|
|
|
|
Di
Alexandre Dumas
|
CAPITOLO VIII.
Nell'udire queste notizie, la Regina Carolina
divenne quasi pazza per la rabbia. Cuoco dice che le frequenti impressioni di
terrore e di sospetto, che avea provate, aveano alterato la sua fisonomia, e
quasi spezzato il filo delle sue idee. « Alcune persone degne di fede m'han
raccontato, soggiunge, che non le si poteva parlare senza pericolo di
dispiacerle gravissimamente, della fedeltà de' suoi sudditi che essa riguardava
tutti, molto a torto, come Giacobini. » I Giacobini non esistevano realmente
altro che in Francia, e ci eran voluti tre anni di rivoluzione, per formare
questa società che fu l'aníma della Repubblica e che mori naturalmente da sè.
« Il Re e la Regina, dice ancora Cuoco ‑
non andavano d'accordo altro ch'in un punto solo, cioè, nel loro odio contro i
Francesi ‑ Solamente l'odio del Re era indolente, e si sarebbe contentato
di tenerli lontani da lui ‑ ma per la Regina l'allontanamento non
bastava; bisognava distruggerli ».
Fu così, e in odio della Francia, che,
vedendo nei suoi propri Stati un partito repubblicano che era lungi
dell'esistervi ancora, la Regina dava il nome di giacobino, a qualunque
persona, la cui istruzione e valore personale si distinguessero dagli altri, ad
ogni imprudente che leggeva giornali stranieri, ad ogni zerbinotto che imitasse
le mode francesi. ‑ Aspirazioni pure e semplici, verso un progresso
sociale, furono riputate tali colpe da meritarsi la morte od un'eterna
prigionia, essendo questi i soli castighi che abbastanza severamente poteano
punirlo ‑Dopo che i sospetti erano andati a cercare nel mezzo ceto i
Conforti ed i Papano, s'inalzarono fino all'alta aristocrazia. Un Colonna, il
Duca di Canzano, il Conte di Ruvo, Serra di Cassano, i Caracciolo, i Riario, furon
trattati in arresto e condotti in prigione ‑ senza motivo alcuno ed
espressamente raccomandati ai custodi.
Questa collera si volse in vergogna, allora
quando vidersi ritornare i bastimenti e le milizie napoletane mandate a Tolone ‑
Non era quello un ritorno, ma una fuga ‑ Addì 2 febbraio 1794, venne
avviso dell'avvicinarsi di legni, che tosto ravvisaronsi per esser quelli che
da due mesi innanzi erano aspettati ‑ Non era mica una squadra che veniva
a ricoverarsi nel porto, erano uccelli di mare che, a stormo, ritornavano
scompigliatamente al nido ‑ Ducento napoletani erano stati uccisi ‑
quattrocento fatti prigionieri.
Una sola nave non v'era, che non avesse
sofferto qualche guasto ‑ non più cavalli nè vettovaglie ‑ non più
bagagli ‑ non più bandiere ‑Fu quello pel Re, per la Regina, per la
città tutta, un orrendo spettacolo ma quando più orrendo si fu, per il
traditore che avea dato Tolone in mano al nemico, e che dopo era venuto a
rifugiarsi in Napoli col premio del suo tradimento.
Il Governo ordinò pubbliche preghiere, e,
siccome avea fatto al principio del precedente anno, proibì le feste di
carnovale.
Quindi, nuove leve furon decretate ed
ordinossi il Campo di Sessa.
Questi ultimi provvedimenti erano tanto più urgenti,
in quanto che., nell'udire la presa di Tolone per parte degli Inglesi, la Corte
di Napoli, non avea serbato misura nè riserba alcuna ‑ L'ambasciatore
Mackau, il quale, come sì è veduto, era stato male accolto, nel punto del suo
arrivo, si ebbe allora l'ordine di allontanarsi da Napoli, e pria di partire
avea veduto Nelson andarsene via, coi soccorsi che avea sollecitato da Re
Ferdinando.
L'ambasciatore ritornò in Francia, non solo
recando la notizia di siffatto tradimento, ma ancora conducendo seco la moglie
e la figlia del suo Segretario di Legazione, Basseville, assassinato in Roma,
il 13 gennaio del 1793, a colpi di pietra e di bastoni, e freddato da un colpo
di rasoio.
Veniva Mackau a chiedere alla Convenzione
pronta giustizia del tradimento del re di Napoli ‑ in quella che la
moglie e la figlia di Basseville chiedevano vendetta del loro sposo e padre,
trucidato sotto gli occhi di Papa Pio VI, il quale cominciava a chiamare sopra
di se, quella tempesta che scoppiò nel 97.
Allora si fu che, per vendicare la disfatta
di Tolone, l'Inghilterra risolvette le spedizione contro la Corsica. ‑
Chiese aiuto a Napoli, che fedele alla sua parola, quando si trattava di
combattere la Francia, fece sforzi inauditi per somministrare la sua quota di
milizia e di legni. ‑Allora il Re, per mezzo de' suoi famigliari, fé
correr la voce che avea preso sul suo tesoro particolare, una somma di dieci
milioni di ducati ‑e la Regina si mostrò al pubblico, con falsi gioielli,
dicendo aver venduto fino all'ultimo suo diamante per far la guerra ai
giacobini.
La spedizione costò somme stravaganti, ed
altro risultamento non ebbe che di far perdere l'occhio destro a Nelson.
Gli è appunto per quest'uomo di ferro che
Orazio fece questo verso.
« Illi Robur et aes triplex!
Vuolsi sapere qual importanza metteva alla
perdita di quel suo occhio portato via dalle scheggia di una palla di cannone?
Leggasi la sua lettera all'ammiraglio Hood. «
Caro Lord.
« I rapporti che vi si sono recati sulla
battaglia non vi hanno al certo fatto consapevole di una cosa che meglio a me
si convien dirvi ‑Voglio parlare di una lieve ferita ricevuta stamane ‑
poca cosa, come potrete vederlo, dal modo come vi scrivo.
« Credetemi colla stima più vera, vostro
fedelissimo.
ORAZIO NELSON
Nel veder con quale durezza questo terribile
marinaio ‑ che il cannone della Francia abbatteva un poco alla volta,
fintanto che non l'avesse del tutto atterrato a Trafalgar ‑ trattava sè
stesso, non recheranno tanta meraviglia i severi giudizii profferiti da lui
sopra coloro che trovava meno di sè coraggiosi.
Tutte quelle voci che il Re e la Regina
faceano circolare non aveano per iscopo altro che di autorizzare il governo a
decretare nuove imposizioni ‑ Un gran numero di proprietà ecclesiastiche
furono alienate a beneficio del tesoro. Napoli fu colpita da una contribuzione
straordinaria di ducati 103,000 al mese ‑ La nobiltà di ducati 120,000 ‑
Le chiese, i monasteri, le cappelle dovettero dare i vasi d'oro e di argento che
non erano di assoluta necessità al culto. I cittadini furono sottoposti alle
stesse imposizioni: dovettero vendere le loro gioje, i loro oggetti preziosi,
meno però il vasellame, e ricevettero in cambio, buoni di banca, pagabili ad
una certa data finalmente, e questo era il peggio che potea farsi. Non ostante
che eccitasse i clamori della moltitudine, il governo s'impossessò de' banchi
pubblici.
Dugento cinquanta milioni furono il
risultamento di questo colpo di mano ‑ Trentasette milioni furon sborsati
dai cittadini ‑ tredici milioni furono rubati ai pubblici banchi
spogliati.
Allora si fu che, senza dubbio, per far
deviare le idee la Giunta di Stato ricevette l'ordine di incominciare le sue
operazioni.
Le prime sedute furon segnate da una grande
catastrofe. Vi sono taluni momenti in cui la natura sembra entrare a parte
delle umane passioni, e mischiarsi a'politici sconvolgimenti, nonchè all'ire
private.
Nella notte de'12 giugno del 1794, Napoli si
destò, scossa fin dalle fondamenta da un violento terremoto.
Si udiva, senza saper donde nascesse, quel
fragore sotterraneo, il quale precede le grandi catastrofi vulcaniche, e che
foriero di tremendo pericolo incute il terrore pria che realmente quel pericolo
esista.
Verso le tre del mattino, le vie di Napoli
dalla parte del Vulcano si gremirono di fuggiaschi. Tutti coloro che dimoravano
sulla vetta del terribil monte, aveano abbandonato gli abitati, taluni,
contenti di cercare un ricovero nella pianura, altri siccome dietro un baluardo
inespugnabile, veniamo a ricoverarsi dietro il ponte della Maddalena al quale
sovrasta, imponendo al vulcano di non profanare le acque del Sebeto, la
miracolosa statua di S. Gennaro.
Sorge il sole, nel puro azzurro del cielo;
ma, siccome al tempo di Plinio, una colonna di nerastre e dense nuvole
slanciasi dal cratere, e, pervenuta ad una certa altezza, stendesi ed annebbia
il matutino splendore.
Intanto, i muggiti della montagna aumentavano
ad ogni momento.
Verso le tre pomeridiane, la luce del giorno
scemò, siccome quando v'è un'eclissi, e sin da quell'istante la oscurità crebbe
continuamente.
Dal 13 al 15 giugno non si mostrò il Sole,
era sì densa l'atmosfera che i raggi solari non poteano penetrarla.
Di repente, nella notte dal quindici al 16,
un fragore simile a quello di una batteria di cento cannoni, i quali
scoppierebbero tutti assieme, chiamò l'attenzione di tutti dalla parte del
Vesuvio. Un immenso getto di fuoco s'innalzò dal cratere della montagna. Si
slanciò nel cielo, ricadde sopra di se stesso, e scese sul pendio del
vulcano. Allora gli tenne dietro come un immenso scoppio di fuochi
artificiali, composto di razzi ardenti e di globi di fuoco. Quindi tutte quelle
materie liquefatte formarono due fiumi, dirigendosi secondo l'abitudine
devastatrice del vulcano, verso Resina l'uno, e l'altro verso Torre del Greco.
Trenta due mila uomini, donne e fanciulli,
colpiti da stupore, seguivano cogli occhi il doppio torrente di fuoco.
A Resina, i campi che circondano la città, le
ville che sono costruite tra essa ed il Vesuvio, furon coperte dalla lava, ma
la terribile inondazione si fermò, ad un comando sovrumano, alle porte della
Città.
A Torre del Greco non fu lo stesso; un'antica
eruzione avea seppellito una parte della Città, poi s'era fermata, e formava
una lugubre scogliera che sovrastava, oltre i cento metri, la parte risparmiata
dal flagello.
Su quella scogliera, una nuova città erasi
innalzata, e le due regioni della città, l'alta e la bassa, erano state poste
in comunicazioni tra di loro, per mezzo di scalini scarpellati nella lava.
Questa volta, tutto fu posto a livello, masse
di lava caddero giù dalla scogliera ed eguagliarono il terreno sino al tetto
delle più alte case; e sino ai campanili delle chiese; poi facendosi strada nel
mare e spingendo le onde, formarono un molo di balze, dentro il quale i
bastimenti possono a quest'ora trovare un ricovero contro la burrasca.
Tutto ciò avveniva durante la notte e, come
Sempre, l'oscurità accresceva il terrore.
Si udiva sopraggiungere la notte, per dir
così, dal suono delle campane; le tenebre erano sì profonde che in piena via od
in mezzo alle piazze più larghe, ti saresti creduto in una camera chiusa.
Il Cardinale Arcivescovo di Napoli,
accompagnato dal Clero tutto della Città, venne a prendere il busto d'argento
indorato di San Gennaro, alla Cattedrale, ed in processione, seguito dalla
nobiltà, dicendo preghiere, mentre il popolo cantava inni sacri, si recò sino
al Ponte della Maddalena, invocando il Santo protettore della Città.
Era in sul cadere del terzo giorno.
Fu nella notte susseguente a quella della
processione, fu quella notte, che s'udì quel tremendo scoppio, onde abbiam
fatto parola. Si credette, dal trabalzar che avvenne, che Napoli tutta fosse
per crollare. In un minuto secondo, la popolazione tutta quanta si prostrò col
volto a terra, i più coraggiosi sì contentarono di cadere ginocchioni.
All'albeggiare, il fatto fu chiarito, una
porzione del Vesuvio era stato ingojata dal Vulcano stesso. Era la parte più
elevata, che era crollata da un'altezza di oltre a mille metri nell'abisso di
fuoco che prima dominava, lasciando il Regno della montagna al cono, che sin
allora erale stato inferiore.
In quelle ore dì lutto tutto fu sospeso,
tranne la Giunta di Stato, ed alcuni degli atti che emanò, ebbero la data del
giorno stesso dell'eruzione.
Tutto avea cessato di vivere, in qualche
modo, fuorchè la collera di Dio e quella de'Re.
Il primo atto di quella Giunta si fu il
condannare a morte un pazzo.
Un Siciliano, a nome Tommaso Amato, era
accusato di avere, in un giorno festivo, profferito nella Chiesa del Carmine,
orribili bestemmie contro a Dio; quindi, s'era precipitato contro il santuario,
minacciando il prete che funzionava all'altare.
Accusato adunque di lesa maestà divina ed
umana fu condannato alla corda.
Era la prima esecuzione di tal fatta, che
avesse luogo, quindi si spiegò ogni solennità.
Ecco quanto leggiamo negli Archivi
de'Bianchi, cioè dell'arciconfraternita incaricata di assistere i condannati,
che vanno al patibolo.
Tommaso AMATO, di Messina, giustiziato nella
Piazza del Mercato il dì 17 maggio del corrente anno 1794 giorno di Sabato ed
assistito dalla nostra congregazione.
Stato di Tommaso Amato:
‑ Tommaso Amato, di Messina dell'età di
anni 37, non casato; non ha padre nè madre; il detto ha tre fratelli germani.
Il primo si chiama Giuseppe, il secondo Placido, il terzo Luigi. Di questi tre
fratelli, Giuseppe è casato: non si sa il nome della moglie e non ha figli. Ha
una sorella germana e si chiama Antonia, la quale sta nel Conservatorio delle
Verginelle in Messina. Il detto ha una zia ‑si chiama Concetta Amato e
sta in Napoli, maritata prima, ora vedova del Conte Vincenzo Bordinari ‑
ed ha due figli, un maschio ed una femmina. Il maschio si chiama Gaetano
Bordinari e la femmina Giovanna.
‑ Copia della prima lettera di avviso ‑
Al di fuori: Illustrissimo e Revendissimo
Signore e Padrone sempre Colendissimo.
Signor Padre
Superiore della Real Compagnia dei Bianchi negli Incurabili.
Al di dentro.
• Illustrissimo e Revendissimo Signore.
• Signore e Padrone sempre Colendissimo.
• Essendosi sua Maestà benignata di approvare la sentenza di morte, profferita dalla Suprema Giunta di Stato contro Tommaso Amato, Messinese, per il suo reato di lesa Maestà divina ed umana; prego perciò la Vostra Signoria Illustrissima e Revendissima di mandare quest'oggi, alle ore 19, i padri della Vostra Real Compagnia nelle carceri della Gran Corte affin di confortare l'anima del detto Tommaso a ben morire; poichè, per le altre mie, cerziererò alla Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima, il giorno che dovrà eseguirsi tale sentenza. ‑ Son sicuro che voglia la Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima usar tale carità mentre coi dovuti ossegui le bacio le sacrate mani ».
Il Cavalier LUIGI MEDICI.
Diciamo minutamente come erano giustiziati, e
sono ancora, salvo qualche piccolo cambiamento, i condannati a Napoli.
Noi scriviamo queste particolarità dopo aver
visitato l'antica cappella della Vicaria, ove tanti condannati fecero nel 1799
le loro veglie d'agonia.
L'antica cappella è abbandonata adesso, ma,
eccetto il quadro dell'altar maggiore che n'è stato tolto, tutto è ancora nello
stesso stato.
Essa s'innalza nel centro della prigione; vi
si arriva attraversando due o tre cancelli di ferro.
Si scende per due gradini nella vera cappella,
cioè nella prima camera dove sta l'altare. Questa camera prende la luce da una
finestra bassa che ha una inferriata.
Di là si passa in una seconda camera, che era
quella ove abitavano i condannati negli ultimi tre giorni della loro vita.
De'grossi anelli confitti nel pavimento
indicano il luogo ove stavano coricati sopra una materassa. Le loro catene
corrispondevano a quegli anelli.
Sul muro al quale era appoggiata la materassa
esiste anche adesso un grande affresco che rappresenta Gesù in Croce e Maria inginocchiata
a'piedi.
Dietro questa seconda camera ed in
comunicazione con lei esiste un piccolo gabinetto che ha un'entrata a parte.
In questo piccolo gabinetto, e per quella
porta erano introdotti que' Bianchi i quali per una religiosa devozione
s'incaricavano d'assistere i condannati nel momento della loro morte.
Vi erano nella confraternita e preti e laici.
I preti ascoltavano la confessione, davano l'assoluzione, il Viatico e gli
ultimi sacramenti, eccetto l'estrema unzione.
L'estrema unzione essendo riserbata ai malati
ed i condannati non essendo malati, ma destinati a morire per accidente, non potevano ricevere l'estrema unzione cioè il
sacramento dell'agonia.
Entrati in quel gabinetto ove rivestivano i
lunghi abiti bianchi che aveano loro fatto dare il nome di Bianchi, non
lasciavano più il condannato finchè non avesser deposto il suo corpo nella
fossa.
Tommaso Amato fu condotto al patibolo,
imbavagliato. Gli furon fatte percorrere le principali strade di Napoli
acciocchè tutti vedessero che cosa era un bestemmiatore.
Il Governo ordinò preghiere pubbliche per
espiazione di questo delitto che andando a colpire più in alto della testa
degli uomini, cadeva ai piedi di Dio a cui non poteva giungere.
Fu impiccato sulla piazza del Mercato
vecchio, il suo corpo gittato in un rogo fu bruciato, e le sue ceneri furon
disperse al vento.
Poi, allorchè il giudizio ebbe avuto la sua
esecuzione, allorchè le preghiere furono state dette, allorchè il corpo fu
stato abbruciato e le ceneri furono state gettate al vento, giunse una lettera
del Generale Danero governatore di Messina, che reclamava come pazzo fuggito
dall'Ospedale de'pazzi lo sventurato Tommaso Amato.
Il Presidente Cito, ed il Giudice Potenza
avevano indovinata quella follia, avevano combattuta la pena di morte, ed
avevano proposto di rinchiuderlo in un ospedale.
Ma si pensò che fosse una buona porta aperta
all'assassinio giuridico quella per la quale passava per il primo un nemico di
Dio, un bestemmiatore, un empio, quand'anche quest'empio, questo bestemmiatore
fosse un pazzo.
Questa prima sentenza renduta in nome della
religione santificava tutte le altre rendute in nome della sovranità.
Allora incominciò la procedura de'rei di
stato. Noi abbiam detto qual'era il delitto di questi sventurati. Eglino aveano
comunicato con la flotta francese di Latouche Treville.
Erano cinquanta accusati.
Dal 16 settembre fino al 3 d'ottobre la
Giunta di Stato fu in permanenza senz'altra interruzione che quella del sonno e
del pasto. La procedura equivale, presso a poco, a cento ventiquattro volumi.
Al principio il Procuratore fiscale Basilio Palmieri avea detto che avea pruove
contro ventimila persone.
Avea concluso per la pena di morte contro trenta
con applicazione preventiva della tortura.
Ma il tribunale si contentò di condannare tre
degli accusati alla pena capitale.
Tre alle galere.
Tredici a pene minori.
Il resto fu posto in libertà.
Il capo della pretesa congiura, e non vi
abbisognò nulla dippiù per fare una congiura di poche manifestazioni
imprudenti, il capo della congiura Pietro di Falco fè delle confessioni, e
rivelò il piano de'congiurati, ma giammai nè questo piano, nè queste
confessioni non furono renduti pubblici, e, giudicato per il primo senza essere
stato confrontato con quelli che accusava fu deportato nell'isola di Tremiti.
La scelta de'giudici per la condanna a morte
era caduta su tre giovanetti:
Vincenzo Vitaliano che aveva ventidue anni,
Emmanuele de Deo che ne aveva venti e Vincenzo Gagliano che ne aveva
diciannove.
Eglino erano di nascita gentiluomini, ancora
scolari per le loro età, tutti e tre ignorati dal mondo, e conosciuti solamente
dai loro compagni per i loro trionfi di Collegio.
Riunite le loro età non formavano quella d'un
sol'uomo vecchio.
Così fu un grido di compassione in tutta la
città allorchè si seppe che la scelta fatale era caduta su fanciulli il cui
solo delitto era, dice Cuoco, d'aver
parlato di ciò che sarebbe stato meglio tacere e di aver applaudito ciò che
sarebbe stato meglio di esaminare.
La regina stessa esitò a far tagliare il filo
di sì giovani vite. Non eran già tali quelle che Tarquinio indicava facendo
cadere sotto la sua bacchetta ì più alti papaveri del suo giardino.
Ella fè venire Giuseppe de Deo, il padre
d'uno di quei sventurati e mostrandosi mossa da una finta compassione disse al
vegliardo che gli accordava la vita dì suo figlio se quel giovane volesse fare
qualche rivelazione.
Essa gli dette nello stesso tempo un ordine
di suo proprio pugno perchè potesse entrare nella prigione e restar solo col
condannato.
I tre pazienti stavano già in cappella, e
ricevevano le consolazioni della religione più terribili del suplizio stesso.
Giuseppe de Deo fé vedere l'ordine di
Carolina e rimase solo con suo figlio.
Allora l'abbracciò tremando e gli annunziò il
motivo della sua visita inattesa e la ricompensa accordata al suo tradimento.
Vedendo che il giovine rimaneva in silenzio,
il vecchio continuò.
Gli dipinse il dolore la disperazione di sua
madre, il disonore che ricadrebbe dal patibolo sulla sua casa.
Lo stimolò dicendogli che fuggirebbero tutti
insieme che andrebbero ad abitare qualche paese lontano, e non tornerebbero se
non in tempi meno infelici.
Il giovane taceva sempre e siccome suo padre
lo credeva vicino ad arrendersi scoppiò in singhiozzi, s'inginocchiò innanzi
a suo figlio e balbettando in mezzo ad un torrente di lagrime:
Caro Emmanuele, gli disse, abbi pietà dello
stato nel quale mi vedi.
Ma allora il giovine rialzandolo e
baciandogli le mani ed il volto :
Papà mio, gli disse, alla tirannia in nome
della quale venite non basta, a quel che pare, il nostro sangue. Vuol pure la
nostra infamia e per una vita disonorata che mi accorderebbe spegnerne mille
onorevoli. Lasciatemi dunque morire; io credo che la libertà costerà a Napoli
molto sangue ma il primo sangue sparso sarà il più illustre. Considerate, Papà
mio, quella esistenza che mi proponete. Dove nasconderemmo la nostra vergogna?
No; calmate il vostro dolore, procurate di calmare quello di mia madre,
sostenetevi e consolatevi un l'altro col pensiero che io muojo innocente e per
lealtà, sopportiamo voi ed io il nostro martirio d'un momento e verrà il giorno
in cui il mio nome reclamerà una parte gloriosa nella storia, ed in cui voi
direte con orgoglio: Quello che ho messo al mondo è stato il primo a morire per
il suo paese.
Questo linguaggio elevato, questa semplicità sublime
feron tacere le preghiere del vegliardo sebbene le sue lagrime seguitassero a
scorrere, quasi vergognandosi di trovare in un fanciullo la forza che gli
mancava, si ritirò nascondendosi la testa fra le mani, ammirando e piangendo.
Il 4 ottobre 1794 era stabilito per
l'esecuzione della sentenza, il palco circondato da soldati era innalzato al
Largo del Castello in modo che i cannoni della vecchia fortezza aragonese
potessero scoprire la piazza. Al menomo movimento della folla fra la quale era
stato detto alla regina che vi fossero più di 50,000 Giacobini c'era ordine di
far fuoco.
Queste precauzioni non eran parute bastanti a
Ferdinando ed a Carolina. Essi aveano abbandonato Napoli e s'eran rifuggiti nel
Palazzo di Caserta.
I tre giovanetti montarono sul palco più
tranquilli del boja che li uccideva.
Gagliani il più giovane come abbiam detto
(egli avea 19 anni) ebbe il favore di essere il primo.
Poi toccò ad Emmanuele de Deo.
Vitagliano con le mani legate dietro le
spalle metteva il piede su'primi piuoli della scala allorchè, senza che si sia
mai potuto sapere la ragione, vi fu un movimento nella folla.
A quel movimento si videro gli artiglieri
avvicinarsi a'loro cannoni e siccome gli spettatori del terribile dramma
conoscevano gli ordini dati, credettero che facesser fuoco, ed atterriti
fuggirono per tutte le uscite della Piazza.
Il Boja stesso fu preso dalla paura comune e
temendo di non poter compiere il suo dovere su Vitagliano come avea fatto per
gli altri, trasse il coltello e lo pianto nel cuore del giovine.
La Piazza restò vuota e Vitagliano nel
rendere l'ultimo sospiro potè calcolare quanti anni ancora occorrebbero a
quegli uomini timidi per giungere ad avere quel coraggio d'innanzi al quale
ogni ostacolo sparisce, e mette un popolo a faccia a faccia con la libertà.
Allorchè quattro anni dopo il 23 gennaio 1799
fu proclamata la repubblica, allorchè per la prima volta a Napoli furon
nominati de'deputati, in una delle loro sedute i rappresentanti della nazione
si ricordarono di questi primi martiri e proposero d'innalzare un monumento ad
Emmanuele de Deo.
Il rappresentante Forges fece la mozione di
questo monumento che fu votato fra gli applausi.
Ecco le iscrizioni adottate ‑ Forse
ognuno si meraviglia di non trovare nè il nome di Galiani nè quello di
Vitagliano vicino a quello di Emmanuele da Deo.
Ma è diggia molto che il popolo si ricordi di
un martire sopra tre.
ALLA LIBERTA'
AD EMMANUELE DE DEO DI GIOIA
PRIMO MARTIRE DELLA LIBERTA'
MORTO SOTTO LA SCURE INGIUSTA[*1]
DI FERDINANDO IL TIRANNO
AD ANTONIO MOSCADELLO DI
TRANI
A FRANCESCO PAOLO PALOMBO
D'AVIGLIANO
ENTRAMBI DEL NUMERO DI
COLORO
CHE PRESERO IL FORTE
SANT'ELMO
E PIANTARONO IL VESSILLO
TRICOLORE
MORTI COMBATTENDO ALLA TESTA
DELLE LEGIONI FRANCESI.
A FRANCESCO PEPE D'ACQUAVIVA
MEMBRO DEL GOVERNO
PROVVISORIO
UCCISO VICINO BARI
E AD ANDREA SERRAO DI
FILADELFIA
VESCOVO DI POTENZA
CHE INNALZO' DI SUA MANO
L'ALBERO DELLA LIBERTÀ
E CHE CADDE E MORÌ GRIDANDO ‑
VIVA LA LIBERTÀ
LA PATRIA LIBERA FINALMENTE
NELLA RICONOSCENZA ERIGE E
CONSACRA
Il tempo mancò alla repubblica Partenopea per
la esecuzione del monumento ch'essa avea votato ‑ oggi non il tempo, ma
la fede manca ai Napoletani.
Fu un tristo anno per Napoli il 1794 ‑
come nei tempi antichi i presagi nefasti vennero raccolti e si trovarono
abbondanti ‑ oltre due spergiuri, due sconfitte, l'insurrezione del
vulcano, l'esecuzione d'un pazzo, quella di tre innocenti, vi furono fenomeni
naturali che spaventarono il popolo.
Cosa rara, molte persone morivano colpiti dal
fulmine ‑ un uomo in una chiesa ed un marinaio a bordo del Sannita.
E' vero che l'anno seguente cominciò con un
avvelenamento.
Non si sarà dimenticato quel bel principe di
Caramanico, amante della regina, allontanato da Acton, nominato ambasciatore a
Londra, poscia a Parigi, ed al quale la regina, col mezzo della moglie di lui,
continuava a scrivere lettere che noi abbiamo sott'occhio.
Egli avea reso grandi servigii in Sicilia,
ove erasi finito per mandarlo come vicerè. La riputazione ch'egli erasi formata
come intelligente politico ed uomo leale, era grande tanto, che la voce
pubblica lo additava come il rimpiazzante di Acton.
Un giorno sua moglie ricevette una lettera
nella quale egli dicevale:
« Non so quel che mi accade ‑ i miei
capelli incanutiscono e visibilmente, i miei denti si distaccano dalle gengive
e cadono.
Io sento un languore mortale e temo d'aver
solo pochi giorni di vita ».
Ed infatti, una settimana non era decorsa
ch'egli era cadavere.
Un lutto generale involse Palermo e si estese
in tutta la Sicilia. Gli si fecero magnifici funerali, ed in seguito di costumi
feudali i cavalli delle sue scuderie vennero tutti uccisi sulla sua tomba.
Ne aveva quarantatrè.
In Napoli ed in Sicilia la memoria del
principe dì Caramanico vive ancora oggi, poetica come quella di un eroe di
leggenda, e forse è desso il solo degli amanti di Carolina di cui la ricordanza
sia non solo onorata ma popolare.
La voce pubblica accusò Acton di questo
omicidio.
Certo nessuna prova esiste del delitto,
materialmente parlando, ma una vecchia canzone in dialetto napoletano, cantata
per le vie, mostra a qual punto l'accusa era non solo pubblica ma popolare.
Carolì si te stive
naut'anno Quante cose volive verè Si ffujuta già tutte
lussanno Statte bona e governatè. Nu vorzone de doppie de
Spagna Monsù[*2] Attone teneva pe tte Ma scuperta s'è pò la
magagna Statte bona e governatè. Cu l'angrese facive
l'ammore Isso steva ogni ghiuorno
cu tte Te scuprette pe furba de core Statte bona ecc. ecc. La matina, lo juorno e la
sera Ma sì pazza, si hota
bannera Statte bona ecc. ecc. Se credeva ca jere
costante Te vedette appricata cu tanti Statte bona ecc. ecc. Tu dicive ca jeri sincera Pe bulerlo ncappare cu tte
Ma de mbroglie si porta
bannera Statte bona ecc. ecc. Caramanica chiù de
sett'anne Fuje buono gabbato da te Le mannaste un buono
malanno Statte bona ecc. ecc. Coll'arzeneco nne lu
frusciaste Pecchè s'era scurdato de
te Monsù Attone accussì
contentasti Statte bona ecc. ecc. Co lo puosto po della
farina Era ognuno gabbato da te Nce l'aje fatta accusì Carolina Statte bona ecc.
ecc. Ogne ghiuorno na gran
leberanza Se faceva ntesta a te E accussì te jenecheve sta
panza Statte bona ecc. ecc. Li denare tu t'aje purtato
Mperzò ognuno mo parla de
te: Dice ah! latra, tu ne'aje arrubbato Statte bona ecc. ecc. Carolì, è fenuto
chill'anno Ch'era ognuno gabbato da
te Mo se sape, si chiena de
nganno Statte bona ecc. ecc. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|