo di abitudini, paga le antiche tasse,
senza mormorare, ma è essenzialmente ribelle alle tasse nuove. La ribellione di
Masaniello, vel ricordate, fu la conseguenza d'una nuova imposizione sulla
frutta. D'altronde, i poveri soccombevano già sotto il peso delle imposte
esistenti, ed i ricchi troverebbero il modo di sottrarsi alle nuove tasse,
siccome avean trovato il modo di sottrarsi allora alle antiche.
Le arti erano in decadenza, l'industria
ammiserita, il commercio nullo, e mal compreso e, per conseguenza, male
promosso ; tale era lo stato del Regno delle Due Sicilie, nel momento in cui il
suo Re e la sua Regina avean preso la grave risoluzione di fare una guerra
d'esterminio alla Francia, o piuttosto alla rivoluzione.
Più tardi noi toglieremo ad imprestito, da
uno dei francesi nostri Marescialli di Francia, che avea vissuto nell'intimità
del Re e della Regina, il quadro di ciò che era la corte delle Due Sicilie in
un tempo molto prossimo a noi, cioè nel 1797.
Infatti, Gustavo III, questo Re pigmeo di
Svezia che avea per massima che un regno non potea stabilirsi che con una grande guerra, e che avea
illustrato il suo colle sue disfatte toccate dalla Russia che in occasione
della fuga della famiglia Reale aveva offerta la sua spada alla Regina, e
l'aspettava à Montmedy, per dichiararsi suo cavaliere, Gustavo III, in fine, il
Generalissimo probabile della futura coalizione, era stato assassinato il 17 marzo 1792, in un ballo in maschera.
Siccome questo assassinio, o piuttosto
quest'omicidio, mal conosciuto nella Storia, mal raccontato dagli storici, che
qualche volta, non osano sollevare certi veli, è stato attribuito a' Giacobini,
bisogna che i nostri lettori ci permettano d'entrare, relativamente a questo
omicidio, in qualche particolarità.
Da lungo tempo già, siccome in tutti i paesi
dove non è terzo Stato, che goda de' suoi diritti, esisteva in Isvezia una
lotta fra la prerogativa regia e l'aristocrazia: ammogliato, nel 1766, a Sofia Maddalena di Danimarca, il
Re non aveva eredi della sua corona nel 1776.
Ora, la nobiltà di Svezia attribuiva la sterilità della Regina al disgusto
che Gustavo III, siccome Enrico III, provava per le donne. Dippiù, Gustavo III,
come l'ultimo de' Valois, avea de' favoriti, la cui famigliarità, faceva correre
su lui strane voci. I Signori decisero per conseguenza un bel giorno, che si
farebbero al Re delle osservazioni sulla sterilità della Regina, e ch'egli
sarebbe supplicato di far cessare questa sterilità con tutti i mezzi che
fossero in poter suo.
Gustavo promise di provvedere.
Allora, si assicura, che accadde una cosa,
alla quale nessuno si attendeva[*1].
La sera stessa del giorno, in cui il Re avea
data la sua parola ai Signori svedesi, Gustavo prese il suo scudiere, Monck, lo
condusse al letto della Regina, e, là, innanzi a quella povera donna, confusa
pel rossore, gli dichiarò il servigio che richiedeva da lui, ed usci, chiudendolo
nella camera della Regina.
Il servigio non dovette far molta pena a
Monck, che era innamorato della Regina, ancora giovane, e sempre bella, senza
aver mai osato spiegarsi.
Qualche tempo dopo fu proclamata la
gravidanza, e la Regina si sgravò d'un principe che dopo la morte di di suo
padre regnò sotto il nome di Gustavo IV.
Egli è quello stesso di cui gli Stati di
Svezia proclamarono la decadenza nel 1809, decadenza che fu dovuta
particolarmente al dubbio sparso sulla sua nascita.
Io ho conosciuto molto, dal'1839 al 1842, suo
figlio, a Firenze, ove viaggiava sotto il nome di Conte di Vasa.
Nel 1790, Gustavo III, allora nell'età di 24
anni, era venuto in Francia, sotto il nome di Conte Haga, egli vi avea visitato
una specie di indovina, che, nelle sue estasi magnetiche prediceva l'avvenire; ‑
appena gli ebbe toccato la mano, lo esortò a badare all'anno 1792, annunziandogli
che nel corso di quell'anno egli dovea correre pericolo di morte per un colpo
d'arma da fuoco.
Gustavo era coraggioso ; egli avea più volte
esposta la sua persona, raccontò spesso la predizione, ridendone, ma mai non se
ne dette pensiero.
Verso il finire del 1791, ed il principiare
dell'anno 1792, il Re avea fatto un colpo di stato contro la nobiltà,
costringendo la Dieta ad accettare l'atto d'unione e di sicurezza. Questo colpo
di stato gli dava il diritto di pace e di guerra.
Egli avea bisogno di questo diritto per far
la guerra alla Francia, i Signori, che componevano la Dieta, assendo quasi
tutti favorevoli alla rivoluzione francese, non avrebbe permesso che Gustavo III
la combattesse.
Dopo questa dieta, nella quale la nobiltà
avea perduto il resto dei suoi privilegi, si riannodò una congiura che era già
stata tramata. I principali congiurati furono: Ankastrom, il conte di Ribing,
il conte di Horn, il barone d'Erens‑waerd ed il colonnello Lilienhom.
Ankastrom e Ribing, oltre le doglianze
generali che alzava la nobiltà contro il Re, aveano motivi particolari di odio.
Ankastrorn avea perduto, a cagione
dell'intervento del Re, una causa, che gli avea tolta la metà della sua
ricchezza.
Il conte di Ribing, fidanzato ad una cugina
che adorava, credendo nel 1791 di ritornare a Stocolm per sposarla avea saputo,
nel giungervi, che, per ordine sovrano, si era maritata ad un favorito di
Gustavo III: il conte di Essen. Egli avea dapprima sfidato il Conte d'Essen a
duello; gli avea dato un colpo di spada in mezzo al petto : poi sapendo che si
ordiva una congiura contro il Re, avea chiesto di esservi ammesso.
Per gli altri, l'uccisione del Re era un
affare di casta e niente più.
Si risolvette di compiere l'omicidio nella
notte del 15 al 16 marzo 1792.
Due giorni prima, il Re ricevette una lettera
anonima, che gli, svelava il complotto, e gli annunziava che sarebbe
assassinato nella notte di due giorni dopo.
‑ Ah ! disse Gustavo ‑ infatti,
così è stato predetto ventidue anni fa, al Conte di Haga, ma egli non prestò
maggior fede allora a questa predizione di quello che ve ne presta ora il Re di
Svezia.
E alzando le spalle strinse il biglietto
nelle sue mani e lo gittò nel caminetto ove il fuoco lo divorò.
Nondimeno, nella notte del 14 al 15 si
assicura che Gustavo, travestito, andò a consultare la famosa Sibilla
Orfredson; la quale, confermando la predizione della sonnambula francese e
l'avviso della lettera anonima, gli dichiarò che egli dovea essere assassinato
prima che fosser decorsi tre giorni.
Sia per vero coraggio, sia per incredulità,
Gustavo non volle cangiar nulla alla festa già convenuta nè prendere alcuna
precauzione, e, nella serata del giorno 15, andò al ballo in maschera.
Egli vi entrava alle 11 di sera.
Il giorno innanzi avean tirato a sorte, per
sapere chi dei congiurati doveva uccidere il Re. Gustavo era talmente odiato
dalla nobiltà che ciascuno reclamava l'onore di dargli il colpo mortale.
La sorte avea designato Ankastrom.
Il Conte di Ribing, allora, gli offrì di
fargli una donazione, non solo dei beni che possedeva in quel momento, ma
ancora di quelli che potessero ricadergli un giorno, se volesse cedergli il
posto.
Ankastrom ricusò.
Venuto il momento, siccome parecchi signori
portavano lo stesso abito da maschera del Re, ad Ankastrom venne il pensiero
che poteva ingannarsi, e tirare su qualcun altro invece del Re, ma il Conte di
Horn lo rassicurò, dicendogli:
Tira francamente su quello cui dirò:
Buon giorno! bella
maschera!
quello sarà il Re.
Eran le due dopo mezzanotte, Gustavo
passeggiava, appoggiandosi al braccio di quello stesso conte di Essen, che egli
avea disposato alla fidanzata del conte di Ribing, allorchè il conte di Horn
avvicinandosi a lui disse:
‑ Buon giorno, bella maschera!
Nel punto medesimo uno scoppio sordo si fè
sentire, e Gustavo barcollò dicendo:
‑ Son morto !
Meno quelli che circondavano il Re, nessuno
s'era accorto del fatto. La pistola era stata nascosta in un manicotto. Fra il
rumore della conversazione e gli accordi dell'orchestra, il rumore era andato
perduto.
Il fumo era rimasto sepolto nel manicotto.
Intanto, al grido del Re, e nel vederlo
cadere morente nelle braccia del conte di Essen, tutti accorsero. Nel movimento
che ne risultò, fu facile ad Ankastrom di allontanarsi dal Re ed anche di
uscire dalla sala, ma, nel tragitto lasciò cadere la pistola.
La pistola fu raccolta calda e fumante
ancora.
L'indimani tutti gli armaiuoli di Stokolm
furono interrogati. Uno di loro riconobbe d'aver venduta la pistola ad
Ankastrom.
Un'ora dopo, Ankastrom fu arrestato in casa
sua, e fu nominata una commissione speciale per giudicarlo.
Egli confessò il delitto, ma glorificandolo. I
suoi complici,per quante promesse e per quante minacce gli fossero fatte,
ricusò di svelarli.
Il processo fu condotto lentamente. Si
sperava sempre che Ankastrom parlerebbe. In fine, il 29 Aprile 1792, cioè 44
giorni dopo l'assassinio, ei fu condannato.
La sentenza portava che egli sarebbe battuto
con verghe per tre giorni; poi, decollato.
Malgrado la lunghezza e l'ignominia del
supplizio Ankastrom conservò la sua fermezza fino all'ultimo momento.
Trascinato al supplizio in una carretta, volse i suoi sguardi perfettamente
tranquilli su quelle migliaia di spettatori, accaltatisi intorno al patibolo.
Giunto sulla piattaforma domandò pochi momenti per riconciliarsi con Dio. Gli
furono accordati. Si mise in ginocchio, fè la sua preghiera ed abbandonò la
testa al carnefice. Non aveva ancora compiuto 33 anni.
Il Re di Svezia sopravvisse 14 giorni alla
sua ferita.
Questa morte che, se fosse vissuto Leopoldo,
avrebbe forse messo ostacolo alla coalizione, parve invece darle nuova forza.
D'altronde, il governo Prussiano sembrava
anche più premuroso dell' Austria di venire alle mani colla Francia. La
Prussia, sotto un governo filosofico e liberale, che avea dapprima incuorata la
resistenza turca, e la rivoluzione polacca, e che schiacciava la libertà della
Olanda, era in fondo aspra, arida, inquieta, senz'altro pensiero che quello
d'ingrandirsi, siccome stava facendo da un mezzo secolo, ed allungando i suoi
artigli, per pescar sempre qualche cosa nell'acqua torbida delle Rivoluzioni.
Le milizie della coalizione, a poco a poco,
si avvicinavano alla Francia.
Al centro delle nuvole che recavano il
folgore delle potenze alleate, nella Vestfalia e sul Reno, i Prussiani si
mettevano a scaglioni; alle due ali gli Austriaci combinavano con essi i loro
movimenti, aumentando i loro soldati ne' Paesi Bassi, facendosi chiamare dal
Vescovo di Basilea, attraversando i cantoni svizzeri, e venendo a metter
guarnigione nel Poventry, cioè ad una delle porte della Francia, alla porta
della Franca Contea. Ma la Francia non avea veduto tutti questi movimenti,
senza capire il pericolo che correva; e, il 26 marzo 1792, nel momento stesso
in cui Gustavo agonizzava sul suo letto di morte, il seguente avviso era dato ai
Giacobini: « Facendo lo spoglio dei registri dei dipartimenti, si trovan già
iscritti più di 600.000 cittadini, per marciare contro il nemico ». Il
ministero francese era girondino. Claviéres aveva le finanze, Roland l'interno,
e Dumouriez gli affari esteri. Gli altri tre ministri: Duranton alla Giustizia,
de Grave alla guerra e Laporte alla marina, non aveano nessuna importanza.
Diciamo qualche cosa dell'uomo che alle
battaglie di Valmy e di Jemmapes salvò la libertà della Francia, e con essa la
libertà dell'Europa.
Diciamo qualche parole di Dumouriez.
Dumouriez, piuttosto piccolo di statura,
quantunque nato in Piccardia, manifestava la sua origine provenzale colla
vivacità del suo sguardo, con la sua carnagione bruna, la sua testa piena di
spirito. Egli avea 56 anni, ma una grande attività, un gestire nervoso, una
parola rapida, lo faceano a prima vista comparire più giovane di dieci anni.
Egli avea sempre vissuto nell'intrigo, e, uomo di spirito, piuttostochè di
genio, avea veduto, ne' piccoli espedienti la risorsa contro le grandi
catastrofi.
Del resto, bravo fino alla temerità, soldato
dall'età di 19 anni, preso a colpi di sciabola per non aver voluto ascondersi
un giorno che s'era trovato a piedi, circondato da cinque o sei soldati di
cavalleria nemica: gentiluomo, ma di quella nobiltà di provincia che giungeva
così difficilmente alla Corte, avea passata la prima parte della sua vita, metà
sotto le armi, metà perduto nella ombra di quella diplomazia occulta che Luigi
XV man teneva accanto alla diplomazia, fatta alla luce del giorno. Poi sotto
Luigi XVI, si era rialzato, e s'era ingrandito, consacrandosi interamente ad
una delle opere più nazionali, che sien state fatte sotto quel Regno cioè al
porto di Cherbourg. Alla fine era pervenuto, ma quando fu pervenuto _ali
mancava, per sostenersi, (ci perdoni questa parola a proposito d'un uomo
politico), gli mancava la coscienza.
Il 20 aprile 1792, Doumouriez, che vedeva
nella guerra, oltre una necessità politica, il modo di soddisfare la sua
ambizione, entrò, insieme col Re, all'assemblea nazionale, ed in un lungo e
luminoso rapporto, dimostrò la necessità in cui era la Francia, di riguardarsi
come in istato di guerra con l'Austria.
Il Re dichiarò che egli adottava questa
determinazione conformemente al voto dell'Assemblea, e preparossi formalmente
alla guerra.
Era quella la voce della Francia, non si
poteva non tenerne conto.
Un deputato fece osservare che si dichiarava
la guerra non già all'Austria ma al tutto il mondo,
Ma Merlin de Thionville, esclamò:
‑ V'ingannate! noi dichiariamo la pace
al mondo, e la guerra ai Re.
La parola era vera, perciò ebbe un eco
immediato, l'Assemblea, tutta quanta, meno sei membri che rimasero seduti, si
alzò entusiasta, e con uno scoppio d’applausi votò la guerra all'Austria.
Questa iniziativa della Francia, questo grido
unanime, innalzato dalla Nazione se non la più militare del mondo, la più
guerriera dell'Europa, spaventò il Re Ferdinando.
La Regina il sentì vacillare fra le sue mani,
e risolvette di rendergli il coraggio per mezzo del terrore.
Una mattina il duca Riario Sforza,
ciambellano di servizio, trovò senza che si sapesse chi ve l'avea piantato, un
pugnale confitto nella porta della stanza da letto del Re, con queste parole
scritte intorno.
TUTTE LE MODE VENGON DI FRANCIA
Questa dimostrazione che corrispondeva colla
morte di Gustavo III, attribuita come abbiam detto, molto ingiustamente ai Giacobini,
determinò Ferdinando a sollecitare i preparativi di guerra, ed a sorvegliare
severamente l'interno del suo reame, nel quale le mode francesi, come lo
vedremo ben presto, cominciavano ad introdursi, per preservare il suo trono
dalle rivoluzioni e la sua persona dai pugnali.
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[*1] Posso
affermare l'autenticità di questi particolari, avendoli copiati nelle memorie
manoscritte del Conte di Ribiug, uno dei tre omicidi del Re, come si vedrà fra
poco.