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Di
Alexandre Dumas
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CAPITOLO IX.
Nel momento in cui Acton si sbarazzava d'un
rivale in Sicilia, un altro rivale di cui abbiamo già pronunziato il nome,
sorgeva a Napoli sotto i suoi occhi ed in certo modo sotto l'ombra del suo
potere.
Era desso il giovane cavaliere de'Medici, di
cui abbiamo già accenato qualche cosa, che doveva essere pel regno di
Ferdinando ciò che Tanucci era stato per quello di Carlo III. Nell'epoca delle
prime misure di sicurezza che erano state prese nella città, erasi stabilito in
ogni quartiere oltre le guardie e gli ufficiali subalterni, un commissario di
polizia, incaricato della sorveglianza di quel quartiere, ed investito di un
certo potere giudiziario.
A capo di tutta questa organizzazione, con
l'antico titolo di reggente della Vicaria, era stato posto il cavalier Luigi de
Medici. Era egli un giovine di 26 a 27 anni, pretendendo appartenere all'antica
famiglia dei Medici, che dicevasi discendente da Carlo Magno. Pieno
d'ambizione, intraprendente, abile, era uno di quei Toscani di cui Ferdinando parlava
a suo cognato Leopoldo.
Durante la vita di Caramanico, contava su di
lui per rimpiazzare Acton, che nella sua qualità di straniero e di straniero
avido e tiranno, diveniva sempre più odioso al popolo ‑ ma alla morte di
Caramanico si pensò a de Medici, perchè quantunque Toscano, era egli più
italiano di Acton ch'era Irlandese.
Dal canto suo la regina aveva accordato una
certa attenzione a Medici che era un uomo giovine, bello ed intelligente.
Era più di quel che abbisognava per destare
la gelosia di Acton, il quale era forte solo per la debolezza di Carolina.
Egli fece stendere da un professore di
matematica, distinto di spirito, miserabile di carattere, una denuncia la quale
accusava il cavaliere Medici di aver preso parte alla cospirazione che aveva
avuto uno scioglimento tanto tragico sulla piazza del Castello.
Bisogna vedere in Colletta, che ammette molta
importanza a questa lotta, tra l'Inglese ed il Toscano, con quale arte Acton
presenta l'accusa, fa divedere al re ed alla regina i sospetti, ch'egli finge
di avere, e finisce di ottenere dal re a Caserta la convocazione di un
consiglio di stato composto del generale Pignatelli, del cardinal Ruffo, del
duca di Gravina e del principe di Mignano. Il risultato del consiglio fu che
bisognava metter sotto processo il cavaliere de Medici.
Solamente siccome nella sua qualità di
reggente della Vicaria, il cavaliere de Medici avea fatto parte della antica
Giunta di Stato, si decise che quella, la quale potrebbe essere disposta alla
indulgenza per l'accusato, verrebbe sciolta, ed un'altra sarebbesene creata.
Questa nuova giunta componevasi di Vanni, che
la regina aveva da poco nominato marchese per ricompensarlo dei servigi
resi del giudice Guidobaldi, e del
principe di Castelcicala.
Quest'ultimo non solo accettò questa carica
infame di giudice, non della giustizia ma della vendetta, ma vantavasi di esser
superbo d'esser chiamato a combattere i nemici del suo Dio e del suo re.
La regina, come lo si è potuto vedere, era
violenta, e come tale, indiscreta. Dal momento in cui ella credette colpevole
de Medici, estrema in tutto, ella ne divenne acerrima inimica.
All'uscir dal consiglio, il quale avea deciso
il giudizio, incontrò la famosa marchesa di S. Marco sorella del cavaliere, e
non poté trattenersi dal dire :
‑ Ebbene, vostro fratello cospirava
adunque contro il governo del re, finalmente, noi lo conosciamo, e non gli
lasciamo nemmeno il tempo di diventare un Robespierre.
E passò oltre.
La marchesa, come lo si comprende bene, si
affrettò di raccontare la cosa al fratello. Questi sicuro della sua innocenza,
non chiese di meglio che d'affrontare il pericolo. Recossi direttamente al
palazzo, chiese di vedere il re, penetrò fino ad esso, ma trovò un uomo
prevenuto il quale non volle ascoltar nulla e sopratutto nulla volle
comprendere.
La domane si notificava al cavalier de Medici
la sua destituzione e lo si rinchiudeva nella cittadella di Gaeta.
Passiamo all'uomo incaricato di accusar de
Medici, al troppo celebre Vanni, uno dei più insaziabili carnefici di Napoli,
il quale affrettossi troppo di farsi saltare in aria le cervella, in un momento
di disperazione e non potette vedere le stragi del 1799, che gli avrebbero
arrecato una immensa gioia.
Vuolsi avere un'idea, secondo lo storico
Cuoco, di quel ch'era la nazione Napolítana, quando comparve questo mostro a
tre teste, questo cerbero ch'ebbe nome Vanni, Castelcicala e Guidobaldi?
A Cuoco che parla.
« La corte domandava miserabili, e questi
occorsero in gran numero. Castelcicala Guidobaldi e Vanni si misero alla loro
testa. La nazione fu assediata da uno stuolo di spie e di delatori i quali
contavano i passi, notavano le parole, facevano attenzione al color del volto,
ed interrogavano fino i sospiri. Da quel momento non fuvvi sicurezza per
alcuno. Gli odi privati trovarono una sicura via per giungere alla vendetta, e
coloro che non avevano nemici ne trovavano nei loro amici medesimi, che la sete
dell'oro vendeva a Vanni, o l'ambizione ad Acton.
Cosa può restar d'onorevole, noi lo
domandiamo, ad una nazione nella quale il potere dispensa ai soli delatori
gl'impieghi, gli onori e le ricchezze? nella quale se un onest'uomo si presenta
per chiedere il premio di utili, e di onorevoli fatiche, gli si risponde,
ch'egli si faccia prima un merito e qual'è accetto merito? quello della spia e
del delatore, di modo che per giungere a questo merito bisogna aver cagionato
la rovina di dieci oneste persone almeno. Speriamo che il nome di coloro che la
corte riconobbe per persone di merito non cadrà nella dimenticanza della
vendetta dei posteri ».
Vanni era appunto l'uomo di cui avevasi
d'uopo, a capo d'un tribunale come quello della Giunta di stato.
Egli riuniva ad una estrema ambizione una
crudeltà senza limiti, e per sventura dell'umanità era esso entusiasta.
L'affare di cui occupavasi era sempre un grande affare, atteso che egli lo
ingrandiva con tutti i mezzi della sua immaginazione.
Tali uomini sono più che pericolosi, essi
sono funesti, perchè non sapendo soddisfare l'ambizione loro con azioni
veramente grandi, danno una grandezza immaginaria ad azioni mediocri, le sole
che essi possono produrre.
Vanni avea cominciato dal farsi una
riputazione di giudice integerrimo e severo nella condotta che avea serbata col
principe di Tarsia, il quale era stato per alcuni anni direttore della fabbrica
di sete, stabilita dal re a San Leucio. Il re ed il principe di Tarsia avevano
commesso ciascuno un errore. Quegli nominando direttore d'una fabbrica di seta
un gran signore che non aveva idea veruna di quel commercio, questo
coll'accettare quell'incarico. Quel che dovea accadere accadde. Tarsia uomo
onesto ed incapace di frode, ma incapace anche di impedire le fraudi altrui,
dopo due o tre anni trovò un deficit di 500,000 scudi nei conti.
Vanni fu incaricato di liquidar quest'affare.
La cosa era la più facile che fossevi al
mondo, Tarsia voleva e poteva pagare, ma Vanni tirò le cose a lungo e fece
durare molti anni una faccenda che poteva esser terminata in due ore. Il trono
di Ferdinando cadde, e la verificazione durava ancora, e per tutta la sua
durata, Vanni non avea risparmiato nè le vessazioni nè gl'insulti alla famiglia
del Principe.
Gli uomini di buon senso trattavano Vannì gli
uni da imbecille, gli altri da ambizioso, perch'egli sapeva che comportandosi a
quel modo faceva piacere ad Acton, ma la corte ed il popolo esclamavano: Che
giudice integerrimo, e con qual zelo e quale fermezza egli affronta un grande
di Spagna, un uffiziale del palazzo, un principe infine! E niuno rimarcava,
tranne quelli che non osavano dirlo, che la ingiustizia che si commette contro
i grandi, ha qualche volta la sua sorgente in una causa vile, tanto quanto quella
che si commette contro i deboli.
Al fisico, Vanni era un uomo piuttosto grande
che piccolo, il suo sguardo era concentrato e tetro, il Viso del color della
cenere; il suo passo era irregolare e come le tigri e le altre bestie feroci,
parca che strisciasse o saltellasse piuttostochè camminasse. I suoi atti
tendevano a stordire ed a schiacciar gli altri, ed avevano per risultato di
schiacciare e stordir se stesso. Eravi in lui qualche cosa di Marat e di
Fouquier Thinville insieme.
La prima volta che Vanni comparve in mezzo ai
magistrati che dovevano comporre con lui la Giunta di stato, entrò tutto
spaventato, coi suoi occhiali posti sulla fronte, esclamando:
‑ Signori, signori, son due mesi ch'io
non dormo più, vedendo i pericoli ai quali è esposto il mio re.
E siccome ad ogni occasione non cessava dal
ripeterere, il mio re, il presidente Cito, uomo rispettabile e per la sua
carica e per sessant'anni d'una vita irriprovevole, lo stesso che votò per la
semplice reclusione di Tommaso Amato, come pazzo, stanco di sentirlo adoperar
sempre quell'insolente pronome possessivo, mio re, esclamò :
‑ Il vostro re, il vostro re, cosa
intendete con queste parole, che nascondono il vostro orgoglio sotto le
apparenze del zelo? Perchè non dite semplicemente il nostro re? Il re, a quel
che parmi, lo è per tutti noi, e lo amiamo tutti egualmente.
Queste parole bastano per fare apprezzare i
due uomini, ma, dice Cuoco, in un governo debole, quegli che grida a voce alta
il mio re deve naturalmente aver il vantaggio su l'altro che dice il nostro re.
Mercè le cure di Vanni, tutti i castelli
tutte le fortezze tutte le prigioni furono tosto piene di sospetti. Furono
questi ammonticchiati in schifosi carceri privati di aria di luce, e quasi di
alimento. Vissero così parecchi anni senza potere ottenere nè la libertà, nè un
giudizio, e senza saper nemmeno perchè trovavansi prigioni. Dopo quattro anni
furono quasi tutti liberati dopo essere stati riconosciuti innocenti. Vanni
supremo direttore del dolore pubblico non si occupava di coloro ch'erano in
prigione, ma soltanto d'imprigionare altri. Egli osava dire ad alta voce che
non facevasi garante della sicurezza dei suoi augusti sovrani, se non gli si
lasciava facoltà d'incarcerare almeno 20,000 giacobini.
Se un padre, un figlio, una figlia, un
fratello, una sposa, un'amante, venivano a pregar Vanni per un amante, per uno
sposo, per un fratello, per un padre o per un figlio, la preghiera dei parenti
o degli amici, aggiungeva forza al delitto delle persone. Se ricorreva al re,
era cosa più inutile, ed anzi più pericolosa, perchè era la regina allora, che
facendosi garante di Vanni, rispondeva di costui: ‑Vanni diceva continuamente
:
‑ lo tengo le fila d'una cospirazione,
sono sulle traccia di nuovi complotti.
E Carolina che temeva sempre nuovi colpevoli
e nuove congiure approvava tutto, e diceva a Vanni Son contenta di voi,
continuate.
E Vanni continuava.
Questa dittatura di Vanni, questo terrore
bianco di Napoli doveva durare quattro anni ‑ Perdiamolo di vista per un
momento, essendo obbligati bentosto di ritornarci.
Momentaneamente ecelissato dalla scena
militare, dopo l'assedio di Tolone, Bonaparte eravi ricomparso in mezzo ad un
uragano ‑Incaricato del comando della forza armata di Parigi il 13
Vendemmiaio, egli aveva schiacciato gl'insorti sui adini della chiesa di San
Rocco, di cui gli uomini della mia età possono ricordarsi ancora d'aver visto
la facciata costellata dalle palle e dalle schegge.
Questa vittoria sulla guerra civile avealo
condotto direttamente al comando in capo dell'armata d'Italia.
Dovettero stranamente sorridere di disprezzo
quei vecchi generali dell'altro lato delle Alpi e della Savoja che chiamavansi
il Principe Carlo, Alvinzi, Wurmser, Beaulieu ‑ quando videro la
repubblica francese tanto pazza da affidare le suo sorti ad un giovine di 26
anni.
Beaulieu fu battuto a Cairo, a Montenotte, a
Millesimo, a Dego, al ponte di Lodi.
Wurmser a Castiglione, a Rovereto, a Bassano.
Alvinzi ad Arcole, a Rivoli, e sotto Mantova.
Finalmente il principe Carlo dappertutto ove
fu incontrato.
Il papa, il re di Sardegna, il Duca di
Modena, e quello di Toscana firmarono o implorarono la pace.
Tutto ciò accadde in un anno.
Durante questo periodo di tempo il re di
Napoli solo continuava a provocare il vincitore, mandando all'Austria nuovi
reggimenti di cavalleria, e lanciando manifesti sul tenore del seguente.
« Quei Francesi che uccisero i loro re; che
disertarono i tempii trucidando e disperdendo i sacerdoti; che spensero i
migliori e i maggiori cittadini; che spogliarono dei suoi beni la Chiesa; che
tutte le leggi, tutte le giustizie sovvertirono, que'Francesi non sazii di
misfatti abbandonando a torme le loro sedi, apportano gli stessi flagelli alle
nazioni vinte, e alle credule che li ricevono amici. Ma già popoli e prin- cipi
armati stanno intesi a distruggerli, Noi imitando l'esempio de'giusti e degli
animosi, confideremo negli aiuti divini e nelle armi proprie. Si facciano preci
in tutte le chiese; e voi, devoti popoli napoletani, andate alle orazioni per
invocare da Dio la quiete del Regno; udite le voci de'sacerdoti; seguite ne i
consigli, predicati dal pergamo e suggeriti dai confessionali. »
« Ed essendosi aperta in ogni comunità
l'iscrizione dei soldati, voi, adatti alle armi, correte a scrivere il nome su
quelle tavole; pensate che difenderemo la patria, il trono, la libertà, la
sacrosanta religione cristiana, e le donne, i figli, i beni, le dolcezze nella
vita, i patrii costumi le leggi lo vi
sarò compagno alle preghiere ed ai cimenti; che vorrei morire quando per vivere
bisognasse non esser libero, e cessare di essere giusto. »
Bisogna notare che nel momento in cui
Ferdinando giurava al suo popolo d'esser pronto a rinunziare alla vita
piuttosto che alla libertà ed alla giustizia, dieci o dodicimila cittadini
erano privati della libertà e giudicati contro ogni giustizia.
Ma le proteste ed i giuramenti non costano
gran cosa ai re. A vero che si mantengono così male quelli che si fanno loro !
Il re continuava indirizzandosi a'vescovi, ai
curati, ai confessori ed ai missionari.
« E’ nostra volontà che nelle chiese de'due
regni si celebri tridui di orazioní e di penitenza; e ne sia sco- po invocare
da Dio la quiete de'miei stati. Perciò da gli altari e da confessionili voi
ricorderete ai popola ni i debiti di cristiano e di suddito, cioè cuor puro a
Dio, e braccio armato a difesa della religione e dei trono.
« Mostrate gli errori della presente Francia,
gl'inganni della tirannia che appellano libertà, le licenze o peggio delle
truppe francesi, l'universale pericolo. Eccitate con processioni ed altre sacre
cerimonie lo zelo del popolo. Avvertite che l'impeto rivoluzionario, comunque
inteso a scuotere tutti gli ordini della società, segna a morte ì due primi, la
Chiesa e il trono. »
Di tutti coloro ai quali queste circolari
erano dirette, i più ardenti a seguire le raccomandazioni ch'esse contenevano o
riguardo loro, furono i preti.
Le preghiere dei tre giorni furono tosto
annunziate in tutto il regno e cominciarono immediatamente nella chiesa
Metropolitana di San Gennaro.
Il re, la regina, i ministri, i cortigiani,
la magistratura, e tutto ciò che avea relazione in un modo o nell'altro col
governo, ingombrarono i tempii in modo che incessantemente la piena stragrande
di fedeli straripava nella strada. L'ardore delle preci dava la misura della
paura di quei che pregavano, ed il zelo dei preti, i quali predicavano una
nuova giornata di San Bartolomeo, mise non solo al bando della legge ma anche
al bando dell'onore quei francesi che osavano reclamare i diritti dell'uomo,
chiamare i popoli a libertà, punire un re che li tradiva, impadronirsi dei beni
di coloro che combattevano contro essi, e vincere i rappresentanti della
vecchia Europa e della vecchia tirannia. Quei Francesi erano, secondo i preti,
eretici, gentili, scomunicati, verso i quali non erasi obbligato di conservare
nè la fede del giuramento nè le leggi dell'umanità, potevansi inseguire come
briganti, ucciderli come cani, pugnalarli alle spalle, assassinarli durante il
loro sonno, avvelenarli nei loro pasti. Per essi e verso essi che avevano
disprezzato tutte le cose sante, nulla più di sacro. ‑ Uccidere un
francese, in qualunque modo si fosse, valeva avanzare d'un gradino nella salita
della scala che conduce al cielo.
Ecco quel che il pulpito diceva: giudicate
cosa dovea dire il confessionale.
I ciechi trucidati ad Augusta, i prigionieri
francesi avvelenati a Brindisi, i patrioti squartati impiccati, arsi nelle vie
di Napoli furono i frutti in questa doppia predicazione.
L'entusiasmo non era eguale per gli
arrollamenti volontarii: il fanatismo ne fece qualcuno, ma la forza fece il più
‑ Ricompense privilegi una paga alta furono promesse a quelli che
andrebbero contro l'inimico; a quelli che si distinguevano era promessa
l'esenzione dalle tasse comuni per dieci anni; poi siccome tutte queste
seduzioni eran lungi dal dare la cifra di militi che si desiderava formare, si
tentarono i baroni con ogni specie di brillanti promesse, onde essi
reclutassero fra i loro vassalli, e venissero con essi sotto la bandiera
dell'ordine e della religione.
Noi sappiamo cosa era l'ordine, e quel che
intendevasi per religione.
Fu così e mercè tutti questi artifizi che si
giunse a completare l'armata ed a riunire 60 a 70,000 uomini sotto il vessillo.
Trenta mila mandati ai campi ed alle fortezze
delle frontiere dovettero minacciare i Francesi.
Il primo segno di noncuranza, se non di
collera, che il cielo diede, per il re, che prendeva con tanto calore i suoi
interessi, e per gli uomini ch'egli avea chiamato a sostenerlo, fu una epidemia
che egli seminò sulle rive del Garigliano e del Tronto, cioè il Liri ed il
Truentium antichi. La maggior parte di coloro che furono colpiti da questa
febbre, morirono in cinque giorni, e pochi in sette. Dieci mila soldati
morirono di quel contagio, al quale la scienza non solo non trovò rimedio, ma
non seppe nemmeno dar nome.
Per quei disgraziati, come lo si vede, il
martirio non si fece aspettare.
Nel medesimo tempo che quelle circolari reali
facevano appello alla baionetta, al pugnale ed al veleno, un editto portava
pena di morte per chiunque si fosse avvicinato ai repubblicani, avesse ricevuto
lettere da essi, o ne avesse loro scritto, ogni riunione di dieci persone era
riguardata e ritenuta come delitto di lesa Maestà ; tre testimonianze o anche
tre denunzie bastavano per fare applicar la pena di morte. ‑ La coscienza
dei giudici era sostituita al dritto ed all'equità, e si sa chi erano quei
giudici :
Vanni, Guidobaldi, Castelcicala.
A misura che questa guerra di esterminio
preparavasi contro la Francia, giungevano a Napoli le notizie delle vittorie
dei Francesi e dei disastri di Wurmser e di Beaulieu. E’ vero che fuvvi un
momento di speranza quando Bonaparte fu obbligato di togliere l'assedio da
Mantova, per andare a battere Alvinzi a Rivoli.
Ma Alvinzi fu sconfitto con tanta rapidità,
Bonaparte ritornò tanto presto a riprender l'assedio che avea tolto, che trovò
ancora nei fossati i cannoni che egli avevavi lasciato, e che gli Austriaci non
avevano avuto tempo di far entrare nella città.
Serviva di consuolo a tutte queste traversie
un sentimento d'orgoglio nazionale ‑ quattro reggimenti napoletani
avevano sostenuto la ritirata di Beaulieu nel Tirolo ed eransi degnamente
condotti. Il generale Cutò era stato fatto prigioniero mentre faceva prodigi di
valore ed il principe di Moliterno che comandava una compagnia di cento uomini,
aveva ricevuto combattendo corpo a corpo, un colpo di sciabola, che
tagliandogli il viso aveagli crepato un occhio.
Presa Mantova, i Francesi padroni delle
legazioni, la corte di Roma piegante la fronte innanzi al vincitore,
l'armistizio di Brescia firmato a condizioni onerose pel santo padre, il
governo napoletano comprese che egli aveva commesso nuovamente uno di quelli
errori pei quali un giorno o l'altro doveva esser punito.
Acton e Carolina ebbero paura, Ferdinando
temeva già da lungo tempo.
E non tremava mica per nulla. Il Direttorio,
che da gran tratto aveva gli occhi sopra Napoli, e che d'altronde era tenuto al
corrente, dal suo ambasciadore Cacault, di tutti quei preparativi ostili, i
quali si addimostravano ogni momento per mezzo di spergiuri, aveva scritto a
Bonaparte, di prendere una volta per tutte, vendetta di tutti quei trattati
fatti, e non mantenuti dal re di Napoli. Ma Bonaparte che fissava già il suo
sguardo sopra un altro punto, onde lasciare il tempo, ai lauri mietuti in
Italia di germogliar nuovamente, avea risposto :
‑ Oggi noi non saremmo forti abbastanza
per vendicarci, ma verrà un giorno nel quale faremo espiare alla corte di
Napoli i suoi tradimenti passati e futuri, perchè l'odio dei desposti contro la
Francia non cesserà di molestarci se non quando la nostra esistenza politica da
nuova sarà divenuta vecchia.
Napoleone si ricordò di questa minaccia di
Bonaparte nel 1806, e la mise in esecuzione.
Come se del resto Ferdinando avesse
conosciuto i sentimenti di Bonaparte, a suo riguardo, mandogli il principe di Belmonte per chiedergli di
convertire in un serio trattato di pace l'armistizio di Brescia.
Il dì 11 ottobre fu sottoscritta alle
condizioni seguenti. Non si dirà che i termini del trattato sieno ambigui.
« Napoli, sciogliendosi dalle sue alleanze,
resterà neutrale; impedirà l'entrata ne'suoi porti di vascelli oltre il numero
di quattro de'potentati che sono in guerra; darà libertà a'Francesi carcerati
ne suoi domini per
sospetto di Stato ; intenderà a scoprire e punire coloro che
involarono le carte al ministro di Francia Makau; lascerà libero ai Francesi il
culto delle religioni; concorderà patti di commercio che diano alla Francia nei
porti delle due Sicilie que' medesimi bene fizi che le bandiere più favorite vi
godono; riconoscerà la repubblica Bàtava, e la riguarderà compresa nel presente
trattato di pace ».
E per patti segreti:
« Il re pagherà alla repubblica francese otto
milioni di franchi (due milioni di ducati); i Francesi, prima che si accordino
col pontefice, non procederanno oltre la fortezza di Ancona, nè seconderanno i moti rivoluzionari delle
regioni meridionali d'Italia ».
L'Armistizio di Brescia fu il prologo della
pace di Tolentino sottoscritta il 19 febbraio 1797.
Mercè questa pace Pio VI rinunziò alle sue
pretensioni sopra Avignone e sul contado venessino. Cedè Bologna, Ferrara e la
Romagna, s'impegnò a pagare 25 milioni in numerario, e cinque in capo‑lavori
di pittura e di scoltura.
Gli Stati ceduti alla Francia furono
autorizzati di erigersi in repubblica.
Così il pericolo che Ferdinando avea creduto
allontanare avvicinavasi: i Francesi retrocedevano, ma il principio, ma l'idea,
più ch'essi forte, rimaneva ed impiantavasi al loro posto.
Il trattato di Campo Formio sottoscritto il
17 ottobre dell'anno medesimo seguì quello di Tolentino.
Per quel trattato l'Austria cedeva i paesi
Bassi alla Francia, Milano, Mantova e Modena alla repubblica Cisalpina, lo
stato di Venezia è abbandonato all'imperatore, tranne le Isole Jonie, ritenute
dalla Francia.
I ministri imperiali ricevettero in dono per
quel trattato, una parte dei diamanti dati dal Papa.
Bonaparte vittorioso dopo una campagna, che
si può mettere accanto ai più bei fatti d'armi d'Alessandro, di Annibale e di
Cesare, tornò a Parigi, ove fu ricevuto dal presidente del direttorio, il quale
chiamollo l'uomo della provvidenza, e dove la repubblica gli diede uno
stendardo sul quale era ricamata la seguente iscrizione.
« Il generale Bonaparte ha sconfitto cinque
armate, ha vinto in diciotto battaglie campali ed in sessantasette
combattimenti, ha fatto prigionieri di guerra 150,000 soldati nemici, ha
mandato in Francia 160 bandiere per decorarne i nostri edifici militari, 1180
pezzi di artiglieria per arricchirne i nostri arsenali, 200 milioni di franchi
al tesoro e 51 bastimenti da guerra nei nostri porti, i capolavori dell'arte
per abbellire le nostre gallerie ed i nostri musei; preziosi manoscritti alle
nostre biblioteche pubbliche. Finalmente ha affrancato diciotto popoli.
Il re di Napoli momentaneamente amico della
Francia riconobbe la repubblica Cisalpina.
Il trattato di Campoformio aveva una grande
importanza, esso dava alla Francia le sue frontiere naturali sulle Alpi e sul
Reno. L'Austria vinta perdeva territorio, ma guadagnava uomini. La repubblica
di Venezia pergiura ed omicida cadeva sotto il peso della propria decrepitezza,
la repubblica Cisalpina finalmente era riconosciuta e consacrata.
Se tutti i sovrani fossero stati della buona
fede medesima della repubblica francese, giunta all'apice della sua possanza e
della sua prosperità, la pace era assicurata in Europa per 10 anni.
Il re delle Due Sicilie che probabilmente non
credeva alla lunga durata di questa pace, risolvette di profittarne per
celebrare il matrimonio di suo figlio Francesco, divenuto erede della corona,
per la morte del suo fratello primogenito con l'arciduchessa Clementina d'Austria.
Questo matrimonio già da sette anni stabilito era stato prorogato a causa della
giovinezza dei futuri sposi, e nel momento ch'ebbe luogo, il principe Francesco
avea venti anni, e la principessa Clementina 15 appena.
Una squadra Napoletana andò a prendere
l'arciduchessa Clementina a Trieste e la condusse a Manfredonia, ove
aspettavala il principe Francesco, quantunque le cerimonie religiose dovessero
compiersi a Foggia, cioè a 5 o 6 leghe dentro terra.
Il re e la regina avevano accompagnato il
figlio loro, e i principali signori della Corte avevano accompagnato il re.
Il matrimonio fu celebrato nella seconda metà
del mese di giugno ‑ ed a proposito di questo mese di giugno furono fatte
grandi grazie ‑Acton diggià primo ministro fu nominato capitan generale ‑
44 vescovi furono nominati a sedi che il re avea lasciato vacanti, per
appropriarsene i redditi ‑ Titoli, gradi e decorazioni furono accordate
agli ufficiali ch'eransi segnalati contro la Francia nella guerra d'Italia;
infine molti abitanti di Foggia nella loro qualità di abitatori delle Marche,
ed in compenso del lusso straordinario spiegato nella feste, furono nominati
Marchesi.
Ma in mezzo a queste feste tutti potettero
osservare l'incancellabile malinconia della giovane arciduchessa.
Questa tristezza proveniva da qualche amore
ch'ella avea lasciato dietro di se nella magione dei Cesari, o da quella
mestizia impressa nel cuore di coloro che denno morir giovani, e che traspare
loro in volto.
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