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Di
Alexandre Dumas
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CAPITOLO III.
Parlammo delle due vecchie
Principesse di Francia, madama Vittoria e madama Adelaide che, dopo la loro
fuga da Parigi, si erano ritirate a Roma, e da Roma a Napoli.
Perseguitate dalla
rivoluzione, erano state costrette, all'approssimarsi dei francesi, di fuggire
da Napoli, per l'estrema Calabria e per la Sicilia, ed avevano deciso di
attraversare la Capitanata e imbarcarsi a Manfredonia.
Domandarono allora una
specie di scorta e si diedero ad esse sette uomini risoluti, che s'intitolavano
Anglo‑ Corsi, e chiamavansi Francesco Boccheciampe, Giovan Battista
Cesari, Casimiro Raimondo Corbara, Ugo Colonna, Lorenzo Durazzo, Stefano
Pittaluga e Antonio Guidano.
Solo sopra quattro di questi
uomini si hanno notizie certe: Cesari era un Corso, domestico da livrea,
Boccheciampe era un soldato di artiglieria, che disertò dal suo reggimento;
Corbara e Colonna, malgrado l'illustre nome di quest'ultimo, erano della gente
oscura.
Gli altri non fecero che
apparire; e la infimità della parte che rappresentavano, unita alla loro
nullità individuale fece sì che l'istoria non si degnasse occuparsi di loro.
Del resto, se ci bastasse
contentarci soltanto dei dettagli dati dagli storici, il nostro compito sarebbe
stato più breve, e la nostra opera di una metà meno voluminosa, ma noi volemmo
raccogliere le tradizioni, sia sui luoghi stessi ove successero gli
avvenimenti, o interrogando i vecchi che li avevano visti, o i figli di quelli
che avevanvi preso parte; sia ricercando degli opuscoli, oggi perduti o
ignorati, e pei quali ciascuno al ritorno dei Borboni, reclamò la sua porzione
di quella vasta ecatombe, che fu fatta dai banditi, di quanto Napoli aveva di
patriottico d'intelligente e d'onorevole.
I documenti storici sono
rari a Napoli. Il libro che ho comprato con più denaro di quanto valeva, e che
mi è stato confidato di soppiatto da un onesto collezionista che lo ha messo
fuori dal suo nascondiglio, sempre semichiuso nella probabilità del ritorno di
Francesco II, il libro diciamo, che ho sotto gli occhi e nel quale attingo un
dettaglio che oggi sembra insignificante all'autore, questo libro, dopo il 48,
sotto Ferdinando II, avrebbe fatto cader la testa dell'imprudente presso cui
sarebbesi trovato.
Ora, è ad uno di questi
libri così rari, di cui, forse non restano dieci esemplari nel Regno, che noi
improntiamo i minuti particolari che daremo.
Diciamo adunque che le
vecchie principesse francesi, accompagnate dai loro sette cavalieri,
attraversarono la Capitanata e s'imbarcarono a Manfredonia, vecchia città del
medio evo, fabbricata da Manfredi che le diede il suo nome, sulle rovine
dell'antica Sipontum.
Imbarcatesi le Principesse e
i sette avventurieri, compensati delle loro fatiche, per quanto lo potevano le
povere esiliate, decisero questi seguire la costa dell'Adriatico, da
Manfredonia a Brindisi, e di là o dal Golfo di Taranto, imbarcarsi per la
Sicilia.
In fatti, a Brindisi avevano
già noleggiata una feluca e si accingevano ad imbarcarsi per la Sicilia,
quando, saputosi dal popolo che sette sconosciuti, condotti da un certo
Buonafede Geronda, della città di Montejasi, erano discesi al Palazzo di Don
Francesco Errico, al quale li aveva raccomandati la loro guida, nella
supposizione che questi sconosciuti fossero dei Commissari Repubblicani, si
precipitò verso il Palazzo di D. Francesco Errico, coll'intenzione manifesta di
far loro una cattiva parte.
Ma, nel momento in cui
quelle persone, incerte sul modo come si terminerebbe la visita, subivano il
più severo esame, tutto ad un tratto la voce: Il Principe Reale, Sua Altezza il Duca di Calabria, circolò fra la
folla, divulgata non si sa da chi, e la folla cadde ai piedi di Raimondo
Corbara, esclamando: Viva il nostro Re,
Viva il nostro Principe ereditario Francesco.
In fatti, per cura di quegli
effetti della casualità che sembrano un miracolo, Raimondo Corbara aveva l'età,
la statura, i capelli biondi, e qualche lineamento del viso del Principe
ereditario, presso di cui il tipo Borbonico cominciava a cancellarsi per
perdersi interamente in persona di Ferdinando II, nel quale cercavasi
inutilmente uno dei tratti caratteristici dì quella razza.
Il giovine corso non sapea
cosa pensarne di queste testimonianze di rispetto e di quei gridi frenetici;
allor‑ quando Buonafede Gironda, s'inclinò vicino al suo orecchio e gli
disse a voce bassa:
‑ Vi prendono pel
principe Ereditario, lasciateli neli errore, o siete tutti perduti.
Sia coraggio, sia spirito
d'avventura, sia preveggenza di tutto quel che potrebbesi ricavare in tale
momento da simile menzogna, Corbara lasciò acclamarsi, sorrise con compiacenza,
e diede loro con un gesto dignitoso, a baciar la mano.
Ma ben presto la sala fu
troppo stretta per poter contenere tutti i fedeli sudditi che volevano godere
la felicità di vedere il principe, e dei gridi si fecero sentire sulla strada :
‑ Al balcone ‑
al balcone.
Dal momento che aveala
adottata, Corbara dovea sostener la parte fino al termine.
Corbara apparve al balcone.
La sua apparizione venne
salutata da grida furiose fra le quali distinguevansi queste :
‑ Alla Cattedrale ‑
alla Cattedrale.
Non v'era mezzo di
retrocedere; Corbara fece segno che era pronto a rendervisi; dei messi si
distaccarono per prevenire l'Arcivescovo di prepararsi a cantare il Te Deum ‑ e il falso principe scese e
s'incaminò verso la chiesa, in mezzo a quegli entusiasti.
Così, tutto è strano in
questa rivoluzione: un Cardinale si fa generale in capo, un vagabondo si fa
principe ereditario.
Quelli che non entravano per
nulla nella quistione, facevano la parte che non osavano disimpegnare
gl'interessati, troppo vili per rischiare la vita, ma che mettevano in pericolo
la vita degli altri.
Il Te deum fu cantato dall'Arcivescovo e d'allora non vi fu più dubbio a vedere in
lui, poichè Dio stesso l'avea riconosciuto e benedetto, il principe reale.
Si comprende che una così
felice notizia si sparse per le campagne circostanti con la rapidità del
fulmine: la stessa sera inviati dei villaggi, il domani deputati delle città
vennero a fare omaggio al falso erede della Corona, e se ne ritornarono tutti
contenti del bel ricevimento che loro era stato fatto. La stessa notte, Corbara
incerto sui sudditi che potessero avere per lui un affetto superiore, voleva lasciar
Brindisi e andare in Sicilia; ma Buonafede Geronda gli fece osservare tutto il
bene che il partito realista poteva trarre da quell'errore, dicendogli che la
sua fortuna era nelle proprie mani, e che mai simile occasione gli si
presenterebbe di nuovo per giungere alla ricchezza e agli onori. Corbara
insistette ulteriormente a volere partire e i suoi compagni erano del suo
avviso, allorchè il Capitano della feluca che avevano noleggiato, chiamato da
essi annunziò loro‑ essere impossibile uscire dal porto per causa del
vento contrario, cosicchè fu giocoforza restare, e come dicemmo l'entusiasmo
divenne più grande il domani.
Gli è nella natura
dell'uomo, e sopratutto nel temperamento arrischioso dei Corsi di assuefarsi
facilmente al pericolo. La giornata del domani modificò adunque la volontà di
Corbara, così ferma la vigilia. Le vecchie Principesse Francesi rattrovavansi
nel porto di Brindisi, e quantunque non volessero scendere a terra, un
consiglio fu tenuto fra i sette avventurieri e si convenne che andrebbesi da
esse onde sommetter loro la quistione e prendere il loro avviso.
Eravi benanco un altro punto
molto scabroso che tormentava Corbara; supponendo che la popolazione restasse
nello errore in cui era e nell'entusiasmo che l'era stato ispirato, di qual
occhio il Re, la Regina e il Principe ereditario medesimo. guarderebbero un
uomo dell'infima classe del popolo, che erasi permesso farsi credere l'erede
della corona? Questa interrogazione che Corbara faceasi esso stesso, si
converrà che non era senza importanza.
In questo punto
principalmente potevano illuminarlo le principesse francesi.
Essi si recarono dunque a
bordo del bastimento sul quale rattrovavansi madama Vittoria e madama Adelaide.
La voce che il principe Francesco era in Brindisi, giunse fino ad esse, ed esse
si accingevano a recarsi a terra per visitarlo, allorchè si annunziò loro che i
sette giovani che le avevano scortate da Napoli a Monfredonia, chiedevano il favore
di essere introdotti presso di esse.
Li ricevettero con
compiacenza, e come uomini al cui coraggio e alle cui cure si ha qualche
obbligo. Ma restarono immensamente meravigliate quando Corbara espose loro la
cagione che lo conduceva.
Per la prima volta, allora,
desse guardarono con attenzione quel giovine, e riconobbero effettivamente una
certa rassomiglianza fra lui ed il loro cugino Francesco.
Si consultarono un momento
col Conte di Chatillon, loro cavaliere d'onore e tutti e tre furono del parere
unanime, che, poichè la Provvidenza gl'inviava questa occasione per servire la
casa dei Borboni, Corbara, non doveva farsela sfuggire. Senza dubbio, eravi
qualche rischio da incontrare se fosse riconosciuto da quella moltitudine. Ma
in questo caso potea sempre rispondere che questa moltitudine lo avea forzato a
disimpegnare la parte, che non avea accettata di sua piena volontà, ma che era
stato forzato adempiere, dall'ostinazione che essa mettea a riconoscerlo per
quel che non era. In quanto a ciò che temeva della collera del Re, della Regina
e del Principe ereditario, esse ne assumevano la responsabilità e rispondevano
al contrario della loro riconoscenza, e perchè non vi fosse dubbio a questo
riguardo, s'incaricarono di spedire nel medesimo istante una nave a Palermo,
che darebbe alla famiglia reale avviso di quanto succedea. Nel tempo stesso, le
assicurazioni che davano loro le principesse, e le promesse che facevano ad
essi, avendo rassicurati gli avventurieri, fu stabilita la parte che ognuno
assumerebbe.
Corbara che era già
riconosciuto per essere il Principe Ereditario resterebbe il Principe
Ereditario; Boccheciampe sarebbe il fratello del Re Ferdinando che non aveva
fratelli, ma non vi si farebbe attenzione; de Cesari sarebbe il Duca di
Sassonia; gli altri in fine sarebbero grandi dignitari della Corona.
Le Principesse ricondussero
gl'illustri visitatori fino sopra il ponte della feluca, e avanti di tutti,
dopo aver data la loro mano a baciare ai compagni, abbracciarono Corbara come
loro parente ed uguale.
Preceduti dal chiasso che
avevano fatto a Brindisi, i nostri sette avventurieri, seguiti da due o tre
cento uomini che vollero scortarli, partirono per Otranto ove vennero ricevuti,
come se fossero stati quelli che pareano di essere.
Colà, dovea mettersi in
esecuzione il seguito del progetto stabilito con le Principesse. Francesco
Boccheciampe e Giovan Battista de Cesari resterebbero nella Provincia come
incaricati d'affari del Re contro i suoi nemici, mentre che Corbara e gli altri
quattro partirebbero per Corfù e ne ricondurrebbero la flotta Turco‑russa.
L'intenzione di Corbara che,
malgrado la promessa delle Principesse non era del tutto rassicurato, era di
andare al suo ritorno, a gettarsi ai piedi del Re a Palermo, raccontargli
quanto era succeduto sul continente e dimandargli ordini su quanto rimaneagli a
fare.
Corbara, Geronda, Colonna,
Durazzo e Píttaluga s'imbarcarono adunque sulla feluca che avevano noleggiata a
Brindisi e che venne a prenderli a Taranto: ma non appena furono in alto mare,
vennero attaccati e fatti prigionieri dai Barbareschi.
Reclamati dal Console di
Inghilterra, furono messi in libertà,
ma troppo tardi per prendere parte alcuna agli avvenimenti dei quali ci
occupiamo.
Lasciamoli adunque viaggiare
verso la costa di Tripoli dopo aver rassicurato i nostri lettori sulle loro
sorti avvenire, e occupiamoci di Cesari e Boccheciampe che sono fortunatamente
per essi rimasti sulla terraferma.
Erano già sei giorni che
durava la commedia: era cominciata il 4 Febbraio, e si era ai venti.
Le deputazioni continuavano
ad arrivare da tutte le città; ma diceasi ai deputati che era troppo tardi e
che il Principe era partito, però in sua vece esse sarebbero ricevute dal
fratello del Re e dal Duca di Sassonia, cioè da Boccheciampe e da de Cesari.
Il 20 Febbraio al mattino, i
due avventurieri partirono per Mesagne. Là furono ricevuti con tutti gli onori
dovuti al loro supposto rango. Si fermarono un momento per occuparsi del
ristabilimento dell'ordine nelle Province, e delle lotte che erano per
sostenere in favore del potere Regio.
Cesari che, come Corso,
parlava un cattivo Italiano, e che naturalmente lo scriveva peggio ancora, prese
per aiutante di Campo il luogotenente D. Vincenzo Durante, che ha lasciato un
curioso racconto della spedizione del suo Generale, racconto stampato nel 1800,
all'epoca del ritorno del Re a Napoli, racconto divenuto molto raro oggi. Fu
questo Durante, che venne incaricato di scrivere i proclami, e di stendere un
piano regolamentario per la provincia. E’ giusto il dire che De Cesari e
Boccheciampe si affidarono a lui non per quelli che supponeano di essere ma per
quelli che erano realmente.
Ma, per tutti gli altri,
come per l'aiutante di campo segretario, onorato di tutta la loro fiducia.
Boccheciampe con i suoi capelli biondi, il suo occhio bleu, il naso aquilino,
il labbro inferiore più grosso dell'altro, le gambe un poco lunghe pel suo
busto, e sopra tutto il portamento franco, lento e benevolo, era il fratello
del Re, ed era un piacere per ciascuno che attaccavasi a lui trovare delle
rassomiglianze con la famiglia Reale.
In quanto a Cesari, egli era
semplicemente il Duca di Sassonia e contentavasi di esser chiamato Monsignore.
Del resto, siccome avvenne
pel Cardinal Ruffo, i volontari accorsero da ogni parte.
Il 22 Febbraio, alla sera,
già accompagnati da una banda di tre in quattro cento uomini, arrivarono alla
Città di Oria, dove ristabilirono il Governo Borbonico, cacciati per un momento
dal municipio che fa cacciato alla sua volta.
Presero alloggio alla
Missione, ove tutta la città venne ad ossequiarli. Durante questo tempo il loro
segretario D. Vincenzo Durante s'impadroniva di tutte le lettere provenienti da
Napoli, le apriva e si metteva al corrente delle nuove della Capitale.
Là, le deputazioni si
successero: venivano non solo da Lecce, ma benanco dalla Provincia di Bari e
dalla Basilicata. Boccheciampe ricevette i deputati, tenne loro dei discorsi
sul dovere d'imporre ad ogni fedele suddito del Re di prendere le armi e
combattere la rivoluzione, e il risultato di questi discorsi fu un aumento
considerevole di volontarii.
Intanto, il mattino del 24,
i due avventurieri si condussero a Francavilla, ma colà le circostanze
divenivano più gravi; si trattava di fucilate e di coltellate; i Realisti
sentendosi i più forti, avevano già ucciso o ferito qualche democratico.
Boccheciampe e Cesari, bisogna render loro questa giustizia, interposero la
propria autorità e la carneficina cessò.
Fu affisso un proclama col
quale il preteso fratello del Re diceva‑ che mettere individualmente le
mani, fosse anche sopra un colpevole, era lo stesso che usurpare i dritti della
giustizia Reale, che bisognava lasciare alle leggi ed ai magistrati la
terribile responsabilità della vita e della morte, e che le Loro Altezze vedevano, con dispiacere, i realisti trasportarsi a
simili eccessi.
Era imprudente pei falsi
principi parlare in questo modo, quando Ferdinando e Carolina raccomandavano
l'inesorabile esterminio dei giacobini.
A Napoli sarebbero stati
immediatamente riconosciuti per quel che erano, cioè per gente volgare, ma in
Calabria si continuò, malgrado questa misericordia, a ritenerli come principi.
Dopo due giorni passati a
Francavilla, Boccheciampe e De Cesari entrarono ad Ostuni che trovarono nella
più completa anarchia. Il partito realista divenuto più forte dal loro
avvicinarsi, erasi impossessato di ogni autorità e volle bruciare il Dottore
Airoldi e tutta la sua famiglia: il Dottore si era sacrificato alla moglie ed
ai figli; li avea messi in salvo per un uscio ignoto, e difendendosi quel tempo
necessario per metterli al sicuro, erasi poscia abbandonato agli assassini.
I miserabili allora lo
trascinarono sul rogo che avevano preparato anticipatamente, e ve lo bruciarono
a fuoco lento.
Oh, noi lo conosciamo
purtroppo, l'è una triste istoria quella che scriviamo, e sono miserabili
alleati quelli che in tutti i tempi, dal 99 ai nostri giorni, da Ferdinando I a
Francesco II, i Borboni hanno avuto per difendere la loro causa: sono
incendiari, saccheggiatori, omicidi.
Ma, lo si vede, noi
cerchiamo assegnare ad ognuno la sua parte, ed essere imparziali, anche
riguardo a quelli che l'istoria, un poco leggermente, ha trattati da impostori
e da briganti.
Qui ancora i nostri due
avventurieri arrestarono il sangue e ricondussero la pace.
Ma la più parte delle
deputazioni che venivano a fare omaggio ai falsi Principi, non venivano ad
offrir loro soccorso, ma a chiederne. Lecce, per esempio, era divisa in due
partiti, però il partito repubblicano dominava. Taranto, Martina e Manduria,
erano nella stessa situazione. Acquaviva e Altamura erano democratiche fino all'entusiasmo
e giuravano di seppellirsi sotto le rovine delle proprie mura anzichè ritornare
sotto il dominio dei Borboni. Le cose considerate dal loro vero punto di vista,
non promettevano adunque un successo tanto facile per quanto erasene lusingato
da principio.
Si principiò dallo inviare a
Taranto e Martina dei proclami, che un frate minore riformato, chiamato
Michelangelo di Francavilla, s'incaricò d'introdurre secretamente.
Per conseguenza, il 27
febbraio, il degno frate partì per quelle due città, carico di proclami.
Poscia, si tenne consiglio
per far fronte agli avvenimenti che presagivansi dalla gravezza dei casi.
Si aveano gli uomini, ma si
mancava di artiglieria, arma senza la quale nulla potevasi fare contro le
città.
Boccheciampe e de Cesari
decisero di separarsi e trovare dell'artiglieria a qualunque costo,
Boccheciampe s'avviò verso la provincia di Lecce; de Cesari passò in quella di
Bari, visitò successivamente Monopoli, Castellana, Palignami, e dovunque venne
accolto con entusiasmo; in questi vari paesi reclutò dei volontari e il I°
marzo si trovò alla testa di un piccolo esercito.
Nel numero delle deputazioni
che presentavansi a Boccheciampe, dopo la sua separazione da De Cesari, fuvvene
una di Lecce, composta di sette o otto notabili della città, condotti da un
curato chiamato D. Nicola Tursani. Essi venivano a domandar soccorso contro i
repubblicani e particolarmente contro un certo Fortunato Andreoli, il quale
erasi impadronito del Castello, aveva organizzato una guardia civica, dei
cacciatori, e dei cavalieri.
Al momento che questi
deputati esponevano i loro lagni a Boccheciampe, lo si prevenne che un tale
Giovan Battista Petrucci chiedeva udienza.
Boccheciampe passò in camera
laterale e ordinò d'introdurre colui ‑che domandava essergli presentato
Era un Ispettore della
marina che, in nome della repubblica Napoletana, riceveva l'ordine d'inviare a
Lecce quanti cavalieri vi erano anche a rischio da rimaner sguerniti i posti
della marina. Egli, all'opposto veniva ad offrire a Boccheciampe tutti i suoi
cavalieri, e sè stesso, più due pezzi di cannone con le rispettive munizioni.
Questo rinforzo che
giungevagli tanto opportuno, determinò Boccheciampe a marciare su Lecce.
Accettò l'offerta di Petrucci; riunì le truppe e si mise in cammino: lungo la
via, raccolse due o trecento cacciatori, che fuggivano da Lecce non volendo
servire contro la loro opinione; questi uomini si riannodarono a lui ed egli
entrò con una forza imponente a Lecce: Andreoli erasi ritirato e rinchiuso nel
Castello, egli gl'intimò la resa e ricevendone ricusa, lo fece subito
atttaccare.
La resistenza non fu lunga;
la guarnigione avendo aperta una porta che metteva sulla campagna, erasi
salvata per questa porta.
Questa vittoria, anche così
facile, aveva una grande
importanza ; era il primo
scontro che i realisti avevano coi repubblicani, e i repubblicani erano stati
battuti.
Grande fu la gioia; tutte le
campane di Lecce e delle campagne circostanti, sonarono in segno di tripudio e
la città fu illuminata.
De Cesari si attribuì la
vittoria del suo amico, poichè arrivò lo stesso giorno. Anche qui, i due
avventurieri più umani pei vinti di quel che non l'erano i loro propri
concittadini, si opposero agli assassini, ordinando d'arrestare ed imprigionare
quelli che s'indicavano loro come repubblicani e mettendoli al coverto dalle
palle e dai coltelli realisti, dietro le mura delle prigioni.
Il 9 marzo arrivò la posta
da Napoli: le lettere, come al solito, furono intercettate e vi si lesse la
notizia che i francesi e i patriotti marciavano contro le provincie insorte.
Questa notizia decise
Boccheciampe e De Cesari a partire immediatamente per impadronirsi di Taranto
che parteggiava per la repubblica.
I due capi divisero la loro
truppa in due colonne; una con Boccheciampe marciò verso Taranto, l'altra con
De Cesari, sopra Ostuni.
Taranto non esitò; i suoi
abitanti aprirono le porte e vennero all'incontro di Boccheciampe portando alla
mano la bandiera reale.
Ma non avvenne lo stesso a
Martina; il suo Municipio decretò la difesa e mise una taglia di due mila
ducati sulla testa del preteso fratello del Re e del falso Duca di Sassonia.
Nello stesso modo che De
Cesari aveva raggiunto Boccheciampe a Lecce, Boccheciampe presa Taranto, si
mise subito in marcia e raggiunse il suo amico davantì Martina. Le due truppe
si riunirono lungi un tiro di cannone dalla città.
Immediatamente Boccheciampe,
nella sua qualità di fratello del Re, prese il Comando allorchè le due truppe
furono riunite, e mandò un trombettiere agli abitanti dì Martina onde far loro
conoscere:
« Che le truppe regie, lungi
dal voler commettere la menoma ostilità contro i Martinesi non dimandavano
altro se non che l'obbedienza al loro Sovrano legittimo, ma che se intanto
ricusavano a soddisfare questa giusta domanda, la sorte delle armi deciderebbe
la quistione. »
Il trombettiere partì a
cavallo ma non potette adempiere la sua missione, avvegnacchè non appena i
martinesi lo videro a portata delle palle, una moschetteria terribile scoppiò,
e l'uomo ed il cavallo stramazzarono al suolo.
Il cavallo solo era morto:
l'uomo sì rialzò, e quantunque a cavallo nell'andare e a piedi al ritorno,
ritornò più presto di quando era andato.
Boccheciampe e De Cesari
ordinarono all'istante l'assalto ; marciarono contro la città sotto una
grandine di palle, attaccando i posti avanzati, collocati nelle case al di là
delle porte, e forzandoli a ripiegare nella città. In questo momento una
pioggia terribile, unita a grandine, venne in aiuto degli assediati ed impedì
alle truppe regie di profittare della loro vittoria; poi, siccome dopo la
pioggia venne la notte, fu giuocoforza aspettare il domani per continuare il
combattimento.
L'aurora trovò assediati ed
assedianti sotto le armi. Intanto i due capi realisti non vollero ricominciare
l'attacco senza farne un nuovo tentativo di conciliazione. Si mandò un secondo
parlamentario; ma i Martinesi tirarono su di lui come avevano fatto pel primo.
Questa fucileria fu il
segnale della ripresa delle ostilità.
I Corsi sono valorosi, è
questa una qualità che nessuno può ad essi contrastare, i due avventurieri
diedero l'esempio ai propri uomini: si slanciarono alla testa della colonna, e
malgrado la pioggia ed il fango, le palle e le granate, attaccarono ciascuno
una delle porte a colpi di scure, le sfondarono, e, quasi nello stesso tempo,
entrarono nella città.
Si combattea di casa in
casa, di strada in strada; i repubblicani si raccolsero sulla piazza e sì
fecero uccidere intorno all'albero della libertà.
Lo stesso albero fu
abbattuto come i suoi difensori e messo in pezzi; cambiato in rogo, esso
rischiarò colle fiamme la loro agonia, e mescolò le sue ceneri al loro sangue.
La caduta d'Acquaviva seguì
quella di Martina, e la distruzione dell'una fu ancora più completa di quella
dell'altra : presa d'assalto, essa vide i suoi difensori trucidati dal primo
fino all'ultimo; il suo presidente, il Dottor Supriani fu bruciato sopra un
rogo fatto con l'albero della libertà, la città saccheggiata. Le donne e le
giovani date in preda ai vincitori.
Come vedesi, eravi in ciò
molta differenza dal principiar moderato della campagna; gli avventurieri
eransi abituati alla vista del sangue o pure non si ascoltava più la loro voce.
Il 2 aprile, De Cesari lasciò la città tuttavia desolata e fumicante, onde
marciare contro Bari che, malgrado l'esempio di Martína e d'Acquaviva,
persistette a mantenere presso di essa il governo repubblicano.
Intanto Boccheciampe
raccolse una piccola truppa di un migliaio d'uomini d'infanteria, di un
centinaio di cavalieri di marina, e un certo numero di campieri; risolvette
con questo piccolo esercito di andare a
porre l'assedio avanti Altamura, centro e fomite della resistenza repubblicana
nella Terra di Bari.
Mandò come avanguardia
trecento uomini sotto il Comando del Luogotenente Francesco Giordano, quattro
pezzi di artiglieria comandati da un cadetto a nome Saverio Miglietta: il 3
aprile raggiunse egli stesso questi 300 uomini a Matera col resto della sua
truppa, e a cavallo, con quattro esploratori soltanto, si avvicinò alle mura,
ne fece il giro esaminandone la posizione e ritornò a Matera dopo di aver
levata la pianta della città che voleva assediare.
Ma al suo ritorno trovò un
messo spedito da De Cesari, dandogli avviso che i Francesi, usciti da Barletta
e da Bari, avevano preso la direzione di Casamassima. Ne risultò che trovandosi
in procinto di essere attaccato da veri soldati, in numero superiore alle sue
truppe irregolari, chiese un pronto soccorso al suo compagno nell'alternativa
in cui rattrovavasi, o di essere sconfitto o di battere in ritirata.
Boccheciampe non esitò un
momento, abbandonò vicino ad Altamura l'intrapresa che Ruffo e De Cesari
dovevano più tardi mettere in esecuzione in modo tanto crudele, lasciò a Matera
una guarnigione, e si diresse a marcia forzata, su Casamassima facendo la
giunzione con De Cesari il 5 aprile verso mezzogiorno, al momento in cui l'avanguardia
Francese si ritirava fra le fiamme dei villaggi insorti a Carbonara.
Boccheciampe e De Cesari
decisero d'attaccare all'improvviso le milizie repubblicane che marciavano sul
villaggio di Monteroni, e divisero le loro truppe in due corpi. Boccheciampe
prese il comando dell'uno, De Cesari quello dell'altro. Boccheciampe con i suoi
scese nel piano, De Cesari al contrario si fermò sulla collina di Casamassima:
Boccheciampe doveva attaccare i francesi, De Cesari doveva sostenerlo, o
proteggere la ritirata.
L'avanguardia francese,
attaccata validamente e non sapendo con chi aveva da fare, si ritirò dapprima;
ma avendo riconosciuto l'inimico, la colonna repubblicana s'ammassò su di una
collina appoggiata ad un bosco, e di là sostenuta, dalla sua artiglieria,
marciò al passo di carica contro i borbonici.
Contemporaneamente si sparse
la voce fra le truppe regie che una forte colonna di patriotti usciva da Bari
per coglierli a rovescio.
Allora tutto fu finito: i
campieri baronali e i cacciatori di Lecce furono i primi a prendere la fuga,
esempio seguito dal rimanente della colonna.
De Cesari, vedendo il suo
camerata che, con una cinquantina d'uomini, tentava inutilmente riannodare i
fuggiaschi, volle arrecargli soccorso, ma i suoi sforzi furono inutili: il
panico aveva invaso i suoi uomni. Fortunatamente per i due avventurieri, i
francesi, dopo un così gagliardo attacco, vedendo una così rapida ritirata
supposero un agguato, e in vece d'inseguire le truppe borboniche, s'avanzarono
passo passo e con precauzione.
Però, riconoscendo che
quella era una vera rotta, la cavalleria francese si mise ad inseguire i vinti,
la cui artiglieria ed i cassoni facevano la retroguardia: allora Saverio
Miglietta rovesciò uno dei cassoni, fece lunga striscia di polvere ci pose una
miccia, mise il fuoco alla miccia e continuò la sua ritirata. Per combinazione
giusto al momento in cui la cavalleria francese giungeva in quel punto ove
giaceva il cassone rovesciato, la linea di polvere prese fuoco e accese il
cassone che scoppiò, stramazzò i dragoni più vicini a lui e sparse fra i loro
compagni tale spavento che voltarono la briglia senza osare di avanzarsi più
oltre.
Sín d'allora nulla più si
oppose alla ritirata dei borbonici, ma il prestigio dei capi era perduto, che
al solo contatto delle truppe regolari erano stati vinti.
Boccheciampe e De Cesari
tennero consiglio sulla via da scegliere e decisero, che il primo si recherebbe
a Brindisi, l'altro a Taranto, onde mettere le due città al coverto di un colpo
di mano dei francesi.
Durante la sera del sette
aprile, Boccheciampe arrivò a Brindisi, e si occupò immediatamente di
restaurare le fortificazioni rovinate dei due Castelli.
Era assorto in queste cure,
alle quali metteva la massima diligenza, allorquando videsi venire
dall'Adriatico un bastimento d'alto bordo che si avanzava, coverto dalla
bandiera Russa. Malgrado questo segnale amico, Boccheciampe temendo una
sorpresa, si mise, pur non di meno, in difesa: sventuratamente però egli
mancava, nel tempo stesso, d'uomini e di munizioni.
Intanto il bastimento
continuava ad avanzarsi a vele gonfie e rispondendo al saluto della fortezza ;
entrò nel porto con la rapidità di un uccello marino, si fermò sul cavaliere del forte che era disarmato e
che lo metteva al coverto delle batterie laterali.
In questa posizione così
vantaggiosa per lui, innalzò bandiera francese, e cominciò un fuoco tanto vivo
e cosi violento che, in un momento, smantellò una gran parte del forte, e
rovinò quasi interamente la faccia laterale del fianco dritto: Boccheciampe
occorse allora sulle mura e diresse personalmente il fuoco sul bastimento con
tanta felicità, che lo fece tacere ; ma nel medesimo istante, otto feluche
arrivando da Barletta con numerose truppe da sbarco, misero queste truppe a
terra. Era tale la superiorità numerica, e così vigoroso fu l'assalto dato, che
malgrado la disperata difesa fatta da Boccheciampe, gli fu forza di rendersi
prigioniero. Un generale francese il cui nome non è detto dalla cronaca alla
quale desumiamo questi dettagli, fu ucciso in tale combattimento e sotterrato
con gli onori militari sotto le stesse rovine del Castello.
Il fuoco del vascello
francese e quello della Cittadella era stato così vigorosamente nutrito, che
rimbombò per tutta la provincia di Lecce; De Cesari l'intese e sospese la
marcia verso Taranto, fino a che non seppe il significato di quelle
denotazioni.
Allora spedì il suo aiutante
di campo, D. Vincenzo Durante, onde informarsi di quanto succedea, ed essendo
tosta da lui informato del pericolo che correva il suo compagno si dispose a
correre in suo soccorso.
Nella notte del dieci,
arrivò davanti Brindisi che attaccò all'apparire del giorno; ma i francesi lo
aspettavano all'attacco e lo ricevettero vigorosamente.
De Cesari fu obbligato di
ritirarsi con i suoi uomini e si contentò stabilire una batteria di cannoni
sopra un ponte dal quale poteva molestare i difensori del Castello. Questa
batteria, diretta da Miglietto, fece loro effettivamente molto male, per lo che
verso la sera dell'11 aprile, De Cesari tentò un secondo assalto.
Ma questo fu infelice quanto
il primo, De Cesari riconobbe che avea da fare con un nemico potente abbastanza
disciplinato per poterne avere il disopra: licenziò i suoi uomini che
minacciavano di disertare s'egli volesse menarli più avanti, e seguito da
qualche volontario rimasto fedele, giunse a Gallipoli, nella sera del 12.
Il domani s'occupò di
mettere il forte in istato di difesa, nel caso che i francesi venissero ad
attaccarlo.
Ma nella giornata del 17, al
contrario, si sparse la voce che i francesi eransi precipitosamente rimbarcati,
abbandonando Brindisi e gli approvigionamenti da bocca e da guerra che vi
avevano fatto. La spiega di questa partenza inattesa fu data il domani, per
arrivo di una piccola corvetta turca, seguita da due bastimenti più grossi
della stessa nazione, i quali precedevano una fregata russa e una fregata
napoletana comandata da quello stesso cavaliere Micheroux che vedemmo fuggire
con tanta precipitanza al primo contatto dei francesi nella Campagna di Roma.
Nello stesso tempo arrivava
ad Otranto una flotta leggiera di sei bastimenti russi e turchi, con qualche
centinaio d'uomini da sbarco dei quali una parte munì di guarnigione il
Castello d'Otranto, e parte passò a Lecce, per proteggere la città dai
repubblicani.
L'arrivo subitaneo di questa
flotta era ancora un affare di De Cesari; sentendo dire che dessa era a Corfù,
egli aveva distaccato verso della stessa, il dottore Bernardino Lascoselli, che
attraversò l'Adriatico sopra una piccola feluca ed espose ai capitani Russi e
Turchi il bisogno che avevano del loro soccorso i realisti della Calabria. I
capitani uscirono immediatamente alla vela e come si vede arrivarono in tempo
opportuno per ristabilire gli affari di Ferdinando, molto malandati nella
Calabria ulteriore, per la presa di Boccheciampe e la disfatta di De Cesari.
Saputa la nuova dell'arrivo
della flotta combinata, De Cesari partì immantinenti per Brindisi, ove arrivò
il 20 aprile al mattino, ma la flotta n'era partita dalla vigilia.
De Cesari spedì all'istante
una barca leggiera, montata dal suo aiutante di campo Vincenzo Durante, con la
missione di raggiungere il bastimento che avea a bordo Micheroux e di chiedere
i suoi ordini.
D. Vincenzo Durante ritornò
con queste istruzioni:
« Far di tutto per sostenere
la causa del Re Ferdinando e particolarmente, riorganizzare al più presto
possibile la truppa disciolta in seguito della caduta di Brindisi.
« Fare entrare in questa
truppa il maggior numero possibile di soldati dello sciolto esercito.
« Impadronirsi di tutte le
città del littorale che avessero pattuito coi repubblicani. »
De Cesari s'affrettò di
mettere questi ordini in esecuzione; percorse il paese richiamando tutti quelli
che avevano servito sotto di lui, e che, rassicurati per la partenza dei
francesi, non dimandavano di meglio che riprendere quella carriera di brigantaggio
per la quale il saccheggio di Martina e d'Acquaviva avevano loro fatto trovar
gusto.
Egli era a Taranto con cinque o seicento uomini e qualche pezzo di artiglieria, allorchè ricevette un dispaccio dal Cardinal Ruffo che gli ordinava nella sua qualità di Vicario Generale del Regno, di venirlo a raggiungere a Matera, per aiutarlo allo assedio della città di Altamura che ricusava assolutamente di arrendersi.
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