I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro III 

 

 

CAPITOLO XIII

 

« E impossibile, dicono le memorie per servire alla istoria delle ultime rivoluzioni di Napoli, di descrivere la gioia che provarono i patriotti alla partenza dei Francesi; essi dicevano che solo da questo felice momento erano effettivamente liberi, e il loro zelo toccò l'ultimo grado di entusiasmo e di furore ».

In fatti, tutti i patriotti, avendo la sventura di portare il nome di Ferdinando, nome che l'adulazione avea reso molto comune a Napoli, o pure portando il nome di altro re, chiesero al Governo repubblicano di essere autorizzati a cambiare giuridicamente di nome, arrossendo di avere qualche cosa di comune col tiranno; mille scritti furono pubblicati contro il governo che svelavano i doppi misteri amorosi di Ferdinando e di Carolina. Alle volte era il fiume Sebeto che, come l'antico Scamadro, prendeva la parola e si metteva dalla parte del popolo ; alle volte, evocavasi con queste parole affisse in Cartelloni sulle mura della chiesa del Carmine, esci fuori Lazzaro, l'ombra di Masaniello ; alle volte in fine era il Gigante di Palazzo, l'antico Giove, di cui una palla del castello S. Elmo aveva rotta una coscia, che alzava, ad esempio di Giove Olimpico, la sua voce tonante e sovrana. Da sua parte, Eleonora Pimentel nel suo Monitore, eccitava lo zelo dei patriotti, e descriveva Ruffo, come un capo di briganti e di assassini, aspetto sotto il quale, grazie all'ardente repubblica, esso è apparso agli occhi della posterità. Per infondere maggior coraggio ai suoi compatriotti, essa non temeva di mentire; diceva che una flotta francese e spagnuola, con 30,000 uomini da sbarco era già, in vista da Genova e veniva in soccorso di Napoli: ai teatri non rappresentavansi che opere di Alfieri o altre, i cui eroi erano Armodi, Bruto, Timoleone, Cassio o Catone.

Alla fine di uno di questi spettacoli, si seppe la presa, la rovina, la distruzione d'Altamura, tutta la platea si alzò con uno slancio unanime e mise un sol grido: Morte ai tiranni. Viva la libertà!

Poscia s'intuonò la Marsigliese Italiana, l'inno alla libertà di Vincenzo Monti, che riportiamo qui appresso:

 

1.

 

Il Tiranno è caduto! Sorgete

Gente oppressa: natura respira.

Re superbi, tremate, scendete,

Il più grande dei troni crollò!

Lo percosse coi fulmini invitti,

Libertade primiero dei dritti;

Lo percosse del vile Capeto

Lo spergiuro che il cielo stancò.

Re superbi! l'estremo decreto

Per voi l'ira del cielo segnò!

 

2.

 

Tingi il dito in quel sangue spietato,

Francia, tolta alle indegne catene;

Egli è sangue alle vene succhiato

Dei tuoi figli che il crudo tradì.

Cittadini, che all'armi volate,

In quel sangue le spade bagnate;

La vittoria, nei bellici affanni,

Sta sul brando che i regi ferì.

Giù dal trono, crudeli tiranni!

Il servaggio del mondo finì.

 

3.

 

Oh soave dell'alme sospiro

Libertà, che del cielo sei figlia!

Compi alfine l'antico desiro

Della terra che tutta è per te.

Ma tua pianta radice non pone

Che fra brani d'infrante corone;

Nè si pasce di mute rugiade ;

Ma di nembi e del sangue dei Re.

Re superbi, già trema, già cade

Il poter che il delitto vi diè.

 

4.

 

Dalla foce del Reno veloce,

Fino all'onda che Scilla divide,

Già tua luce all'Europa sorride,

Già l'Italia dal sonno destò.

E sull'Alpi lo spettro di Brenno,

Fiero esulta, ed insulta col cenno,

Un ramingo che il regno ha perduto

Perchè ingrato e spergiuro regnò.

Re spergiuro, ogni labbro fu muto

Sul tuo fato, nè cuor palpitò.

 

5.

 

Chi è quel vile che vinto s'invola

Via sull'onda che l'Etna circonda?

Versa, o monte, dall'arsa tua gola,

Tuoni e fiamme, onde l'empio punir!

Sulle regie sue bende profane

Fuman l'ire dell'ombre romane;

E di Bruto il pugnale già nudo

Gli è sul petto ; già chiede ferir.

Re insolente, re stolto, re crudo,

Di tal ferro non merti morir!

 

6.

 

Oh soave dell'alme sospiro,

Libertà, che del cielo sei figlia!

Fin del Nilo le sponde sentiro

Di tal luce la dolce virtù.

Di tal luce ancor essa s'infoca,

Stanca l'Asia di ceppi, ed invoca

Bonaparte, il maggior dei mortali

Che geloso fa Giove lassù!

Bonaparte ha nel cielo i rivali,

Perchè averli non puote quaggiù.

 

7.

 

Lo splendor delle franche bandiere,

Gli occhi all'Indo da lungi percote,

Che si scuote, e sull'aure leggiere,

Lor dirige segreto un sospir!

Ma del Cafro sull'ultimo lito

L'anglo attira lo sguardo smarrito,

Che dell'oro, sua forza, già vede

La gran fonte al suo piede finir.

Traditore! ‑ nel mezzo del core

Finalmente ‑ si sente ferir!

 

8.

 

Punitrice di regi delitti,

Libertade, primiero dei dritti,

Gli astri sono il tuo trono, e la terra

Lo sgabello del santo tuo pie.

Ma tua pianta radice non pone

Che fra' brani d'infrante corone

Nè si pasce di mute rugiade

Ma di nembi e del sangue dei re!

Re superbi, già trema, già cade

Il poter che il delitto vi diè

 

Le stesse donne davano l'esempio del patriottismo; esse ricercavano le tenerezze dei più ardenti patriotti, sprezzavano gli aristogratici: e taluna arringava il popolo sulle pubbliche piazze, facendogli comprendere i suoi doveri e i suoi interessi.

Da ogni parte, formavansi società patriottiche simili a quelle di Francia ‑ la più importante era la società filantropica che aveva per scopo di democratizzare i lazzaroni. I suoi membri tenevano una scuola d'istruzione pubblica sulla piazza del Mercato vecchio, bevendo e fraternizzando nelle bettole con l'ultimo popolaccio. Un monaco, Michelangelo Ciccone, traduceva il Vangelo ‑ cioè il gran libro democratico ‑ in dialetto napoletano, adattando alla libertà tutte le massime della dottrina Cristiana ; i parrochi e i preti patriotti, mentre che i parrochi ed i preti Borbonici lottavano contro di essi dal confessionile e colla propaganda segreta, spargevano nuove, ed ignote massime coi loro sermoni, e fra questi ultimi facevasi notare pel suo zelo e pel suo attaccamento ai principii rivoluzionarii, il Padre Benoni, religioso francescano di Bologna. La sua cattedra era nel mezzo della Piazza Reale, ai piedi dell'albero della libertà, al medesimo sito in cui Ferdinando aveva fatto voto di fabbricare una chiesa, se la provvidenza gli rendesse il trono. Colà, col crocifisso in mano, egli paragonava le pure massime, dettate da Gesù ai popoli e ai Re, a quello che i re avevano usato verso i popoli che, dimentichi della loro forza, li avevano, leoni addormentati, lasciato fare ; e a questi leoni, ora svegliati e pronti a ruggire e a sbranare, egli spiegava il triplice dogma, completamente ignoto a Napoli in quell'epoca, appena intraveduto oggi ‑ della libertà, dell'eguaglianza, della fratellanza.

Il Cardinale Arcivescovo, sia per timore, sia per convinzione, appoggiava le massime predicate dai preti patriotti, ordinava delle preghiere in cui il Salvam fac Rempublicam stava invece del Salvum fac Regem. Fece anco di più; dichiarò che i nemici del governo repubblicano e quelli che lavoravano alla sua rovina, erano da lui esclusi dall'assoluzione, eccetto in extremis. Aggiungeva a questi, quelli che conoscendo dei cospiratori e dei depositi d'armi, non li denunziavano.

Una lettera pastorale nella quale egli esponeva questi principii e annunziava queste punizioni, fu mandata per tutto il Regno: con essa smentiva il proclama di Ruffo, lo dichiarava nemico di Dio e dello Stato, e lo trattava da impostore che, in nome di una religione di pace, d'amore, e di misericordia, predicava la rivolta, il saccheggio e la morte. Per conseguenza, lo scomunicava unitamente a tutti i suoi seguaci.

Tali atti facevano grande impressione sul popolo: questo paragonava la vita devota del degno Arcivescovo alla vita più che empia dell'illustre Cardinale; e le persone che erano in dubbio per sapere chi dei due prelati aveva torto o ragione, in generale attirate per simpatia da una riputazione senza rimproveri, si mettevano dalla parte dell'Arcivescovo.

Abrial, da parte sua, adempiva coscienziosamente la missione che eragli stata affidata dal Direttorio.

Il potere legislativo fu da lui dato in mano a venticinque cittadini.

Il Potere esecutivo a cinque.

Il Ministero a quattro.

Scelse egli stesso i membri di questi tre poteri.

Nel numero dei nuovi eletti a questo terribile onore che doveva costar la vita a quelli che lo ricevevano, era Domenico Cirillo.

Era un uomo di Plutarco, uno dei più possenti rampolli dell'antichità, che fossero apparsi sulla terra di Napoli. Non era nè del paese, nè del tempo in cui era nato, e in cui vivea, ed aveva presso a poco tutte le qualità delle quali basta una sola a fare un uomo superiore.

Era nato nel 1734, l'anno stesso dello avvenimento al trono di Carlo III, a Grumo, piccolo villaggio della Terra di Lavoro; la sua famiglia era sempre stata un semenzaio d'illustri medici, di dotti naturalisti, e d'integri magistrati; pria dell'età di 20 anni, egli concorse per la cattedra di Botanica e l'ottenne. Viaggiò quindi in Francia e in Inghilterra, ove fu ricevuto membro della Società Reale; in Francia fece amicizia con Nollet, Buffon, D'Alembert, Diderot, e Francklin: sarebbe rimasto in Francia, lo diceva egli stesso, se glielo avesse permesso il suo amore per la madre.

Di ritorno a Napoli, si fece particolarmente medico del povero, dicendo che la scienza doveva essere un aiuto alla miseria e non un mezzo di fortuna, cosicchè, chiamato contemporaneamente da un ricco e da un povero, egli cominciava sempre dal povero, che dapprima soccorreva coll'arte, fino a quando rimaneva infermo, e convalescente lo manteneva a sue proprie spese.

Ciò malgrado, egli fu, come dicemmo, mal visto dalla Corte nel 1791, attesocchè il timore dei principii rivoluzionarii e l'odio ai francesi eccitarono Ferdinando e Carolina contro tutto ciò che a Napoli era nobile ed intelligente,

In fine nel 1799, chiamato da Abrial a far parte del nuovo governo, disse queste semplici parole, che si crederebbero dette da Licurgo o Solone, e trasmesse ai moderni tempi dall'antichità.

« Il pericolo è grande, ma l'onore è ancora più grande; io dedico alla repubblica le mie deboli forze, il mio talento, la mia fortuna, la mia vita. »

E Cirillo aveva ragione; non erano solo i Borbonici, Ruffo, Ferdinando, e Carolina, che erano da temersi ma quegli Eletti o meglio que' suoi devoti.

Erano i loro Compatriotti.

In nessun paese l'ignoranza non è più grande, in nessun paese non è più grande l'invidia e l'odio contro lo straniero. Dicemmo secondo il napoletano Nolli, la gioia che provarono i patriotti, allorchè si videro liberi dai francesi che avevano loro arrecata la libertà ; questa gioia ben presto venne turbata dall'idea che i francesi, quantunque assenti, pur rappresentati dall'organizzatore Abrial, avevano tuttavia conservata qualche potenza a Napoli. A questo riguardo sentiamo Coco, spirito illuminato, di cui l'educazione e il patriottismo non hanno potuto scuotere il pregiudizio della stretta ed assurda nazionalità.

« Per una rivoluzione, egli dice, non vi è oggetto più importante della scelta dei municipii. Dipende da essi che la forza del governo sia applicata convenientemente in tutti i punti: dipende da essi di fare amare o far odiare il Governo. Il popolo non riconosce che il suo municipio, e giudica da lui di coloro che non conosce.

« Per eleggere i municipii in una nazione, la quale anche nell'antica costituzione, aveva un governo municipale, si volle seguire il metodo di un'altra che non conosceva municipalità prima della rivoluzione; e così mentre si promettevano nuovi dritti al popolo se gli toglievano gli antichi. Era quasi fatalità seguire le idee, sebbene indifferenti, dei nostri liberatori.

« L'elezione dei municipii, fu affidata a un Collegio di elettori che furono scelti dal governo.

« Quale è dunque questa libertà e questa sovranità che ci promettete? dicevano le popolazioni. Prima i municipii erano eletti da noi; abbiamo tanto sofferto e tanto conteso per conservarci questo dritto contro i baroni e contro il Fisco! Oggi non lo abbiamo più. Noi dunque colla rivoluzione anzichè guadagnare abbiam perduto. »

Così, sotto il nome di amici delle leggi, si stabilì una società che ascese ben presto al numero di ottomila membri. Essa si aveva attribuito il dritto di sorvegliare il governo e i suoi impiegati; il suo primo lavoro fu di gettare il disfavore sopra ogni membro del governo, scelto dai francesi.

Uno dei primi esempi di questa ingratitudine, comune ai governi repubblicani, fu Carlo Laubert, cioè, un uomo che aveva tanto fatto per la repubblica.

Sotto pretesto di far rendere conto al primo governo provvisorio della sua amministrazione, fuvvi una specie di rivolta, nella quale Carlo Laubert fu arrestato dalla Guardia Nazionale.

Macdonald era ancora a Napoli in quel momento, e lo reclamò come addetto al servizio della repubblica Francese della quale egli portava l'uniforme; una volta fuori della prigione, Carlo Laubert volle aver ragione del suo arresto e chiese di arringare il popolo raccolto in folla davanti il palazzo Reale per insultarlo.

Allora, con un eloquenza, della quale aveva tante volte dato pruova, cominciò a dimostrare coll'esempio della Francia, che i primi autori delle rivoluzioni ne sono presto o tardi le vittime. Citò Camillo Desmoulins e Danton, questi due iniziatori della libertà; Bailly, Condorcet, Vergniaud, Robespierre; si giustificò chiaramente di tutte le accuse che gli si facevano, dichiarando che egli abbandonava i suoi ingrati concittadini, portando nel suo cuore la consolazione di aver gettato le prima fondamenta della loro libertà. Finalmente terminò il suo discorso con tanta energia e sentimento, che gli assistenti lo ricondussero in trionfo alla sua dimora, fra gli evviva e le acclamazioni, ma egli che conosceva non solo i suoi compatriotti, ma gli uomini di tutti i paesi, non si lasciò illudere da quel contracambio effimero, da quel trionfo momentaneo; partì con Macdonald e fece bene.

Questa ingratitudine prematura fu buona a qualche cosa : gli salvò la vita.

Le nomine continarono.

Si nominò una commissione di censori, incaricata di esaminare uno per uno, i talenti e la condotta dei membri del Direttorio e del Corpo legislativo, con facoltà di cassare e di punire secondo le circostanze. I loro dritti allora si estesero fino a proporre dei Cittadini capaci ed incorruttibili, per supplire a quelli che avevano cacciati.

Il Canonico Luparelli di Ariano fu nominato Presidente di questo tribunale, composto, ‑ compreso lui di sei membri.

Si creò un tribunale per giudicare i delitti di lesa nazione, come ne era stato creato uno per giudicare i delitti di lesa maestà, e questo tribunale fu messo sotto la Direzione del celebre avvocato, chiamato Vincenzo Lupo.

Poscia, si organizzò il nuovo ministero,

Il geometra De Filippis fu nominato ministro dell'Interno.

L'avvocato Pignatelli ebbe il Ministero di Polizia generale.

Raffaele Doria ebbe il Ministero della Marina.

E Gabriele Manthonet ebbe quello della Guerra.

Fermiamoci un istante su quest'ultima personalità, la più importante di tutte.

Gabriele Manthonet era nato a Pescara il 23 ottobre 1764, da Maria Teresa D'Espinosa, e da Cesare Manthonet oriundo francese; aveva per conseguenza 36 anni.

Era un uomo, dotato di gran forza di corpo, e grande energia d'animo; aveva l'umore, il coraggio, e lo spirito del cuore che, nelle grandi circostanze, trova quelle sublimi parole che si scolpiscono sulle pagine di bronzo della storia.

Nel 1784, era stato ammesso nell'artiglieria napoletan ; essendo cattivi i viveri, i suoi compagni lo scelsero onde portare al Ministro Acton le lagnanze del suo reggimento.

Acton lo ricevette più che freddamente, e vedendo che il giovane si riscaldava:

‑ Signore, gli disse, sembra che dimentichiate che il Re ha dei Castelli.

‑ Vedo bene, rispose Manthonet, che Vostra Eccellenza pensa ad alloggiarci, ma non a nutrirci.

In grazia di questa risposta, Manthonet ottenne un soprassoldo di 300 due all'anno.

Nel 1787 fu fatto ufficiale; nel 1789, luogotenente nel reggimento dell'Artiglieria della Regina; nel 1794, Capitano tenente; finalmente, nel 1798, era nominato Capitano Comandante del suo reggimento ed ajutante di Campo del Generale Fonseca.

In gennaio 1799, egli cercò di prendere l'iniziativa negli affari del suo paese; andò a trovare il Generale Mack a Capua, ove erasi rinchiuso dopo la rotta di Roma, e gli propose di marciare sopra Napoli, coi 40.000 uomini che poteva riunire, e proclamarvi la repubblica, per non riceverla da un generale francese e da truppe straniere. E' inutile dire che Mack respinse con indignazione questa proposizione.

Questo stesso uomo, nelle gravi circostanze in cui versava Napoli, fu nominato Ministro della Guerra.

Manthonet non perdette tempo: comprese che se la repubblica Napoletana poteva essere salvata, e già eravi dubbio, lo poteva solo dalle armi; accorse prontamente ai bisogni della guerra; riunì in legioni le truppe disperse in più colonne; incaricò Roccaromana il quale, con gran dispiacere, si vide tolto alle dolcezze del suo harem ‑ della formazione di un reggimento di cavalleria; ricostituì ed aumentò la divisione di Schipani; organizzò due legioni, diede il comando della prima a Spanò, calabrese che contava lunghi anni di servizio, nei gradi inferiori dello esercito, e quello della seconda a Wirtz cioè ad un antico colonnello svizzero, al servizio del Re Ferdinando, il quale sciolto dal suo giuramento per la fuga del Re, erasi ricordandosi la sua origine, arrollato per difendere la repubblica Partenopea.

Finalmente, un ultimo corpo di volontari fu formato., senza uniforme, quasi senza armi, che prese il nome di legione calabrese: questo corpo contava quattro mila uomini tutti calabresi, tutti ardenti sostenitori della libertà, tutti nemici di Ruffo, avendo ognuno una morte a rimproverare all'esercito sanfedista o al suo capo, avendo giurato di vendicare il sangue col sangue. Questo giuramento era scritto in tre parole sulla loro bandiera.

Vincere ‑ Vendicare ‑ Morire!

L'esercito organizzato e pronto a partire per marciare all'incontro dell'esercito Borbonico, che, per così dire, sentivasi avvicinare, si volle dare alla città uno spettacolo che la rassicurasse, e l'esaltasse.

Tutta la guardia nazionale a piedi ebbe ordine di schierarsi lungo la via Toledo; la cavalleria nazionale si ordinò in battaglia sulla piazza ove è la chiesa S. Ferdinando, e la fanteria rimpetto al Castello.

Un grande spazio era stato lasciato sgombro intorno all'albero della libertà, a dieci passi del quale era drizzato un rogo. Allora si vide avanzarsi un immenso corteggio; erano i membri del governo, col Generale Manthonet alla testa ; poi l'artiglieria, poi le tre bandiere tolte ai borboniani, una agli Inglesi, le due altre ai Sanfedisti ; poi cinque o seicento ritratti del Re e della regina raccolti da ogni parte e destinati al fuoco, poi finalmente, incatenati a due a due, i prigionieri di Castellammare e dei villaggi circonvicini.

Il popolo in frotta, rumoreggiante ed accalcato, seguiva la marcia, gridando: a morte i Sanfedisti, a morte i Borbonici! Esso non poteva supporre che i prigionieri si conducevano colà, per tutt'altro scopo che quello di fucilarli, o almeno trucidarli.

Questa era benanco la convinzione degli infelici prigionieri che camminavano a capo basso, e qualcheduno piangendo. Manthonet tenne un discorso all'esercito; l'oratore del governo, al popolo.

Allora si accese il rogo.

Il ministro delle finanze mostrò un enorme fascio di biglietti di banca, ammontanti alla somma di un milione e sei cento mila ducati ‑ 6 milioni di franchi che malgrado la pubblica miseria, il governo aveva economizzati in due mesi.

Il fascio fu gittato nel rogo e annientato dalle fiamme.

Poi vi si gettarono tutt'i ritratti della famiglia di Ferdinando che furono bruciati dal primo fino all'ultimo, fra le grida di Viva la Repubblica.

Ma quando, alla lor volta, vi si vollero gettar le bandiere, il popolo se ne impadronì, le trascinò nel fango, e nelle immondizie, e le ridusse in brani, i quali furono dati ai soldati per metterli in cima alle loro bajonette.

Restavano i prigionieri.

Al momento in cui dessi non aspettavano che la morte, Manthonet esclamò: Giù le catene

Allora alcune donne si precipitarono, e in mezzo agli evviva, alle lagrime, alle grida, in mezzo alla meraviglia, alla gioia in fine, desse fecero cadere i legami di trecento captivi, liberi ad un grido universale di grazia, e di viva la repubblica.

Nello stesso tempo, altre donne entrarono con bicchieri e bottiglie piene di vino, e i prigionieri stendendo verso la libertà le loro braccia libere, bevettero alla prosperità di quelli che dopo aver saputo vincere, cosa più difficile, sapevano perdonare.

La giornata si terminò con una festa che ricevette il nome di Festa della fratellanza.

La sera Napoli fu illuminata a giorno.

Ohimè! ... era il suo ultimo giorno di gioia; il domani, giorno della partenza dell'esercito, entravasi nei giorni di lutto.

Il mattino stesso di questa solennità, si era ricevuto la notizia di un triste dramma avvenuto nella capitale della Basilicata.

Il vescovo di Potenza che chiamavasi Francesco Serrao, era un calabrese, uomo di alta rinomanza nell'episcopato, nella letteratura, ma più conosciuto e più venerato ancora per la sua vita esemplare, per la sua carità evangelica che pel suo rango ed il suo sapere. Dotato di senso giusto, di animo generoso, aveva salutato la libertà come l'angelo del Popolo, promesso dagli evangeli, ed aveva non solo accolto, ma benanco propagato il movimento liberale e le dottrine rigeneratrici.

Ma l'azzurro di questo bel cielo repubblicano già si oscurava. Da ogni parte le bande sanfediste sorgevano, e in tutti i luoghi che desse visitavano vi recavano l'assassinio e il saccheggio. Il degno vescovo pensò a provvedere alla salvezza dei suoi concittadini.

Egli ebbe perciò l'idea di f ar venire dalle Calabrie, vale a dire dalla sua terra natia, una guardia di quegli uomini d'armi, noti col nome di armigeri, razza piena d'audacia e di coraggio, che al tempo della feudalità si metteva a soldo degli odi o delle ambizioni baronali, discendenti, o forse antenati dei nostri antichi concittadini.

Il degno Vescovo, pagandoli bene, sperava avere in questi uomini suoi compatriotti, dei difensori coraggiosi e devoti.

Ma le speranze di Monsig. Serrao furono deluse; dopo un breve spazio di tempo, si avverò che questi miserabili, avendo probabilmente ricevuto dal Cardinale Ruffo una somma più considerabile di quella riscossa dal Vescovo di Potenza, eransi corpo ed anima dati ai Borboni.

Questa banda aveva due capi, e questi capi erano conosciuti sotto i nomi di Capriglione e Falzetta.

In uno dei primi giorni d'aprile, Monsignor Serrao, stando ancora in letto, vide aprirsi la porta della sua camera: Capriglione apparve sulla soglia e senza preamboli, gli disse:

‑ Monsignore, il popolo vuole la vostra morte.

Il Vescovo alzò la mano dritta, e, facendo il gesto di un uomo che dà la benedizione,

‑ Benedico il popolo, egli disse.

Ma, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro a queste parole evangeliche, il Bandito mirò il prelato e fece fuoco.

Il Prelato, che erasi alzato per benedire il suo assassino, ricadde sul letto col petto forato da una palla.

La morte di Monsignor Serrao fu seguita da quella del suo Vicario Monsignor Serra, e da quella di due proprietari distinti, conosciuti per i primi liberali della città.

Essi chiamavansi Gerardangelo e Giovanni Liani erano fratelli.

Corse voce in quell'epoca che la morte del Vescovo era una vendetta particolare della regina Carolina, che avendo saputo quello che essa chiamava la sua apostasia, lo aveva condannato, ma nulla giustificò questa voce. Perciò non mettiamo a carico della regina che i soli delitti provati.

D'altronde, molti assicurano che la vendetta proveniva da un prete di cui Monsignor Serrao aveva censurato la condotta sregolare : e la cosa è tanto più probabile in quanto che questo prete, il quale chiamavansi Angelo Felice Vinciguerra, si riunì il domani del delitto alla compagnia di quei Banditi e contribuì con essi ad immergere Potenza nel sangue e nel lutto.

Allora i liberali, i patriotti, i repubblicani, tutti quelli in fine, che appartenevano ad un nucleo qualunque di opinioni nuove, furono presi da un profondo terrore, dappoichè si sparse per la città la voce che il giorno in cui doveva celebrarsi la festa del sangue di Cristo, cioè il giovedì dopo Pasqua, dovevano essere trucidati in mezzo alla processione, tutti coloro che avevano una reputazione di patriotti non solo, ma di ricchezza e di galantomismo in Potenza.

Il più ricco di tutti fra quelli che erano minacciati da questa voce che circolava, era ‑uno dei più onesti cittadini: Nicola Addone. Costui, uomo di cuore fiero, di animo risoluto, decise, di accordo col suo fratello, chiamato Basilio Addone, di purgare la città, da quella turba di Banditi.

Egli perciò chiamò quelli fra i suoi amici che reputava come uomini fra i più coraggiosi del paese: nel numero di questi erano un nominato Giuseppe Scafanelli, un jorio Mandiglia, un Maffei e sette o otto altri, dei quali ho inutilmente domandato i nomi alla memoria degli abitanti di Potenza.

Il risultato del Consiglio fu che bisognava annientare Capriglione, Falsetta e la loro Banda.

Per raggiungere lo scopo, si convenne riunirsi in un dato giorno, metà nella casa istessa di Nicola Addone, e metà nelle case vicine al Palazzo ove doveva farsi l'esecuzione.

Un popolano chiamato Gaetano Scolletta, calzolaio più conosciuto col soprannome di Sorcetto, s'incaricò di portare in tutte le case di quei banditi, un invito ad essi indrizzato onde venirsi a ricevere ciascuno una somma, che i cittadini eransi imposta con tassa volontaria, e che erano incaricati di distribuire loro, raccomandando i contribuenti alla buona guardia di essi.

Le ore del convegno erano differenti, affinchè tutta la compagnia non venisse in massa, lo che avrebbe reso il progetto di un'esecuzione difficile.

Il giorno arrivato, si fecero nascondere in un camerino basso, che precedeva il gabinetto nel quale Sorcetto, colle sue chiacchiere calcolate aveva dichiarato essere il cassiere, due mulattieri al servizio di Nicola Addone; questi mulattieri chiamavansi Laurito e Saraceno.

Questi due uomini, rinomati pel loro vigore, si situarono ciascuno ad un lato della porta tenendo in mano un enorme scure.

Questi due istrumenti di morte erano stati comprati e affilati per quella occasione.

All'ora stabilita i primi banditi arrivarono; furono introdotti ad uno ad uno, e alla lor volta, nella camera ove Laureto e Saraceno colpivano, e con un sol colpo abbattevano un uomo con maggiore aggiustatezza che nol facesse un macellajo con un bue.

Immediatamente due altri domestici di Addone chiamati Piscione e Musane, facevano attraverso ad un trabocchetto cadere i cadaveri in una scuderia, mentre che un vecchio domestico, impassibile come una parca, gettava della segatura di legname sul pavimento, e dopo ogni omicidio lavava e strofinava, con tutto il cuore.

Il Capo Capriglione, venne alla sua volta, penetrò in una camera ; giunto colà, titubò e tentò di retrocedere, ma per istrada, in un corridoio, trovò Basilio Addone che l'uccise con un colpo di pugnale.

In quanto a Falsetta aveva avuto la testa spaccata, uno fra i primi.

Sedici dei banditi erano già uccisi e gettati nella scuderia che serviva loro di Carnaio, allorchè vedendo i loro camerati entrare ma non uscire, quelli che rimanevano, formarono una piccola truppa, e guidati da Gennarino il figlio di Falsetta, vennero tutti umili a picchiare alla porta d'Addone.

Ma al momento in cui marciavano verso la casa, Basilio che era in vedetta da una finestra, con la stessa mano ferma e sicura colla quale aveva colpito Capriglione, mandò una palla in mezzo alla fronte di Gennarino.

Questo colpo di fucile fu il segnale di un orribile mischia. I congiurati comprendendo che il momento era venuto in cui ognuno doveva pagare colla propria persona, si lanciarono nella strada a viso scoverto questa volta; attaccarono i Banditi, con tale ardore che non un solo di codestoro potette scamparla.

Si contarono trentadue cadaveri. Durante la notte questi trentadue cadaveri furono portati e coricati, l'uno accanto l'altro, nella piazza del Mercato, di maniera che all'apparir del giorno, tutta la città ebbe innanzi gli occhi il sanguinoso spettacolo.

Il domani furono gettati in una fogna, sulla quale, caduta la repubblica, e risaliti i Borboni sul loro doppio trono, fu costruita una cappella, che ricevette il nome di Cappella dei martiri.

In seguito, la cappella è stata adeguata al suolo.

Era la notizia di questa liberatrice carneficina che lo stesso mattino giungeva dalla Basilicata.

Finiamo in fretta con Nicola Addone.

E mentre che abbiamo la nostra penna nel sangue, scriviamo fino alla fine l'istoria dell'assassinio.

Allo avvicinarsi del Cardinale Ruffo, Addone e tutti quelli che avevano presa una parte attiva alla carneficina, furono costretti ad allontanarsi ; la famiglia dei due fratelli soffrì considerevoli perdite e accanite persecuzioni : si saccheggiò ed incendiò la loro casa, si tagliarono le loro vigne e i loro oliveti rasente terra ; si distrussero le loro messi in erba.

In quanto alla città, essa fu data ai sanfedisti e il sacco fu diretto da Sciarpa, ciò che vuol dire che la cosa fu coscienziosamente eseguita.

Allorquando la dominazione francese si stabilì a Napoli sotto Giuseppe Napoleone, Nicola Addone ricomparì e fu bene accolto dal Re francese, che lo nominò Ricevitore Generale della Provincia.

Cosa strana! al ritorno di Ferdinardo, nel 1815, il posto gli fu conservato: la voce pubblica pretese che quest'incomprensibile favore fu dovuto a servigi di spionaggio resi al re in esilio. Il fatto è che Nicola Addone fu il primo a spiegare in Potenza la bandiera Borbonica, prima ancora che Murat non fosse caduto dal trono; altro fatto incontrastabile è che Addone denunziò come libero muratore l'Intendente della Provincia, Santangelo, e cento dieci fra gli uomini più distinti della Basilicata. Un pubblico giudizio ebbe luogo contro sette di essi, giudizio che dimostrò l'innocenza loro e fu seguito dalla loro liberazione.

Nel 1820, accusato di concussione e di falsario, nei registri pubblici della sua amministrazione, prese la fuga, evitò un giudizio, ma perdette la sua carica, un'amnistia pubblicata nel 1821 da Ferdinando I°, gli permise di rientrare; ma da questo momento visse ritirato, e morì oscuro e disprezzato.

 

 

 

 

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