I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro III 

 

 

 

CAPITOLO V

 

Mentre che Championnet pronunziava, nella Cattedrale di S. Gennaro, il discorso che abbiamo riprodotto, una voce levavasi in seno al Corpo legislativo che forniva alla Francia, il complemento delle giuste doglianze che essa facea a Ferdinando I.

Era quella del nostro antico ambasciatore di Napoli, Garat, divenuto membro del Consiglio degli Anziani.

« Finalmente, dice egli, è sotto la mano protettrice dei francesi, questa città ove tanti complotti sono stati tramati contro la nostra repubblica! Un altro governo rimpiazza in Napoli quel governo verso il quale il nostro fu tanto leale e così generoso.

« Ma, fra i nostri nemici nessuno oggi può mettere in dubbio, se il Direttorio o il già re di Napoli ha rispettato tutti gli impegni o li ha tutti violati : ma con fatti che mi sono personali, io forse posso dare nuova forza a questo convincimento già uniforme ed universale in Europa.

« Inviato in nome della Repubblica presso di Ferdinando come depositario di tutte le intenzioni e di tutti i voti del Direttorio, io posso affermare, e con la fede dovuta a un uomo, che non ha mai tremato nella rivoluzione, che anzichè palesare la mia coscienza, io attesto davanti a tutte le nazioni e davanti a tutti i governi che le mie lettere credenziali messe sotto gli occhi di Ferdinando, e le mie, più intime e secrete istruzioni, erano in fondo un medesimo e solo linguaggio; questo linguaggio era quello della morale purissima, della fedeltà la più religiosa, atta a intrattenere e cimentare le comunicazioni pacifiche.

« Il Direttorio ben degno in questo a rappresentare la sovranità di una repubblica, trattava da governo a governo, nel modo stesso che il particolare, dotato della più severa probità, potrebbe trattare con altri particolari con la suprema autorità delle leggi e della giustizia.

« Arrivato a Napoli e penetrato della dignità di una missione cotanto pura, vi uniformai le menome mie azioni, le menome mie parole. Ma in una corte, abituata a tutti gli artifizi della diplomazia, non poteva credersi a tanta sincerità e a tanta verità. Fui circondato da spie che non mi lasciarono più; quando io caminava a piedi, esse camminavano a piedi, quando io saliva in carozza, esse salivano in carozza, io lo sapeva ed era lungi dall'esserne soltanto importunato. Sembravami impossibile che le testimonianze stesse di quegli uomini così vili, fossero tutt'altro che testimonianze rese alla sincerità delle mie proteste; avrei voluto mostrare agl'occhi di quella corte tutti i miei dispacci, e tutto l'animo mio per darle un'idea d'una repubblica e di un repubblicano.

« Le renderò qui benanco una giustizia, al momento in cui ha ricevuto il castigo delle sue perfidie, credo che non rimanesse insensibile alle prove che le dava ogni giorno dell'accordo perfetto della mia condotta e del mio linguaggio: il mio arrivo fu visto con spavento, ma cominciavasi ad ascoltarmi con fiducia; in mezzo a molto scontento per parte mia, ed una corrispondenza attivissima, della quale ogni nota e ogni lettera era quasi una lotta, mi ci faceano concessioni e promesse che non erano tutte simulate. Aveva ottenuto lo sprigionamento di quei poveri detenuti nelle carceri perchè sospetti d'amare i nostri principii rivoluzionari. Erano già date le parole da una parte e dall'altra per un trattato di Commercio, fondato sui principii dì una indefinita libertà, trattato per conseguenza vantaggioso ai due popoli ma sopratutto al popolo napoletano che facea deperire intorno a lui con una stupida indolenza i tesori che volevano prodigargli la terra ed il cielo.

« Padroni un momento dell'Italia, onde renderla per sempre libera ed indipendente, mirate quanto aumento d'influenza e di potenza, possiamo noi esercitare sul mondo dall'alto di questa penisola.

« E così che i Romani divennero gli arbitri della terra, e non è alla fortuna della quale si è tanto parlato che essi dovevano i propri successi; l'Italia è come un vasto altipiano elevato al di sopra dell'Europa, dell'Africa e dell'Asia che dessa guarda e tocca, quasi ad osservarne e regolarne i destini: i romani si avvalsero di questa posizione per devastare l'universo : I francesi se ne serviranno per esserne i benefattori. Ma tante prosperità e virtù che abbiamo quasi sotto le mani ci possono tutte sfuggire, se noi ricusiamo, e se noi facciamo aspettare ai governi ciò che è loro necessario per servirsene e immortalarsi con noi.

Un cordiale buonaccordo regnava dunque fra Championnet e la nuova repubblica, fra i soldati francesi e i Lazzaroni napoletani, quando la gran quistione che mette in discordia gl'individui, che separa i parenti, che divide i fratelli, pose Championnet in lotta con la sua pupilla:

‑ Il denaro

Si ricorda come alla tregua di Sparanisi una contri­buzione di due milioni e mezzo di ducati pagabili il 15 e il venticinque del mese di gennaio, era stata stipulata.

Si ricorda, che il 14, dieci o dodici ufficiali francesi, con alla testa Arcambal, venuti a Napoli, fidando nell'armistizio per andare dapprima allo spettacolo e poscia riscuotere i cinque milioni, il domani 15 gennaio, avevano appena avuto il tempo di risalire in carrozza e ritornare al campo, minacciati di essere trucidati dal popolo.

Si ricorda che il 15 gennaio, il Principe di Moliterno, alla testa dei 24 deputati della città, era venuto a Capua per rinnovare al Generale l'offerta della somma stipulata nell'armistizio.

Non era adunque a maravigliare se Championnet reclamasse questa famosa somma di dieci milioni di franchi.

Lo che fece.

E confessiamo che Championnet, a Roma, alla testa di un esercito che doveva interamente riorganizzare e che mancava di tutto, attaccato dal Re di Napoli quando meno se lo aspettava, e forzato ad una guerra inattesa, sconfiggendo il Re di Napoli in nove combattimenti, inseguendolo da Civita Castellana a Capua, attaccato dai Lazzaroni, il dopodomani di un armistizio fissato col Vicario, marciando su Napoli fra gli assassini delle vie maestre, trovando i suoi soldati, sventrati da Pronio, impiccati da Rodio, arsi da Fra Diavolo, entrando a Napoli dopo tre giorni di combattimento, palmo a palmo, casa a casa, strada a strada, ristabilendo la pace, là ov'era la carneficina, dando la libertà a quelli che volevano dargli la morte. Confessiamo che Championnet avea tutto il dritto di reclamare i dieci disgraziati milioni consentiti dall'armistizio e offerti una seconda volta dal Principe di Moliterno.

Napoli non la pensò in questo modo. Siccome qui noi oppugniamo Colletta, vale a dire uno storico napoletano, lasciamo parlare questo storico.

« Cinque del governo, egli dice, andarono deputati del disconforto pubblico al Generale Championnet; e il prescelto oratore Giuseppe Abbamonti, parlandogli sensi di carità e di giustizia, lo pregava di rivocare il comando, ineseguibile allora, facile tostochè la repubblica prendesse forza ed impero; ragioni, lodi, lusinghe adornavano la verità del discorso, quando il generale, rompendone il filo, e ripetendo barbaro motto di barbaro antenato, rispose :

« Sventura ai vinti

Era tra i cinque Gabriele Manthoné [*1]  già capitano di artiglieria, gigante d'animo e di persona, amante di artigliera, gigante d'animo e d persona, amante di patria e spregiatore d'ogni gente straniera, il quale sconoscendo le forme di ambascerie, fattosi oratore di circostanza, così disse.

« Tu, Cittadino Generale, hai presto scordato, che non siamo tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i Castelli; che noi tradimmo, per santo amor di patria, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città, nè basterebbero a mantenerla se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci per farne pruova, dalle mura e ritorna se puoi; quando sarai tornato imporrai debitamente taglia di guerra e ti si addiranno sul labro, il comando di conquistatore e l'empio motto, poichè ti piace, di Brenno.

« Nacquero da quel punto, continua Colletta, in lui sospetti e nei repubblicani disamore a' francesi. »

Chiediamo scusa all'illustre storico di cui abbiamo spesso fatto l'elogio, onde non ci sì accusi di presunzione malevola a suo riguardo; ma la sua ammirazione pel discorso di Manthonet ci sembra poco nazionale, a meno che questo discorso non venga riferito da lui come un modello dì ampollosità e d'obblio.

I francesi, sescondo Manthonet, non erano vincitori, essi che avevano disperso un esercito di sessanta mila uomini, prese tre o quattro fortezze di primo ordine, conquistati trenta o quaranta cannoni, quindici o venti bandiere, dieci mila prigionieri, e fatti al passo di corsa, sulle orme dell'esercito di Ferdinando, le sessantacinque leghe che separavano Civita Castellana da Napoli: se non erano vincitori, chi erano i loro avversarii se non i vinti ?

Qui non sei venuto, continua Manthonet, per combattimenti o vittorie.

Come Manthonet chiamava dunque i nove scontri avvenuti fra ì francesi e i napoletani, se non erano combattimenti, ove le truppe di Re Ferdinando furono battute in quei nove combattimenti? Come si chiamerebbero gli scontri nei quali 60,000 uomini sono battuti da 13,000 se non vittorie?

Chiediamo scusa a Colletta e a Manthonet. Furono combattimenti e vittorie che condussero i francesi da Civita Castellana a Capua.

Ricordati che noi ti demmo i castelli, prosegue Manthonet.

Championnet non poteva ricordarsi di una cosa che non era; i repubblicani di Napoli, nell'interesse della conservazione della città di Napoli e principalmente della loro propria conservazione, presero i forti, e particolarmente il forte S. Elmo, e vedemmo in qual modo essi lo avevano preso ; ma non l'avevano dato ai francesi. S. Elmo, malgrado la vantaggiosa posizione che occupa, non altro aiuto aveva prestato a Championnet se non che tirare 86 colpi di cannone, 82 a polvere per spaventare i lazzaroni, e quattro a palla: i due primi di questi quattro colpi di cannone, abbatterono, come dicemmo, la bandiera reale inalberata sul Castello Nuovo, i due altri furono tirati allorchè tutto era finito, contro la piazza del Palazzo Reale, quando si videro dal Castello S. Elmo, i lazzaroni precipitarsi al saccheggio del Palazzo, e questi ultimi colpi di cannone, ripetiamo una seconda volta, uccisero dieciassette persone tra le quali un prete, e ruppero la coscia del gigante di marmo eretto sulla piazza del Palazzo. Non potrà dubitarsi dell'autenticità di questi dettagli allorchè diremo che ci provengono dalla bocca di quello stesso che fece tirare gli 82 colpi di cannone a polvere e i quattro a palla, cioè dalla bocca stessa di Niccolino Caracciolo, fratello di Roccaromana che la Dio mercè vive ancora, per vedere Napoli libero e che vivrà, speriamo, ancora quando questo libro vedrà la luce per darci ov'è d'uopo, l'appoggio della sua testimonianza.

‑ Senza noi dice Manthonet, i tuoi deboli battaglioni, non bastavano a sottomettere questa immensa città, nè basterebbero a mantenerla.

Sono forse gli 82 colpi di cannone a polvere del forte S. Elmo che hanno spaventato i Lazzaroni in tal modo che i repubblicani prendessero la miglior parte della vittoria riportata dai francesi sulla plebaglia di Napoli. Se 82 colpi di cannone a polvere hanno prodotto simile effetto, si converrà che avrà dovuto essere più grande ancora l'effetto dei tre o quattro mila colpi di cannone a palla ed a mitraglia che durante tre giorni tirarono, Championnet, Broussier, Kellermann, e Dufresne, e che in vece di 17 persone ne uccisero tre o quattro mila.

Esci, per fare prova, continua Manthonet dalle mura, e ritorna se puoi. Quando sarai tornato, imporrai debitamente taglia di guerra.

Sventuratamente per Manthonet e per Napoli i francesi furono costretti uscire dalla città e sventuratamente ancora per Napoli e Manthonet, furono i sanfedisti del Cardinale Ruffo che vi entreranno, e quantunque ministro della guerra, quantunque esponesse la sua persona,

I repubblicani in nome dei quali Manthonnet nel disprezzo per gli stranieri, parlava così forte, non potettero impedirgli l'entrata. E’ vero però che i sanfedisti comandati da De Cesari ‑un impostore, da fra Diavolo un bandito, da Mammone e da Sciarpa assassini amendue, non erano stranieri ma compatrioti.

L'amor della patria e il disprezzo dello straniero trascinano qualche volta Colletta ad esagerazioni simili a quelle che abbiamo citate, e noi avremo ancora l'occasione di rilevare, massime sul conto di Francesco Caracciolo, qualche piccola abberrazione di questo genere.

L'amor della patria è una gran virtù, ma lo sprezzo dello straniero, quando gli stranieri sono ciò che in quell'epoca eravi di più puro fra i generali, Championnet, ciò che eravi di più bravo nell'esercito francese, i veterani della prima campagna d'Italia, è un grave errore. Se la gelosia dei generali napoletani non avesse espulsi nel 1815, dall'esercito nazionale, tutti gli stranieri. forse la campagna di Tolentino non sarebbe stata tanto disastrosa, e principalmente così presto terminata.

« Da questo punto ‑ continua Colletta ‑ Championnet concepì diffidenza verso i repubblicani, ed i repubblicani concepirono avversione contro i francesi.

Colletta avrebbe dovuto soggiungere.

« Gli è ciò che naturalmente succede fra il creditore che reclama un debito e il debitore che non vuol pagarlo.

Ritorniamo a Manthonnet e affrettiamoci di dare al suo secondo discorso un sentimento di simpatia che in coscienza, non possiamo concedere al primo, non perchè siamo francesi, ma perchè siamo storici.

Allorchè Manthonet propose al consiglio legislativo il decreto che accordava una pensione ed onori alle madri i cui figli morissero per la libertà, terminò il suo discorso con queste parole degne dell'antichità:

‑ Cittadini legislatori, io spero che mia madre un giorno reclamerà l'esecuzione di questo generoso decreto.

E rendiamo questa giustizia al bravo Capitano che, di origine francese come l'indica l'ortografia del suo cognome, aveva forse quantunque Savoiardo, un poco di sangue guascone nelle vene. Per questo, noi gli perdoniamo il suo discorso. Egli fece il possibile per dare a sua madre il dritto che aveale promesso; e non fu sua colpa se invece di finire sul campo di battaglia come sperava, finì sul patibolo, di cui salì gli scalini con lo stesso coraggio e sangue freddo, che avrebbe messo a scalare la breccia di un bastione.

Sia dunque onore a Manthonnet, nostro compatriota; una sola cosa ci arreca maraviglia, ed è, che dopo due anni, cioè dopo un periodo di libertà sconosciuta a Napoli, dopo i Normanni, il Municipio Napoletano non ha avuto il tempo, o meglio non ha avuta l'idea di consolare l'ombra di questi martiri, non diciamo elevando loro delle tombe innalzando loro delle statue  esso può scusarsi colla sua miseria ‑ ma dando i loro nomi alle piazze dalle volgari denominazioni, alle strade con nomi sì oscuri, in dove quei nobili cuori, battendo ì loro ultimi palpiti e morendo per la patria, passarono andando al supplizio.

Forse vi si penserà a Torino, poichè non vi si pensa a Napoli, e il signor Rattazzi riparerà l'obblio del commendator Colonna.

Ma eravi, fra tutte le ingratitudini che seguono la liberazione di un paese e fra tutti i torbidi popolari che accompagnano una rivoluzione, eravi un uomo la cui devozione alla libertà smentivasi ed elevavasi all'altezza della saggezza.

Quest'uomo era Michele il pazzo.

Costui era uno dì quegli oratori di cui parla Cuoco, quando si lagna delle perduta eloquenza popolare. Costui l'aveva ritrovata e raffazzonata sulla spiaggia di Mergellina o sulla punta del Molo.

La carestia minacciava Napoli. I raccolti dell'anno 1798 furono scarsi, la Puglia era in insurrezione, la Sicilia governata da Ferdinando ricusava di mandare il grano e le navi che ne portavano dalle Calabrie erano predate dai bastimenti inglesi.

Il popolo affamato lagnavasi, e il governo provvisorio, mandava ì suoi oratori al popolo, per esporgli il nuovo stato di cose, del quale il popolo sempre positivo, perchè i suoi bisogni sono materiali, cominciava a stancarsi.

I popoli si stancano presto e principalmente i popoli meridionali, che, male istruiti sui doveri e i destini dell'uomo non sanno soffrire, perchè non hanno imparato ad opporre la forza morale ai bisogni fisici.

Ebbene! di tutti gli oratori, Michele il pazzo era il solo che calmasse il popolo, perchè era il solo che il popolo capiva.

Col suo uniforme di colonnello francese, esso avanzavasi a cavallo in mezzo dei gruppi o se il suo cavallo riposava alla scuderia, forse vuota di biada, saliva sopra un poggiuolo o un carro e dall'alto di questa tribuna improvisava:

‑ Amici miei, diceva egli in dialetto, il pane è caro è vero, non ne disconvengo, ma perchè è caro, ve lo dirò io, io che voi crederete, io che non v'inganno, e ne siete sicuri, ebbene! il pane è caro perchè il tiranno fa predare dai suoi amici gl'Inglesi, tutte le navi cariche di grano che ci vengono da Barberia. Che dobbiamo far noi? Odiarlo combatterlo, perire tutti piuttosto che rivedere un uomo che vuol farei morire della peggiore fra le morti di fame, e malgrado la carestia, guadagnarla nostra giornata facendo tutti i nostri sforzi per non dargli la soddisfazione di sentirei afflitti.

‑ Ma quando finirà tuttociò, esclamava il popolo, quando avremo noi il pane ed i maccheroni al prezzo in cui li avevamo sotto il tiranno? Si sopporta con pazienza una miseria il cui termine si fa vedere, ma una miseria senza termine, è insopportabile.

Alloro Michele soggiungeva con una aria piena di fiducia con più sincerità.

‑ Amici miei, non bisogna chiedere tutto in una volta. Dio non ha fatto il mondo in un giorno; il governo d'oggi non è ancora la repubblica. La costituzione che deve formare la nostra felicità si sta facendo, ma quando sarà fatta, allora soltanto possiamo giudicare secondo i nostri godimenti o le nostre sofferenze. I Dotti sanno perchè mutano le stagioni ; noi, idioti, ci accorgiamo solo di aver caldo o freddo. Abbiam sofferto ben altro sotto il tiranno, grazie a Dio, guerra, fame, peste, senza contare i terremoti. I signori dicono che saremo felici sotto la repubblica, essi si riuniscono tutto il giorno a lavorare pel nostro bene, lasciamoli il tempo di compiere l'opera loro.

Poi, soggiunse sentenziosamente.

‑ Chi VUOI far presto semina il campo a ravanelli

- mangia radici; chi VUOI mangiar pane semina a grano

- aspetta un anno.

‑ Così è della repubblica, l'è il frumento del popolo: aspettiamo con pazienza che spunti e noi lo raccoglieremo.

Un uomo ch'egli aveva chiamato Cittadino, gli domandò un giorno che volesse dir cittadino.

‑ Non lo so, rispose Michele il pazzo, ma dev'essere nome buono perchè, i Capezzoni permettendoci di portarlo l'han preso per sè stessi. Una volta si chiamavano Signori, e noi ci chiamavamo Lazzaroni, vale a dire canaglia, Oggi non vi sono più Lazzaroni nè eccellenze, e siamo tutti eguali.

‑ Eguali,eguali! riprese un uomo del popolo, e che VUOI dire questa eguaglianza?

‑ Lo dirò, ‑rispose Michele il pazzo, poichè sono nella condizione di saperlo. L'eguaglianza significa guardarmi bene ciuccio! ‑ significa poter essere lazzaro e colonnello. Una volta i signori erano colonnelli nel ventre delle madri, e vedevano la luce con i galloni. Hai tu mai visto le nostre donne fare simili figli. No, erano le gran signore che ne facevano. E bene io sono Colonnello, in grazia di chi? della eguaglianza!

E in effetti l'eguaglianza era la cosa più difficile a far comprendere al popolo Napoletano, ed è ancora oggi la più difficile a fargli comprendere, perchè curvato come fu per 900 anni sotto tante dominazioni, sotto le quali era un delitto la parola eguaglianza, i patiboli e le forche gli diedero a questo riguardo un esempio terribile.

Colletta, molto esatto nelle deduzioni sociali, quando la passione non l'acceca, o l'orgoglio nazionale non lo rende ingiusto, Colletta dice:

Ciò è rigorosamente, matematicamente esatto.

« Ora che Michele il pazzo si è provato a far com­prendere ai Lazzaroni ciò che è l'eguaglianza, doman­diamo ai nostri lettori il permesso di presentar loro un parallelo fra la libertà e l'eguaglianza, e nel fine di ren­dere il paragone più sensibile, prenderemo come obbietto di questo parallelo due grandi nazioni, godendo una libertà, l'altra dell'eguaglianza.

L'Inghilterra e la Francia.

Io navigava un giorno fra l'Africa e la Spagna, l'Africa la terra delle favole, la Spagna la terra della cavalleria.

Il secondo del bastimento, un brav'uomo chiamato Vial, mi toccò la spalla e m'additò un Capo che spor­geva nel mare.

‑ Trafalgar! mi disse.

‑ Trafalgar, ripetetti trasalendo.

In effetti, vi sono dei nomi che hanno un potere sin­golare; essi racchiudono tutto un mondo d'idee che pre­sentandosi al nostro spirito se ne impadroniscono imme­diatamente e ne cacciano con violenza le idee anteriori, fra le quali il nostro spirito riposava calmo come un sul­tano in mezzo del suo harem.

Fra noi e l'Inghilterra vi sono sei nomi che riassumono tutta la nostra storia.

Crécy, Poitiers, Azincourt, Aboukir, Trafalgar, e Waterloo.

Sei nomi che esprimono ognuno una di quelle disfatte dalle quali un popolo pare non dovesse mai rialzarsi, una di quelle ferite per le quali si crederebbe che una nazion e dovesse perdere tutto il suo sangue.

E intanto la Francia si è sempre rialzata, e il sangue è sempre rientrato nelle vene del robusto suo popolo.

L'inglese, tranne Taillebourg e Fontenoy, ci ha sempre vinti, ma noi lo abbiamo sempre cacciato.

Giovanna d'Arco, colla spada di Fierbois, ha riconquistato pel Delfino Carlo VII, la corona di Carlo VI, che il re d'Inghilterra avea già messa sul suo capo.

Napoleone, colla spada di Marengo e di Austerlitz, ha cancellato ad Amiens i gigli di cui da 400 anni s'inquartava il blasone d'Inghilterra.

E’ vero che gl'inglesi hanno arso Giovanna d'Arco a Rouen ed incatenato Napoleone a S. Elena. Ma noi ce ne vendicammo, facendo dell'una una martire, dell'altro un dio.

Ora, d'onde deriva quell'odio che attacca eternamente, quella forza che respinge senza posa?

D'onde deriva quel flusso che da sei secoli conduce da noi l'Inghilterra, e quel riflusso che da sei secoli la riconduce in casa sua.

Gli è perchè, nell'equilibrio del mondo essa rappresenta il fatto e noi il pensiero, è perchè questo eterno combattimento, quest'urto senza fine, non è altro che la lotta biblica di Giacobbe con gli angeli, i quali una intera notte lottarono, fronte contro fronte, petto contro petto, ginocchio contro ginocchio, fino a quando venne il giorno.

Tre volte abbattuto, tre volte Giacobbe si rialzò, e restò finalmente ritto in piedi, e diventò il padre delle dodici tribù che popolarono Israele e si sparsero su tutto il mondo.

In tempi più vicini a noi, sulle due coste del Mediterraneo, esistevano due popoli personificati in due città, che si guardavano, come oggi dalle due coste dell'Oceano, o meglio della Manica, si guardano la Francia e l'Inghilterra.

Queste due città erano Roma e Cartagine: in quell'epoca agli occhi degli uomini, esse rappresentavano due idee materiali. L'una l'agricoltura, l'altra il commercio, quella l'aratro, questa la nave.

Dopo una lotta di tre secoli, dopo la Trebbia, Canne, e il Trasimeno, questi Crécy, questi Poitiers, questi Vaterloo di Roma, Cartagine fu annientata a Zama, e l'aratro vittorioso passò sulla città di Didone, il sale venne seminato nei solchi dell'aratro, e le maledizioni infernali furono sospese sul capo di chiunque osasse riedificare ciò che era stato distrutto.

Perchè soccombette Cartagine e non Roma? forse perchè Scipione fu più grande di Annibale?

‑ No. Qui ancora, come a Waterloo, il vincitore si perde interamente nell'ombra del vinto.

Gli è solamente perchè lo spirito del Signore vegliava in Roma, perchè Roma portava nel suo seno fecondo la parola del Cristo, cioè, la civiltà del mondo, perchè Roma era tanto necessaria ai secoli passati, quanto la Francia ai secoli avvenire.

Ecco perchè la Francia si è rialzata dai campi di battaglia di Crécy, di Poitiers, d'Azincourt, e di Waterloo, come Roma si rialzò dai campi di battaglia della Trebbia, di Trasimeno, e di Canne: ecco perchè la Francia non è stata ingoiata ad Aboukir e Trafalgar.

Ciò è perchè la Francia cristiana è Roma, e l'Inghilterra Luterana è solamente Cartagine.

L'Inghilterra può scomparire dalla superficie del mondo, e la metà del mondo sulla quale essa pesa, batterà le mani.

Ma se la luce che brilla nelle mani della Francia talvolta torcia, talvolta lampada, si estinguesse, nel modo istesso che una lagrima di Dio cadendo sul sole lo spegnerebbe, il mondo intero metterebbe nelle tenebre un lungo grido di agonia e di disperazione.

Per avere un'idea della posizione che i due popoli occupano nel mondo, mirate l'ansietà colla quale il mondo cerca nei nostri giornali l'articolo intitolato ‑ premier Paris.

Vi è un primo Londra, un primo Pietroburgo, un primo Vienna, un primo Costantinopoli, un primo Berlino, un primo Madrid?

No; non havvi che un primo Parigi.

Si legga nel Times o nella Gazzetta di Pietroburgo che in seguito d'un'insurrezione qualunque, il popolo si è impadronito di Westminster o del Palazzo d'Inverno, i lettori del Times o della Gazzetta di Pietroburgo proveranno solo un sentimento di curiosità, i re resteranno perfettamente tranquilli sui loro troni, e i lettori nelle loro seggiole.

Si legga nel Monitore che un'insurrezione è avvenuta nelle strade di Parigi e che i capi di questa insurrezione marciarono sull'Hotel de Ville e se ne impadronirono; i lettori sì alzeranno spaventa‑ti dalle seggiole, e i re vacilleranno sul trono.

La ragione è che tutti gli altri popoli sono il despotismo o la libertà, e solo noi altri francesi siamo qualche cosa di più terribile.

Noi siamo l'eguaglianza, cioè la democrazia.

Sviluppiamo il nostro pensiero con un fatto e un paragone.

Un giorno, nel 957, quando sulla piazza di Cambray un uomo insorgendo contro il proprio vescovo gridò: Comuni, vale a dire Democrazia.

Questa parola, circolando attraverso ai suoli addivenne progressivamente, sorgente, ruscello, torrente, riviera, fiume, lago.

Oggi essa è Oceano.

Le differenti guerre civili avvenute in Francia, la guerra de' Pastori, la Jacquerie, guerra del Bene pubblico, Lega., Fronda, Rivoluzione, non sono che lo sviluppo di queste parole gigantesche:

Democrazia cioè Eguaglianza.

L'Inghilterra, nostra rivale, è al contrario la rappresentante di queste due parole:

Aristocrazia e Libertà.

La Francia democratica può fare a meno della libertà, ma non dell'eguaglianza.

L' Inghilterra aristocratica non si accorge dell' eguaglianza perchè appena è alla libertà, di cui l'eguaglianza è suprema perfezione.

Se in seguito di un movimento rivoluzionario, viene presso di noi la reazione, essa potrà attentare impunemente alla libertà, che siamo sempre pressocchè certi di riconquistare; ma mai alla eguaglianza.

La nostra eguaglianza è la corona di ferro del popolo. Dio gliela diede, guai a chi la tocca  

Si chiudano pure le nostre Camere dei deputati, noi diremo :

In fede mia, non ci si perderà nulla. Era quella, una ciurma di chiacchieroni, che occupavansi dei propri affari, di quelli delle loro famiglie, dei loro parenti, e giammai dei nostri: Buongiorno.

Si sopprimano pure i nostri giornali, noi diremo:

In fede mia, non è una grande sciagura. Erano una mano di scribacchianti, che ci vendevano tre soldi di prosa che non valeva un centesimo: Buona sera.

Ma se si tenti scrivere sopra una porta: Il sig. di Polignac, il sig. Guizot, o il sig. Baroche, essi soli passeranno per quella porta, il primo giorno vi sarà dinanzi a questa porta per la quale nessuno può passare, eccetto i privilegiati, un attruppamento, il secondo giorno vi sarà un'insurrezione, il terzo giorno avverrà una rivoluzione.

Il quarto giorno, 29 luglio, o 24 febbraio, questa porta sarà atterrata e ognuno passerà per questa porta fino a quando sarà stanco di passarci.

Ad ogni porta che noi sfondiamo, la democrazia cioè l'eguaglianza dà un passo innanzi, non solo in Francia, ma nell'intero mondo.

Queste porte i re le chiudono, e Dio le apre.

Prendiamo il nostro racconto, dove lo abbiamo lasciato.

Verso quel tempo stesso, cioè l'8 febbraio 1799, leggevasi nel giornale di Eleonora Fonseca Pimentel, le linee qui appresso:

« Una egregia cittadina, Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera la cospirazione di pochi non più scellerati che mentecatti, i quali, fidando alla presenza della squadra inglese, di concerto con essa, intendevano nella notte di sabato abbattere il governo, massacrare i buoni patriotti e tentare indi una controrivoluzione.

« Il capo del folle iniquo progetto è un tale Baker, tedesco di origine, addetto al commercio presso il mercante Abbenante e che fu quella stessa notte arrestato e condotto la mattina seguente, in prigione, trascinando sotto il braccio la bandiera regia che fu trovata presso di lui. Vi si trovarono similmente diverse carte di sicurezza, le quali dovevano dispensarsi, ed altre che erano state dispensate, a coloro che si volevano salvare, destinando i rivoltosi tutto il resto (in fantasia!) all'eccidio.

« Diverse carcerazioni sono poscia seguite, ed il monistero di S. Francesco delle Monache, atteso l'opportunità di quel locale, posto siccome un'isola, fu destinato per custodirvisi i detenuti, avendolo a tal oggetto abbandonato quelle religiose col passare all'altro di Donna Albina. Tra gli arrestati si contano finora, oltre il nominato Baker e suo figlio, il sotto parroco del Carmine, principe di Canossa; i due fratelli magistrato e vescovo de lorio, e l'altro magistrato Giovan Battista Vecchione. Un deposito di circa 150 fucili fu sabato ancora, con altre diverse sorte d'armi, trovato nella dogana. »

Siccome quest'episodio della Sanfelice è uno de' più drammatici e commoventi della rivoluzione napoletana, faccia seguito alle poche linee citate dal Monitore, tutto ciò che le nostre ostinate ricerche ci hanno insegnato sul conto di quella misera donna.

Diciamo ricerche ostinate, imperciocchè in Napoli più che altrove, la storia incontra strane difficoltà ; e queste difficoltà vi vengono dalle stesse famiglie di que' martiri che volete glorificare. Ognuno trema ancora oggi, sotto il regno di Vittorio Emmanuele, di dover confessare esser parente ad un patriota del 99, del 1821 o del 1848. Francesco Il a Roma è un Annibal ad portas. L'attuale generazione che ha veduto ritornare il primo Ferdinando dalla Sicilia, e Ferdinando Il da Gaeta, crede sempre al ritorno di Francesco II, e tien norma da ciò, facendo tacere ogni sentimento di amor patrio e di famiglia.

Così, ci siam diretti a' più stretti congiunti della Sanfelice, diciamolo quantunque nol dovessero credere, ci siam diretti alla figlia di lei, vecchia oggi in su' 67 anni; la poverina ha recisamente rinnegata sua madre.

Allora è stato mestieri andare in cerca della verità presso i contemporanei; abbiamo trovato de' vecchi che in quel tempo erano fanciulli, e che, avendo raccolte tutte le loro rimembranze ci han narrato quanto segue.

Questo racconto contrasterà un tantino con quello di Coletta: ma non si scosterà molto da quello di Coco.

Solo vi aggiungerà il pittoresco di cui difetta interamente quest'ultimo storico.

Luisa Molina fu tolta in moglie dal Cavaliere Sanfelice, di natali nobili non solo, ma illustri; gli era zio il Duca di Bagnoli, che fu poscia, per un novennio, sindaco di Napoli.

Ella era donna oltre ogni dire ragguardevole, non tanto per la bellezza della persona quanto per l'incantevole ingegno ed adorabile intelligenza.

In quel tempo avea già toccato i trent'anni ed era madre di tre figli.

Abitava al largo della Carità, numero 6, al piano matto, a destra della scala, nel salire.

Siccome tutte le donne intelligenti di quell'epoca, avea abbracciato i nuovi principi, ed all'opposto di suo marito, sviscerato borbonico, ell'era repubblicana.

La migliore sua amica era la Duchessa Fusco, anch'essa repubblicana, quantunque il duca Fusco siccome il cavaliere Sanfelice, fosse di contraria opinione. La duchessa Fusco, si chiamava prima di sposarsi al Duca, Eleonora Capano.

Abitava: Porta Medina, all'ultimo palazzo a sinistra.

Era amica di Eleonora Pimentel, e teneva in casa un club o comitato.

Ne nacque quindi che la Sanfelice e la Duchessa Fusco viveano completamente divise da' loro mariti; le donne ricevendo in casa una società di repubblicani, i mariti ricevendo una società di realisti.

La duchessa Fusco, malignamente e per far arrabbiare il marito, avea educato un povero pappagallo, che fin allora non avea avuto opinione alcuna, imparandogli a gridare: viva la Repubblica, morte al tiranno.

Questo particolare che, a prima vista sembra puerile, non fu poi senza importanza; ed è perciò che qui lo registriamo.

La signora Sanfelice rimaneva la sera presso la duchessa Fusco, lasciando libero il marito di ricevere i realisti, suoi amici.

Fra gli amici del Cavaliere Sanfelice erano i signori Baker padre e figlio, banchieri tedeschi, compiutamente divoti a Ferdinando.

Una sera in cui Luisa Sanfelice, lievemente indisposta, era rìmasta in casa, e che, per l'opposto il marito dì lei era uscito, sopraggiunse Backer figlio che volea vedere il cavalier Sanfelice, e, siccome era uno degli adoratori assidui di Luisa, colse l'occasione dell'assenza del cavaliere per far chiedere alla moglie di lui se volesse riceverlo.

Sia per ozio, sia per curiosità femminea, sia fors'anche per fatalità, la povera donna ordinò si facesse entrare.

Era l'ora già avanzata, le undici stavano per suonare.

Backer contro il solito era mestissimo, o meglio, preoccupatissimo.

Luisa lo mise alle strette col chiedergli ripetutamente ciò che venisse a fare in casa del marito.

Ei confessò allora che era venuto nella speranza non già di vedere il cavaliere, ma di trovar lei.

Luisa sorrise e si fece beffe del suo amore.

‑ Il mio amore è così sincero, rispose colui, che vò infrangere ogni giuramento per provarvelo. Una vasta cospirazione scoppierà, che rovescerà il governo repubblicano, e nella quale periranno forse i tre quarti de' patrioti. Ebbene! non voglio che sopravvenga a voi sventura alcuna, ed al pericolo della mia vita, vi vò dare il mezzo di salvare la vostra.

La sig. Sanfelice s'accorse, dal tuono con cui parlava Backer, che diceva il vero; allora non pensò ad essa soltanto, ma ancora ai suoi amici.

‑ Se il giuramento che fo, sopra quello che mi è più sacro al mondo, che cioè, qualunque tortura non potrà farmi rivelare il nome vostro, vi basta, parlate! gli disse.

Ebbene! domani, nella notte, soggiunse Backer, una contro rivoluzione scoppierà e tutti i patrioti saranno trucidati, tranne coloro ì quali potranno fare il segnale di convegno e che saran forniti di una carta di sicurezza. Reco a voi una di queste carte e vi mostrerò il segnale.

Diffatti, porse a Luisa una carta su cui era scritto il motto : in sangue foedus, e le mostrò qual era il segno di riconoscimento.

Questo segno consisteva a mordere la prima falange del pollice della mano destra, tenendo l'unghia in alto.

Poi, soggiunse:

‑ Scendete domani a mezzanotte nella strada e se trovate la vostra porta crocesegnata, cancellate quella croce; ed ora, la mia vita sta nelle vostre mani; dite ancora che non vi amo.

La Sanfelice rinnovò il giuramento che aveva a lui fatto e Backer, preso commiato, se ne uscì.

Appena ebbe udita chiudersi la porta, si pose indosso uno sciallo, scese precipitosamente e corse in tutta fretta dalla duchessa Fusco.

Nel vederla entrar a quell'ora, senza cappello in testa, turbato lo sguardo ed il volto, quando due ore prima avea scritto essere malaticcia, la duchessa le venne incontro, chiedendole che cosa si fosse.

Fra le persone che ancora si trovavano nel salone della Duchessa, era un giovane a nome Ferdinando Ferri.

Colletta che non riferisce nessuno di quegli particolari or ora da noi raccontati, e cui garantiamo la veracità, dà per certo nella sua storia, che Ferdinando Ferri era il rivale di Backer ed era meglio trattato di costui, per parte della Sanfelice. Niente vi è che ci faccia credere a codesta assertiva, tranne però che Ferdinando Ferri, era in quei giorni uno fra i più ardenti patriotti di Napoli: diciamo in quei giorni, perchè fu poscia ministro di Ferdinando II, la qual cosa dimostra che avea mutato un tantino opinione.

Era capitano del battaglione de' volontari della morte, formatosi a Pozzuoli, ad imitazione di quello del 1647.

La Sanfelice trasse in disparte la duchessa nel vano di una finestra, e fè cenno a Ferri di avvicinarsele.

Allora, narrò ciò che sapeva della congiura, fe vedere la carta di sicurezza, li avvisò del segno di riconoscimento ; ma qualunque istanza le facesse la sua amica ed alcuni dicono ancora, il suo amante, ostinatamente si oppose a nominare colui che le avea f alta tal rivelazione.

Ferri non insistette; ma subitochè Luisa Sanfelice fu ritornata a casa sua, si recò presso il comitato di Salute Pubblica, aperto la notte come il giorno, e raccontò tutto ciò che gli era stato detto, nominando però, meno discreto della Sanfelice, la persona che gli avea affidato tal segreto .

La dimane, di buon'ora, la Sanfelice fu chiamata presso il Comitato; ma, fedele al suo giuramento, nessuna promessa, nessuna minaccia, potè strapparle il nome del capo del complotto.

Allora il Comitato la trattenne, mandò a cercare il portinaio della casa di lei, e chiese a lui quali fossero state le persone che la sera innanzi erano venute a far visita alla Sanfelice.

Una sola era venuta, ed era Backer figlio.

La forza si trasferì all'istante in casa del banchiere, trasse in arresto il padre ed il figlio, e vi fece una perquisizione.

Si rinvennero armi e bandiere, ed oltre a sei od ottomila carte di sicurezza che doveano essere distribuite nello stesso giorno.

Sin d'allora non vi fu più dubbio alcuno, rispetto ai capi di quella cospirazione, e Backer padre e figlio furono condotti in carcere.

L'indimani, Luisa Sanfelice veniva proclamato la madre della Patria.

Questo onore, come si vedrà, costò caro molto alla povera donna.

Quel giorno istesso ebbe luogo al Mercatello una esecuzione.

A Napoli nulla cambia; quel largo è ancora quale era l'8 febbraio 1799 : solo però la gran porta a volta che sta in mezzo all'emiciclo formato dal fabbricato de' Gesuiti, non era allora se non che un portico, servendo di nicchio per la statua di Carlo III.

Il Governo provvisorio avea decretato dover quella statua essere distrutta. Fin dalla mattina, per presiedere a questa distruzione che dovea esser fatta dai muratori, fu spedita una compagnia della guardia nazionale, comandata dal capitano Luigi Bozzaotra, notaio a Napoli, il quale dimorava al largo della Carità n. 106, precisamente dirimpetto alla Sanfelice.

In capo ad una mezz'ora, il capitano vedendo che i muratori tardavano, trasse la sciabola, s'avventò alla statua e ne fè cadere la testa, spezzando la sua sciabola.

Rimise nel fodero la lama spezzata, prese la testa abbattuta, fu il primo a sputarle in faccia e la presentò a tutti gli uomini della compagnia che fecero altrettanto.

Un suo giovine di studio, mandò a terra il braccio della statua con altro colpo di sciabola, e la compagnia gittandosi su lei, la fece in pezzi.

Al ritorno del Re, Bozzaotra e il suo giovane di studio, furono impiccati.

Due giorni dopo, il 10 febbraio, 300 giovani, vestiti di nero, con armi nere, con bandiere nere, portando un teschio e due ossa incrocicchiate, entrarono a Napoli su due fila, venendo da Pozzuoli, e seguivano la strada di Toledo, in mezzo alle grida di: Viva la libertà, muoiano i tiranni!

Una delle due colonne di questi volontarìì della morte, era condotta da Ferdinando Ferri, e l'altra dal giovine marchese di Genzano: il marchese di Genzano ebbe la testa tagliata al ritorno di Ferdinando l°.

Ferdinando Ferri, l'abbiam già detto, fu Ministro di Ferdinando II, nel 1848.

Non vi è che ventura e sventura in questo mondo, o piuttosto, non vi è che onore e disonore!

 

 

 

 

 

 

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 [*1]         Non Manthoné ma Manthonet.