I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro II 

 

 

CAPITOLO V.

 

 

Verso questo tempo, per rendere più facile il suo compito, alla polizia, che stava per avere la più gran parte nel Governo, s'incise su lastre di marmo il nome delle strade, e sopra le porte i numeri delle case.

Fu Carolina, che, più particolarmente accoppiando la curiosità della donna coi timori della Regina, organizzava la Polizia. Ella vi chiamava, non solamente, i soliti agenti di questa istituzione, la quale appena è scusata dalla necessità e che non ha ragione di esistere, se non quando il bene che produce, fa dimenticare il male che può fare, ma ancora i personaggi principali del reame. Il Principe di Castelcicala, ambasciatore a Londra, richiamato a Napoli, fu accusato di esser stato uno de' primi a rispondere all'invito del reale. Carolina, diceasi, avea pronunziate queste proprie parole.

« Darò tali ricompense ai delatori, che distruggerò il pregiudizio che fa riguardare il mestiere di spia come un mestiere infame. »

La Regina s'ingannava. A Napoli come altrove, si può abbassare un conte, un marchese, un duca, un principe stesso al mestiere di spia, ma non s'innalzerà mai una spia all'altezza d'un uomo onesto.

Infatti per raggiungere questo scopo impossibile, si assicura che Carolina ricevesse gli affiliati in Palazzo. Questi ricevimenti si facean la notte ed in una camera che si chiamava la sala oscura, perchè, per nascondere l'onta, de' delatori, senza dubbio, quella sala era appena illuminata.

« Tutte queste cose, dice Cuoco, si raccontavano, vere o false che fossero, forse vere nella minima parte, false nella più grande, forse pure, inventate dall'odio; ma, vere o false, queste cose son sempre dannose, quando molti le raccontano, quando molti credono, perchè rendono i cattivi più audaci, i buoni più timidi. Se non false totalmente, quei ministri meritano una doppia ese‑ crazione, la cui condotta dà occasione di fare simili racconti o dà ragione di crederli. »

Questi sospetti della Regina, queste investigazioni degli individui, questo spionaggio delle famiglie, diventarono più inquieti e più dolorosi, di mano in mano che si svolgevano in Francia gli avvenimenti che reagivano sull'universo, e particolarmente sulla Corte di Napoli.

Il giorno in cui la Francia ha dichiarato la guerra all'Austria, vi erano quattro partiti principali in Francia :

I realisti assoluti, i realisti costituzionali, i repubblicani, gli anarchici.

I realisti assoluti non hanno altro scopo in Francia che la Regina e la sua Camarilla. Allo straniero son diretti dal conte d'Artois, dal principe di Condè, e dal duca Carlo di Lorena.

I capi del partito costituzionale sono: La Fayette, Bailly, Barnarve, Lameth, Dupont.

I capi del partito repubblicano sono: Brissot, Ver‑ gniaud, Guadet, Pétion, Roland, Isnard, Ducos, Condorcet, Couthon.

I capi degli anarchici sono: Marat, Danton, Camille Desmoulis, Hebert, Le Gedre, Santerro, Fabre d'Eglantine, Collot d'Herbois.

Robespierre resta nell'ombra; egli è quasi solo ad opporsi alla guerra: la guerra fa cambiar posto alla popolarità.

Il 28 Aprile le ostilità cominciano: siccome la Francia ha dichiarato la guerra, la Francia attaccherà.

Bisognava, in verita, che la Francia avesse avuto qualche rivelazione nell'avvenire, per gettarsi con un esercito disorganizzato, indisciplinato, un terzo più debole dell'esercito nemico, sopra una massa di 200.000 uomini della migliore milizia dell'Europa.

E, da chi questo esercito era comandato? Da Lukner Rochambeau e La Fayette.

Rochambeau e La Fayette sono Generali improvvisati in America, senza teoria, senza pratica, senza genio militare.

Il vecchio Lukner non è conosciuto per altro, che per il male che ci ha fatto, come partigiano, nella guerra dei sette anni.

Il 28 a sera il generale Biron passa la frontiera, si impadronisce di Quievrain, e marcia su Mons.

Il 29, al mattino, Teobaldo Dillon, fratello di quell'Arturo Dillon, che è stato, dicesi, l'amante della Regina, va da Lilla a Tournay.

A Tournay, avanti il nemico, a Mons pure, senza vedere il nemico, si fa sentire lo stesso grido

Siamo traditi, Si salvi chi può!

Questo grido è stato messo dal Corpo dei Dragoni, corpo aristocratico se ve ne sono stati mai.

I Dragoni fuggono, e passano sul corpo de' fanti che essi mettono in isbaraglio.

Tutti questi fuggiaschi rientrano a Lilla furiosi d'aver fuggito, senza saper perchè, nè innanzi a chi. Era necessario che questo furore, che dovea ricadere sul nemico, piombasse intanto su qualcuno.

Piomberà sul disgraziato generale, che è stato preso per suo fratello Arturo Dillon ed è ucciso in un granaio.

Si viene a sapere alle Tuileries, a Berlino, ed a Vienna, a Torino ed a Napoli, la disfatta di Quièvrain.

A Napoli la gioia è grande: l'immaginazione di Carolina le fa vedere la Francia, vinta, anche prima della pugna.

Più la Francia è abbattuta, più il coraggio ritorna al Consiglio del Regno delle Due Sicilie.

I preparativi di guerra si raddoppiano, le persecuzioni all'interno si organizzano.

Si equipaggiano nuovi vascelli di linea, si fondono nuovi pezzi d'artiglieria, si fabbricano cassoni. Le manifatture d'armi da guerra lavorano notte e giorno. Gli artefici preparano le cariche de' cannoni e le cartucce, gli abiti, le scarpe, gli oggetti d'uniforme arrivano da tutte le parti del reame. Si completano i reggimenti co' volontari, e poichè i volontari tardavano, si prendono i mercenari, i vagabondi, i galeotti, si ricevono come soldati, tutti gli Svizzeri, tutti gli Albanesi, tutti i Dalmati che vogliono ingaggiarsi. Si prendono come capi tre principi stranieri: il principe di Assia Philipstadt, il principe di Wittemberg ed il principe di Sassonia: tutti e tre di sangue reale.

Su tutte le piazze pubbliche, i religiosi ed i monaci, gli uni per ordine, gli altri per entusiasmo, salgono su pulpiti improvvisati, sedie, tavole, colonne, predicano, a voce alta contro la Francia un odio che continuano ad istillare all'orecchio, nel confessionale. La controrivoluzione allunga, da ogni parte, le sue cento braccia armate contro la rivoluzione che ha già forse il suo germe negli spiriti, ma, che non ha ancora esistenza visibile di vero corpo.

Non importa: bisogna prevedere il momento in cui questa rivoluzione farà sentire il suo primo vagito. Questo mostro che si nutre dell'odio del despotismo, cresce presto. Se non si può colpire nel ventre della libertà sua madre, bisogna almeno soffocarlo nella culla.

A questo fine è stato stabilito in ogni rione della città, con accompagnamento di guardie e d'uffiziali subalterni un commissario di Polizia; e si pone alla testa di quell'Amministrazione, con l'antico titolo di Reggente della Vicaria il Cavaliere Luigi Medici.

Fermiamoci un momento a questo nome; è quello di un giovane intraprendente, destro, ambizioso, capace di tutto per pervenire, capace di tutto per mantenersi al potere. Egli pure è uno di quei pazienti e laboriosi figliuoli della Toscana, come Tanucci, e siccome quegli è stato il confidente, l'amico, l'alter ego di Carlo III e del giovane Ferdinando, cosi egli sarà l'alter ego, l'amico, il confidente del vecchio Ferdinando e del giovane Francesco.

E' uno di quei pazienti ostacoli che il cattivo genio dei popoli oppone al loro pregresso, e che fa il male sotto le apparenze dell'amore del bene.

Sessantadue seggi episcopali eran varanti, in tutta l'estensione del reame. Il re vi nomina i più violenti nemici della rivoluzione francese, e mentre egli festeggia e glorifica il clero, mentre rimette nelle sue mani l'istruzione pubblica, mentre colma di favori tutti quelli che portano un abito talare, di qualunque colore sia, proscrive i libri dei filosofi, proibisce e fa bruciare le opere di Filangieri, e circonda di spie Pagano, Cirillo, Conforti, Delfico, lumi del foro e della legislazione.

Napoli non s'accorge ancora delle sventure che pesano su lei, ma le indovina, come s'indovina, alle nuvole che passano nel cielo e che nel passare oscurano il sole, che si prepara un temporale, il quale scoppierà forse nella notte vegnente. Una vaga ma vera inquietudine entra nelle case, 3'introduce nella famiglie, e Napoli, la città dell'allegria e de' canti giocondi, in cui i volti sorridono come l'azzurro del firmamento., si oscura, si attrista, e sembra coprirsi d'un velo, che diventa più fitto ogni giorno.

Si ha paura di qualche cosa incognita ma inevitabile.

Tutto ad un tratto un nuovo scroscio di fulmine si fa sentire dalla parte della Francia. Il popolo, che ha rovesciato la Bastiglia il 19 Luglio, che ha invaso Versailles il 5 e 6 ottobre, ha preso d'assalto le Tuileries il 10 agosto.

Ora perchè il popolo ha preso le Tuileries?

Perchè le Tuileries erano il focolare della controrivoluzione.

Apriamo le Memorie della signora Campan, la cameriera fedele di Maria Antonietta.

« Dal pianterreno, la Regina Maria Antonietta, che prevedeva qualche sommossa, e che stando allo stesso livello del cortile vi si trova troppo esposta, dal pian terreno la Regina è salita al primo piano.

« Essa vi ha la sua camera, posta fra l'appartamento del Re e quello del Delfino.

« Ordina che non si chiudano nè imposte nè persiane, perchè sian meno lunghe le sue lunghe notti insonni ».

Ascoltate la Signora Campan; è dessa che parla, e non noi.

« Verso la metà di una di quelle notti, la luna, quella malinconica visitatrice, rischiara la sua camera.

« Dormite voi, signora Campan? domanda la Regina.

« ‑ No, Maestà.

« ‑ Ebbene! fra un mese, quand'io rivedrò questa luna, nel punto del Cielo ove sta adesso, io sarò sciolta dalle mie catene, ed il Re sarà libero.

« Non è questa un'illusione, Signora?

« ‑ No! Tutti si muovono nello stesso tempo per liberarci. Io ho l'itinerario della marcia dei principi e del Re di Prussia.‑ tal giorno saranno a Lilla, tal giorno saranno a Verdun, tal altro giorno a Parigi.

« ‑ Ah! se il Re avesse toltanto un poco più di energia i

Ciò fa disperare l'ardente Maria Antonietta che ne ha troppa.

E, nondimeno aggiunge:

« ‑ Il Re non è codardo; egli ha un grandissimo coraggio passivo; ma è oppresso da una cattiva vergogna, da una diffidenza di sè stesso, che provviene dalla sua educazione e dalla sua indole; in quanto a me, io potrei bene operare e montare a cavallo; ma se io operassi sarebbe lo stesso che dare delle armi ai nemici del Re. Il grido contro l'Austriaca sarebbe generale in Francia. Se mi facessi vedere, annullerei il Re ».

Ecco precisamente la situazione delle Tuileries, ecco quali sono le speranze della Regina di Francia. Il nemico tal giorno a Lilla, tal giorno a Verdun, tal giorno a Parigi.

E, pochi giorni dopo questa conversazione notturna, la Regina, che non osa tenerlo, affida alla signora Canipan un portafoglio, che racchiude venti lettere del Signor Conte di Provenza, diciannove lettere del signor Conte d'Artois, diciassette della principessa Adelaide, diciotto della principessa Vittoria, e tutta una corrispondenza di Mirabeau, unita ad un piano di partenza.

Cioè, tutta la sua corrispondenza co' nemici più accaniti della Francia e con l'emigrazione che s'avvicina a mano armata.

Il popolo vede tutto ciò, e quel che non vede, l'indovina.

Brissot si fa l'interprete del popolo.

Il venti luglio, egli esclama dalla tribuna dell'Assemblea Nazionale.

« ‑ Il pericolo nel quale siamo, è il più straordinario che si sia mai veduto ne' secoli passati. La patria è in pericolo. Non ch'essa manchi di soldati, non già che questi soldati sieno poco coraggiosi, o, che le sue frontiere sien poco FORTIFICATE o le sue risorse poco abbondanti, no! essa è in pericolo, perchè si paralizzano le sue forze; e chi le paralizza? Un sol uomo, quell'istesso che la Costituzione ha fatto suo Capo, e che perfidi Consiglieri han fatto suo nemico. Vi si dice di temere l'Imperatore d'Austria ed il Re di Prussia, ed io vi dico che la forza principale di questi sta alla Corte, e che là bisogna vincerli prima di tutto. Vi è stato detto di agravare la mano sui preti refrattari in tutto il reame, ed io vi dico che aggravandola sulla corte delle Tuileries, si aggrava, con un colpo solo, su tutti quei preti. Vi si dice di perseguitare tutti gl'intriganti, tutti  i faziosi, tutti i cospiratori, ed io vi dico che tutti costoro spariranno se voi colpite il Gabinetto dalle Tuileries, poichè esso è punto dove tutti le file fanno capo, ove si tramano tutte le manovre, donde partono tutte le impulsioni. La Nazione è lo zimbello di quel Gabinetto.

« Ecco il segreto della nostra posizione, ecco la sorgente del male, ecco dove bisogna portare il rimedio »_

E, come l'abbiam veduto, Brissot diceva la verità.

Il Re correva un grosso rischio giuocando a questo giuoco.

Vi è nella costituzione che Luigi XVI ha giurata, l'articolo seguente :

« Se il Re si mettesse alla testa d'un esercito, e ne dirigesse la forza contro la Nazione, o, se non si opponesse con un atto formale ad una intrapresa di simil natura, che si facesse il suo nome, sarebbe riguardato come se avesse rinunziato alla dignità ed al potere di Re. »

In questa posizione lo pone la conversazione della Regina con la signora Campan, e l'esistenza di quel portafoglio riempito di lettere degli emigrati.

Il 22 luglio, si proclama la Patria in pericolo. La mattina, alle 6, i cannoni incominciarono a trarre: d'ora in ora tuonano. Un solo cannone dell'arsenale risponde, e fa eco.

Le 6 legioni della Guardia Nazionale si uniscono intorno al Palazzo di Città.

Due corteggi portano il proclama a Parigi.

Ciascun di loro ha, alla sua testa, un reggimento di Cavalleria, con trombe, tamburi, fanfare, e se  i cannoni.

Quattro uscieri marciano alla testa portando quattro insegne sopra ognuna delle quali sta scritta una parola sacra.

Queste quattro parole sono

« Libertà Eguaglianza Costituzione Patria

Poi vengono dodici ufficiali municipali con le loro sciarpe.

Dietro gli ufficiali municipali, una guardia nazionale a cavallo porterà una gran bandiera tricolore, con queste parole.

« Cittadini, la Patria è in pericolo!

Infine, seguono sei altri cannoni e un distaccamento della Guardia Nazionale. Il corteggio termina colla cavalleria.

Si comprende l'effetto che produce percorrendo le strade di Parigi.

Quand'anche il Genio stesso della Rivoluzione avesse dettato questo programma, non sarebbe stato più tetro e, più terribile.

Il 26, cioè quattro giorni dopo, apparisce il manifesto del duca di Brunswich. Esso porta la data di Coblentz ma la sua vera data è dalle Tuileries.

Questo manifesto è oltraggioso per la Francia ed imprudente per il Re.

 Ogni Francese è colpevole: ogni città o villaggio che resisterà, sarà demolito o bruciato.

Egli aggiunge:

« Le LL . MM. l'Imperatore d'Austria ed il Re di Prussia rendono responsabili, sulla loro testa, di tutti gli avvenimenti, per esser giudicati militarmente, senza speranza di perdono tutti i membri dell'Assemblea, del dipartimento, del distretto, della municipalità, i giudici di pace, le guardie nazionali, e chiunque altro. Se si facesse la menoma violenza al Re, se ne trarrebbe una vendetta memorabile, abbandonando Parigi ad una invasione militare, ad una distruzione completa ».

Come se fosse stato conosciuto questo manifesto che pur non doveva arrivare a Parigi che due giorni dopo cioè nella notte del 25 26, un Comitato d'insurrezione si riunisce nel quale si decreta d'impadronirsi delle Tuileries., di portar via il Re, senza fargli alcun male, e di rinchiuderlo in Vincennes.

Si metterà in esecuzione questo progetto appena i federali di Marsiglia saran giunti a Parigi.

Per mettersi alla testa di questi uomini che attaccarono il Castello, il quale, come si sa, era in istato di difesa, il marsigliese Barbaroux scrive al suo compatriota Rebèqui:

‑ Mandami cinquecento uomini che sappiano morire.

E, l'indomani del giorno in cui ha ricevuto questa lettera, Rebèqui, manda i cinquecento uomini richiesti.

Su 500, duecento sessanta morranno.

Si parlava molto di attaccare le Tuileries; ma, non era cosa facile, il prendere le Tuileries: il 26 giugno, vi eran penetrati, ma per sorpresa, per iscalata. Ed un giovane tenente d'artiglieria, che, dalla terrazza verso il fiume, guardava il Re, che si facea vedere al balcone col berretto rosso sulla testa, avea mormorato fra i suoi denti :

Oh! se io avessi solamente 1.200 uomini e due cannoni, come farei presto a liberare quel povero Re da tutta questa canaglia!

Questo giovane uffiziale d'artiglieria era Napoleone Bonaparte, genio ancora sconosciuto, che un anno più tardi dovea farsi conoscere all'assedio di Tolone.

Così si esitava ad attaccare le Tuileries.

Il Deputato Grangeneuve, il quale teme che l'entusiasmo popolare si raffreddi, crede aver trovato un modo d'irritarlo.

Egli va a trovare il cappuccino Chabot.

‑ Senti, gli dice, io passeggerò questa sera lungo la Senna, accanto alle Tuileries; tu m'ucciderai con una pugnalata: domani, nel riconoscermi per un giacobino, si accuserà la Corte, si marcerà contro le Tuileries, e la Rivoluzione sarà fatta con lo spargimento del sangue d'un uomo solo.

Chabot accetta; dà la sua parola a Grangeneuve; ma la sera, gli manca il coraggio; Grangeneuve va solo al convegno; aspetta il suo uccisore fino alle due dopo la mezzanotte, e rientra a casa sua, disperando della salvezza della Patria ‑ ciò accadea l'8 agosto.

Che uomini ! !

La giornata del 9 passò nel dubbio e nell'incertezza.

Marat s'è abboccato co' Marsigliesi. Se il colpo fallisce eglino lo salveranno, travestito da carbonaio ,

Barbaroux non proverà neppure a fuggire. Se il colpo fallisce, egli ha un veleno.

Robespierre, sempre prudente, fino al momento in cui sarà obbligato ad esser temerario, non è avvertito del movimento. Si tien pronto però a profittarne.

Si abbocca con Barbaroux e Rebèqui.

Marat ha preveduto la sconfitta, Robespierre ha preveduto la vittoria.

In caso di buona riuscita, dice loro, non sarebbe ben fatto indicare anticipatamente un uomo che diriga la Rivoluzione?

Rebèqui capisce.

Nè dittatura nè Re, esclama egli.

Ed esce con Barbaroux, lasciando Robespierre, che va a nascondersi, per non riapparire più fino al 13.

La Corte sente avvicinarsi l! pericolo, e continua a fortificarsi nell'interno del Castello.

Nella giornata del 9, la galleria del Louvre è barricata. Dei travi di quercia entrano per il ponte mobile e sono adoperati a fortificare le finestre.

Le forze che guardano le Tuileries si pongono sotto gli ordini di tre capi.

Gli svizzeri son comandati dal sig. Maillardot.

I gentiluomini dal signor d'Hervilly.

Le Guardie Nazionali realiste dal cittadino Mandat.

Un corpo di Guardia Nazionale, realista, collocato al palazzo di città, un altro, al Ponte nuovo, lasceranno passare i faziosi; poi, mentre gli Svizzeri li attaccheranno di fronte, taglieran loro la ritirata e li attaccheranno alle spalle.

Vediamo che cosa accadeva nel Castello delle Tuileries nella notte dal 9 al 10 agosto.

Vedremo ben presto ciò che accadrà al palazzo Reale di Napoli, in una occasione presso a poco simile.

La notte era bella, ed illuminata da un dolce chiarore.

Ad un balcone dalle Tuileries, due donne, simili a due fantasime, piangevano.

Queste due donne erano: la Regina e la principessa Elisabetta. Si sentiva la campana a martello, ed ogni rintocco aveva il suo eco nel loro cuore. Il Re venne a dir loro che gli attruppamenti si formavano lentamente e che i sobborghi sembravano addormentati. Ciò diè un pò di coraggio alle due principesse : e mentre gli Svizzeri si mettevano tacitamente in ordine di battaglia nel cortile, esse andarono a riposare bell'e vestite, in un gabinetto de' mezzanini. La Regina volle allora condurre il Re con lei per fargli indossare un corpetto plastronnè.

L'avea fatto la signora Campan; ma egli ricusò.

Poi lasciò le due donne per andarsi a rinchiudere col suo confessore.

Un uffiziale dello Stato Maggiore, che avea comunicato al Re un piano di difesa fatto dal generale Viosmenil, dirigendosi alla Regina ed alla principessa,

‑ Signore, disse loro, mettete nelle vostre tasche quanto potrete d'oro e di brillanti. Il pericolo è inevitabile, ed i nostri mezzi di difesa sono unicamente nel vigore del Re. Vostra Maestà sa, meglio di chiunque altro ciò che possiamo aspettarci da lui.

Le due principesse procurarono di addormirsi; ma, riuscendo ciò impossibile, chiamarono la signora Campan facendole segno di sedere ai loro piedi. Appena la signora Campan aveva obbedito si sentì un colpo di fucile nel Cortile.

‑ Ahimè! disse la Regina alzandosi, ecco il primo colpo di fucile. Sventuratamente non sarà l'ultimo. Saliamo presso il Re.

Trovarono il Re bastantemente tranquillo. Un uomo s'era offerto di sedurre Pétion mediante 200,000 franchi, e Danton mediante 100,000.

L'uomo avea ricevuto i 300,000 franchi, ed era ritornato, dicendo al Re che l'affare era fatto, che Pétion avea ricevuto centomila, e Danton 50,000 franchi a conto.

Pétion chiamato dal Re doveva, allo spuntar del giorno, venire al Castello, ed, in prova di accordo, tenere per un minuto secondo, il suo indice sull' occhio destro.

Danton dovea restarsene a casa. La sua inerzia sola era stimata centomila franchi.

Se Petion mancava alla sua promessa, sarebbe stato ritenuto Come ostaggio.

Da ciò proveniva la tranquillità del Re.

Ma in questo frattempo giunse una terribile notizia.

La quistione della decadenza del Re era stata posta innanzi le Sezioni, e 47 Sezioni sopra 48, avean Votato la decadenza.

Mezz'ora dopo rnezzanotte fu annunziato Pétion.

Il Re ordinò che s'introduc esse.

Ma, nell'anticamera, trovò il comandante della Guardia Nazionale, Mandat.

Egli incominciava una viva discussione con lui, sul numero delle cartucce che erano state distribuite alla Guardia Nazionale, allorchè un usciere gridò:

‑ Il Re aspetta !

Si aprì, Pétion passò.

Nello stesso tempo, Mandat era chiamato al Palazzo di Città, per rendervi conto de' provvedimenti presi da lui per la sicurezza di Parigi.

Non vi era più modo per Mandat di non andare al palazzo di Città; siccome non vi aveva modo per Pétion di non andare alle Tuileries.

Il Re parlava a Pétion come si parla ad un uomo comprato. Pétion non ne capiva nulla; spalancava gli occhi, ma non metteva punto l'indice al suo occhio.

Il Re cominciava a credere che un furbo scroccone avesse, almeno in quanto a Pétion, messo nella sua tasca i duecentomila franchi.

Rimaneva la risorsa di ritenere Pétion in ostaggio.

Non vi allontanate, Signore, disse il Re; ho da ragionare con voi.

Pétion sentiva che era prigioniero.

Per fortuna, avea preveduto questo caso, e ne avea prevenuto l'Assemblea, che s'era dichiarata in permanenza.

Un usciere dell'Assemblea venne alle Tuileries, penetrò fino alla camera del re ed annunzò a Pétion che era richiesto alla sbarra.

L'usciere cammina avanti, e nessuno non osa impedirgli la strada.

Un momento dopo si viene a dire al Re che Mandat il comandante della guardia nazionale era stato ucciso sui gradini del Palazzo di Città e che il fabbricante di birra Santerre era stato nominato in vece sua.

Ciò non era mica lo stesso.

Mandat era un amico privato; Santerre un nemico accanito.

Un momento dopo, si venne a dire che si batteva la generale ne' sobborghi.

Era il nuovo generale che prendeva possesso delle sue funzioni. A Mandat era sostituito il signor de la Chernaie.

La Regina uscì allora dalla camera del Re, pallida, abbattuta, assalita da' brividi, che le cagionava il rintocco della campana a martello, che facea fremere i cristalli delle Tuileries.

Essa avea gli occhi rossi, ed il rossore le scendea fino alla metà delle gote.

Le ultime notizie penetrando nella camera del Re, l'avean trovato in un assopimento nel quale avea cercato qualche forza contro la stanchezza.

Gli si diè il consiglio di farsi vedere ai difensori sì interni che esterni.

Vi son degli uomini che riescon male in tutto ciò che fanno nelle grandi circostanze.

Questa era la sventura di Luigi XVI.

Vestito con un abito pavonazzo, abito di lutto per i Re, egli avea conservato la sua pettinatura dei giorno innanzi: solamente si era coricato, come abbiam detto, e la sua pettinatura da una parte era completamente disfatta. Aggiungete a ciò degli occhi grossi, rossi, divenuti quasi ebeti; i muscoli della bocca tesi, ed agitati da movimenti involontarii, e si giudicherà il meschino effetto che produsse quello sventurato Re.

L'esposizione fu poco pittoresca; si sentirono alcune grida di Viva il Re; ma, nel cortile delle Tuileries, furon coperte dalle grida di Evviva la Nazione.

Poi, siccome i realisti persistevano:

‑ No, no, gridarono i patriotti, noi non riconosciamo altro padrone che la Nazione.

Il Re quasi supplichevole rispondeva loro:

‑ Si, figli miei, la Nazione ed il vostro Re che non fanno e non f aranno mai altro che un ente solo.

Era questa una disfatta prima del combattimento.

Il Re risalì nel suo appartamento, tutto affannato, entrò nella camera e si gittò sopra, una poltrona. Allora solamente, egli misurava l'abisso nel quale era per cadere; la Regina, che l'avea seguito nella rivista, restò in piedi: grosse lagrime cadevano silenziosamente sulle sue gote.

Essa s'inchinò verso la sig. Campan, che non avendo, ricevuto nessun ordine era rimasta nella camera .

‑ Tutto è perduto! le disse a voce bassa. Il Re non ha mostrato nessuna energia, e la sua presenza ha fatto più male che bene.

Infatti, un'ora dopo, il Re, non osando restare in mezzo a quelli che si eran riuniti per farsi uccidere per lui, seguiva il Consiglio di Roederer, sindaco del dipartimento che noi vedremo ricomparire a Napoli col titolo di delegato del Senato francese e di consigliere del Re Giuseppe, abbandonava i suoi difensori per andar a chiedere la protezione dell'assemblea.

Il Re lasciava al castello 930 Svizzeri, 300 gentiluomini e press'a poco altrettante guardie nazionali rimaste fedeli.

Solamente, partito il Re, tutti si sentivano abbandonati, cercando un capo, un centro, una voce, cui domandare gli ordini.

Il maggiore Durler, uomo eroico cercava come gli altri. Nel salire la, scala grande, trovò sull'ultimo scalino il sig. di Mailly, il quale gli annunziò che, nel lasciare il Castello, gliene avea lasciato il comando.

‑ Allora ‑ domandò il Signor Durler ‑ quali sono i voleri del Re?

‑ Di non lasciarvi sopraffare, disse il sig. di Mailly.

‑ Voi potete fidarvi a noi, rispose semplicemente il sig. Durler.

Ed andò a portare a' suoi compagni questi ordini che erano la loro sentenza di morte. Il comando rimaneva a lui, poichè il sig. Maillard, avea accompagnato il Re all'Assemblea.

Si produssero allora tre effetti ben diversi, fra gl'in‑ dividui che componevano la guarnigione.

Gli Svizzeri si misero in fila freddamente al loro posto, sotto gli ordini del Maggiore Durler. come uomini che abbian sottoscritta una cambiale col loro sangue, e che si tengan pronti a pagare alla scadenza.

Le Guardie Nazionali, meno disciplinate, ma quasi altrettanto risolute, fecero, nel prendere le loro disposizioni, più strepito e più disordine.

I Gentiluomini, sapendo che si trattava per loro d'un combattimento a morte, misero una specie di ebbrezza febbrile, trovarsi in contatto col popolo, questo vecchio nemico, questo atleta sempre vinto, ma come Anteo, diventando sempre più grande, come Anteo, riprendendo incessantemente nuove forze.

Sopra tutta la larghezza del Cortile, dagli scalini del vestibolo, innanzi al quale eran collocati cinque cannoni, fin alla porta del Carrousel, che quei cinque cannoni minacciavano, si estendevano due file di soldati, una composta di Guardia Nazionale, l'altra di Svizzeri. Queste due linee eran sostenute da una compagnia posta in ognuno de' piccoli fabbricati che estendevansi in quel tempo dalle Tuileries alla porta del Carrousel, le quali dovevano lasciare che gli aggressori si avanzassero e nel momento in cui i cannoni incominciavano a trarre, prenderli fra due fuochi, mentre da tutte le finestre il castello vomiterebbe la morte.

Era evidente che se nulla fosse cambiato a queste disposizioni, se lo stato morale de' soldati si sostenesse, il castello era imprendibile.

Così s'era dato l'ordine d'aprire ai Marsigliesi ‑ così si chiamavano tutti i federali ‑ perchè i 500 uomini che sapessero morire che Barbaroux avea chiesti a Rebequi e che questi avea condotto egli stesso, marciavano in capo a tutti.

Eglino sboccarono ben presto da tutte le entrate del Carrousel che danno dalla parte del Louvre; nondimeno siccome l'abbiam detto non era altro che l'avanguardia.

Quest'avanguardia tutta composta di Marsigliesi marciò direttamente verso la porta delle Tuilleries che dava adito al gran vestibolo e picchiò gridando che si aprisse.

Si sa che era stato dato l'ordine di lasciare entrare gli assalitori; un portinaio aprì dunque le due imposte e se ne fuggì precipitosamente.

I Marsigliesi giunti colà se pure non avessero voluto entrare vi sarebbero stati spinti dalle masse che li seguivano.

Eglino entrarono dunque in folla, in disordine con grande schiamazzo invitando gli Svizzeri ad unirsi a loro, mettendo i loro cappelli in cima a' fucili ed alle picche non facendo nessuna attenzione a quelle doppie fila di soldati che li guardavano passare rimanendo immobili e minacciosi, senza badare alle finestre delle baracche che stavano nel cortile nè a quelle del Castello tutte scintillanti di fucili, corsero non pensando punto che vi fosse un pericolo ovvero non curandosene se vi pensassero, fino al vestibolo che difendevano que' cinque cannoni pronti a vomitare la morte.

Alla bocca di quei cannoni si fermarono alla fine e guardarono innanzi a loro e d'intorno.

Tutto il vestibolo era pieno di svizzeri posti tu tre fila di profondità.

Un'altra fila di svizzeri stava sopra ogni scalino, posizione che dava la facilità a sei fila di soldati di far fuoco nello stesso tempo.

Ma il popolo di Parigi, questo popolo buon figlio anche nelle sue collere, vedendo il pericolo si mise a ridere ed a scherzare metà col pericolo metà co' Svizzeri.

Ma i Svizzeri non ridevano.

Armati di pochi vecchi fucili, di pistole, e di picche, gl'insorti non venivano precisamente per assalire, venivano come vengono nelle sommosse tutti que'strani precursori delle rivoluzioni che scavano ridendo l'abisso ove va ad ingoiarsi qualche volta un trono e più che un trono una monarchia.

Una parte di quelli che li seguivano stavano a cavallo sul muro che in quel tempo faceva la vece de' cancelli e di là invitavano a loro la G. N. i svizzeri ed i cannonieri con quei mille scherzi che caratterizzano l'allegria del popolo parigino.

Quelli che erano nel cortile invitavano anche più calorosamente degli altri gli svizzeri a fraternizzare con loro.

I svizzeri non rispondevano punto, forse non ne mancava loro il desiderio ma la disciplina li rendeva nello stesso tempo immobili e muti.

Allora uno de' federali ebbe l'idea di fare la pesca agli Svizzeri. Egli mise un gancio in cima ad una pertica, agganciò uno Svizzero per i suoi cuojami e lo trasse a se.

Lo Svizzero venne. Ne agganciò un altro e quest'altro pure venne.

Cinque, uno dopo l'altro, furon così presi nelle loro fila e passarono in quelle del popolo in mezzo allo scroscio delle risa e de' bravo di questi fanciulli.

Non si sa ove si sarebbe fermata la faccenda, se gli uffiziali non avessero dato ordine di spianare i fucili.

Vedendo spianarsi i fucili con quel rumore regolare e con quel movimento meccanico che distingueranno sempre i veri soldati da soldati irregolari della Guardia Nazionale, uno degli assalitori, vi ha sempre in simili casi un insensato che dà il segnale del massacro, uno degli assalitori tirò un colpo di pistola ad una finestra.

In risposta a questa provocazione un sergente svizzero chiamato Lendi gridò fuoco.

Questo grido partito da una finestra, o fosse sentito dal vestibolo, o fosse dato sotto il vestibolo nello stesso tempo che alla finestra, quando le finestre spararono il vestibolo s'empì di rumore e di fumo e una scarica terribile piombò sii quella massa compatta che barcollò tutta quanta e ripiegossi su se stessa come un campo di spighe tagliato dalla falce.

Appena un terzo di quelli che erano entrati era rimasto vivo , questo terzo prese la fuga, passando sotto il fuoco delle baracche che tirarono a bruciapelo.

400 uomini di cui tre erano rimasti uccisi immediatamente rimasero a terra ; a questa prima scarica gli infelici feriti si lamentavano e provavano a rialzarsi e con ciò dava a certe parti di questo campo di cadaveri una apparenza di vita spaventevole a vedersi.

A poco a poco tutti si abbandonarono a meno di pochi caparbi che si ostinarono a vivere, tutto rientrò nella immobilità.

Il Re era arrivato all'Assemblea Nazionale. I ministri condussero la regina la principessa Elisabetta la sig. di Lamballe e la principessa reale a' posti ch'essi occupavano nell'assemblea. Il Re salì alla sedia che gli era preparata presso il presidente.

‑ Signori ‑ diss'egli prima di porsi a sedere e rivolgendo i suoi occhi abbattuti ed indecisi sull'Assemblea e sulla Tribuna ‑ io son venuto qui per risparmiare un gran delitto alla Francia. Ho creduto di non esser più sicuro nè io nè la mia famiglia se non nel mezzo de' rappresentanti della nazione. Mi propongo di passar la giornata con voi.

Vergniaud era presidente.

‑ Sire ‑ rispose egli ‑ l'Assemblea ha giurato di morire per sostenere il diritto del popolo e le autorità costituite.

Il Re, come si vede, non era più altro che un'autorità costituita e veniva dopo il popolo.

Un deputato si alzò.

‑ Signori ‑ disse ‑ voi sapete che un articolo della costituzione proibisce di deliberare presente il re.

L'osservazione era giusta, L'assemblea dopo una deliberazione d'un momento eluse la proibizione e indicò al

il palco del giornalista separato dalla sala per mezzo d'un cancello di ferro.

Il re vi entrò con la sua famiglia.

Era sempre lo stesso volto indifferente, impassibile, inerte.

Tuttavia appena si mise a sedere il rumore della fucileria e del cannone si fè sentire, il re trasalì, un lampo passò negli occhi della regina.

Tutto non era perduto ancora, il castello ubbidiva agl'ultimi ordini ricevuti. Egli si difendeva quantunque non vi fosse più nulla a difendere.

Quella scarica d'artiglieria e di fucileria che avea inteso il re era quella di cui abbiamo descritti i spaventevoli effetti.

Non racconteremo in tutte le sue fasi l'assedio e la presa del castello delle Tuilleries malgrado il nostro desiderio come storico d'allargare per quanto è possibile l'orizzonte della nostra storia sebbene sminuzzando i strani avvenimenti, che reagirono sulla rivoluzione napoletana, sarebbe entrare in un racconto per il quale occorrerebbe lo stile d'Omero e la penna del Tasso.

Tutti, difensori ed assalitori, fecero il loro dovere riunito Svizzeri Gentiluomini e G. Nazionali avrebbe in quella terribile giornata eccetto il re, il quale avendo dovuto giuocare la sua corona al giuoco della palla e porsi alla testa di quei leali e fedeli difensori della Monarchia.

Dopo quattro ore di un combattimento accanito, gli svizzeri lasciando gli appartamenti del palazzo pieni di cadaveri batterono in ritirata a traverso del giardino del castello , allora sintesero dall'assemblea che stava al maneggio, cioè ad un angolo del giardino i colpi di fucili che si andavano avvicinando. Il maneggio, edifizio provvisorio con muri sottili, non diminuiva nessun rumore. Si sentivano passare le palle sul tetto, si sentivano fischiare sulle mura, per un momento si sparse la voce che i Svizzeri vincitori marciavano sull'assemblea. Un uffiziale della G. N. che avea perduto la testa, entrò tutto spaventato nella sala delle sedute gridando: I Svizzeri, i Svizzeri.

Allora tutti ali occhi si rivolsero su quel palco del re con cancello di ferro come una gabbia di quelle ove si chiudono gli animali feroci.

Il re in quel momento era ben più il re de' Svizzeri di quel che il re de' Francesi. Senza dubbio si vide un lampo di soddisfazione passare sul volto della regina poichè l'assemblea tutta quanta si alzò con un movimento unanime e con le mani tese : Rappresentanti del popolo, Spettatori. Guardie Nazionali, Segretari Uscieri, tutti esclamano:

‑ Qualunque cosa accadda giuriamo di vivere e di morire liberi.

L'errore non fu lungo ma non per questo il momento fu meno sublime.

Ben presto al contrario si seppe che i Svizzeri eran stati battuti e che costretti ad abbandonare il castello, si ripiegavano sull'assemblea. Allora un altro timore si impadronisce de' Deputati ed è che nella furia del loro trionfo i vincitori non venissero ad uccidere il re in mezzo a loro.

Quegli stessi uomini che in odio della sovranità avean giurato di morir liberi si alzarono di nuovo e, con lo stesso slancio e con la stessa unanimità giurarono di morire in difesa del re.

Intanto per far fermare la strage si mandò un deputato che ordinasse al signor Durler di cessare il fuoco ma sebbene circondato da ogni parte sebbene perduto egli e i suoi Svizzeri, ricusò d'obbedire.

‑ lo ho ricevuto il mio comando dal re, disse, e non lo cederò al altri che al re.

Furono obbligati di condurlo all'assemblea; egli era tutto nero di polvere, tutto rosso di sangue.

‑ Sire ‑ disse il bravo maggiore ‑ si vuole che io deponga le armi. E' questo l'ordine del re?

‑ Si ‑ rispose il re : consegnate le vostre armi alla guardia nazionale, non voglio che brava gente come siete voi perisca dal primo fino all'ultimo.

Allora, Sire, che Vostra Maestà si compiaccia di darmi quest'ordine in iscritto.

Il re prese una penna, il primo pezzo di carta che si trovò, e scrisse le tre linee seguenti.

 

Il re ordina agli svizzeri di deporre le armi e di ritirarsi nelle caserme.

LUIGI

 

Io ho veduto a Zurigo l'originale di quest'ordine fra le mani delle vedova del signor Durler ho ottenuto da lei di farne fare un facsimile e mi stimo fortunato di offrirlo ai nostri lettori[*1] .

Vedranno all'incertezza della scrittura, al tremito della firma, che nelle occasioni supreme il re non teneva la penna più ferma della spada.

Senza sciogliere la seduta l'assemblea fè il decreto seguente:

« Il Popolo francese è invitato a formare una convenzione nazionale.

Il capo del potere esecutivo è provisoriamente sospeso dalle sue funzioni, un decreto sarà proposto nella giornata per la nomina d'un aio del Principe reale. Il pagamento della lista civile sarà sospeso. Il Re e la famiglia Reale dimoreranno nel recinto del Corpo legislativo fino a che la calma sia ristabilita a Parigi.

Il Dipartimento farà preparare il Luxembourg per la residenza di lui sotto la custodia de'cittadini ».

Il Re nell'udire questo decreto s'inclinò fuori del suo palco, e dirigendosi al deputato Coustart che aveva più volte parlato con lui durante la seduta, gli disse sorridendo. :

‑ Sapete che non è molto costituzionale quel che voi fate ?

‑ E' vero, Sire, ma è il solo modo di provvedere alla sicurezza della vostra vita. Se noi non accordiamo alla vostra decadenza, eglino prenderanno la vostra testa.

Il re fece un movimento, e riprese il suo posto ; poi parlò a voce bassa ad un usciere.

Alcuni deputati ebbero ombra di quelle parole pronunziate a voce bassa e vollero conoscere l'ordine dato dal re.

‑ Il re ha dimandato di far colezione ‑ rispose l'usciere.

Gli fu portato del pane, del vino, un pollo, della carne fredda e le frutta.

Era come tutti i principi della casa di Borbone qualunque fosse il ramo cui appartenessero, come Enrico IV, come Luigi XIV, come Filippo V, come Carlo III, come Ferdinando I, un gran mangiatore. In lui le emozioni dell'animo non aveano nessun potere sul bisogno del corpo, e siccome la materia facea traboccar la bilancia, la materia regnava su lui da padrona assoluta.

Gli fu portata la colezione che avea richiesta.

Egli mangiò come ad un convegno di caccia senza fare la menoma attenzione agli occhi che lo guardavano.

Fra questi occhi ve n'eran due che scottavano per non poter piangere: erano gli occhi della regina.

Ella avea molto sofferto il 5 e 6 ottobre; avea molto sofferto nel tornar da Varennes; avea molto sofferto nella terribile notte del 9 al 10 agosto.

Ma allora avea meno sofferto di quel che soffrì in quel momento in cui vide mangiare il re.

Ella non volle prender nulla, nemmeno un bicchier d'acqua; le sue labbra inaridite bruciavano: non importa. Avrebbe voluto essere in preda ad orribili dolori fisici; sarebbe stato un contrappeso a' suoi dolori morali.

La Principessa reale, colla testa appoggiata sul seno di sua madre, piangeva senza singhiozzi, senza sospiri siccome piangono coloro che hanno in fondo al cuore la sorgente delle lagrime.

Il giovane Delfino guardava curiosamente intorno a se, egli era ancora in quell'età in cui tutto è spettacolo, anche il dolore di una madre. Egli domandava di tanto in tanto al re il nome d'un deputato, ed il Re glielo diceva con quella stessa tranquillità con la quale dal palco d'un teatro gli avrebbe detto il nome d'un attore.

La Principessa di Lamballe seduta a' piè della regina senza prescienza della morte terribile che l'era preparata, e della fossa ove dovea essere trasportata, estenuata dalla stanchezza dormiva con la testa appoggiata sulle ginocchia di quella regina di cui avea fatto il suo idolo vivente.

Infine la principessa Elisabetta in piedi dietro il re sembrava l'angelo che, ne'quadri de'primi maestri italiani, veglia sulla famiglia ed in mancanza di quelle ali visibili che Raffaele pone alle spalle de'suoi divini messaggeri, essa copriva col dolce sguardo de'suoi occhi il re la regina ed i loro figli, e dopo quello sguardo che saliva qualche volta supplichevole al cielo e ritornava tranquillo e fiducioso sopra la terra ella sembrava essersi rasserenata nella contemplazione momentanea delle beatitudini celesti.

Il 13 a sera il re fu condotto non già al Luxembourg ma al Tempio accompagnato dalla regina, da suoi due figli, dalla principessa Elisabetta, dalla principessa di Lamballe e dalla signora Tourzel.

Il Comune di Parigi avea escluso il Luxembourg ed avea scelto il Tempio: avea per ciò le sue ragioni.

A Luxembourg, palazzo Reale, il re era ancora re.

Al Tempio, antica prigione, il re non era più altro che un prigioniero.

 

 

 

 

 

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 [*1]  Io darò parimenti dei facsimili della Regina Carolina, del Re Ferdinando, di Nelson e del Cav. Hamilton. Fino adesso non ho potuto procurarmi quello di Emma Lyonna, ma non dispero di averlo.