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Di Alexandre Dumas |
Libro III
CAPITOLO VII.
Partito Championnet, il generale Macdonald prese il comando dell'esercito.
Contemporaneamente il Gran Duca Ferdinando di Toscana pagava colla perdita dei propri stati la sua alleanza che l'atto d'ostilità del quale erasi reso colpevole, ricevendo l'esercito napoletano comandato dal generale Naselli, e dando ospitalità al Papa Pio VI, faceva incontrastabile.
Ai rimproveri che gli faceva il Governo francese, Ferdinando aveva dato una di quelle vaghe risposte al quale ci aveva abituati il suo omonimo di Napoli.
In quanto al ricevimento fatto al corpo di armata Napoletano, egli vi era stato costretto dalle minaccie di Ferdinando e di Nelson. In quanto al Papa Pio VI, egli credeva esser dovere di un principe cristiano accordare un rifugio al Capo della Cristianità.
La Francia fece marciare contro la Toscana un corpo d'armata, sotto gli ordini del Generale Gauthier: arrivato sotto le mura di Firenze, il Generale francese intimò alla città di arrendersi; ma Ferdinando, si contentò di rispondere col proclama seguente:
« Ai miei popoli ».
« Vengono in Toscana armi francesi. Noi riguarderemo come prova di fedeltà e di amore dei nostri sudditi l'obbedienza al comando della autorità, il mantenimento della quiete pubblica, il rispetto ai Francesi, la diligenza di evitare gli sdegni dei novelli dominatori: per le quali cose crescerà, se d'incremento è capace, il nostro affetto verso i popoli ».
Il domani dell'entrata dell'esercito francese a Firenze, cioè, il 27 marzo, il Gran Duca lasciò la sua capitale, la cui tranquillità non venne punto turbata. Questa notizia trovò Napoli molto agitata e molto inqueta per le nubi che si addensavano sulle Calabrie.
Era evidente che se vi fosse uragano, l'uragano verrebbe di là.
Ma pria di ritornare al Cardinale Ruffo e all'avventu‑ riere Cesari che lasciammo al momento di operare la sua giunzione, diciamo il poco che c'è da dire sulla dimora della Corte a Palermo.
Abbiamo visto partire il 21 dicembre 1798, la famiglia reale sul Vanguard; vedemmo morire il Principe Alberto fra le braccia di Lady Hamilton; vedemmo il re sbarcare il 26, mentre che la regina estenuata dalle fati‑ che del viaggio, scendeva a terra il domani. Ma fra questa data e quella del 25 gennaio, giorno in cui vediamo il Re firmare i pieni poteri dati al Cardinale Ruffo, avvennero delle cose che senza essere di una grande importanza, pure devono qui avere il loro Posto.
La stanchezza del viaggio, la rabbia di lasciar Napoli, il dolore cagionato dalla morte del Principe Alberto, quantunque non fosse tenera pei suoi figli, e non amasse realmente che il Principe di Salerno, allora in età di nove anni, avevano resa la Regina positivamente inferma. Nelson constatando la filosofia del Re che riprese le cacce e la sua partita di whist ogni sera, constata questa indisposizione della Regina, indisposizione alla quale crede veder prendere le proporzioni di una malattia.
Il 6 gennaio il Re decretava che tutti i francesi, di qualunque condizione essi fossero, dovessero lasciar l'isola entro le 24 ore; un bastimento inglese di 600 tonnellate era messo a loro disposizione.
Il domani, duecento francesi emigravano, e il Re stabilì esso stesso il luogo del di loro sbarco.
La regina temeva di una cosa sola, cioè che Nelson lasciasse Palermo; essa capiva bene che in lui stava tutta la sua forza politica. Ma non eravi pericolo. Nelson, innamorato pazzo di Lady Hamilton, per restare presso la regina prendeva il pretesto di negoziare gl'interessi dell'Inghilterra. E in effetti i suoi amori non gli facevano mica dimenticare gl'interessi che menziona, dappoichè il 21 gennaio, in una lettera al Capitano Ball il vincitore di Aboukir parla della cessione di Malta alla Gran Brettagna.
Erasi saputo a Palermo l'armistizio conchiuso fra il Principe Pignatelli e i francesi, e quest'atto aveva messo la regina in tale stato di furore, che Acton era in procinto di partire alla volta di Napoli; ma il Re, o meglio la Regina glielo aveva impedito.
Il 20 gennaio una nave proveniente dall'Egitto, portando 82 soldati ciechi che il Generale Bonaparte rimandava in Francia, approdava ad Augusta, spinta da un temporale, e gli 82 ciechi erano trucidati dal primo fino all'ultimo.
Intanto la Sicilia non era sfuggita, alla febbre di ribellione contagiosa a tutti i popoli: temevasi uno sbarco di patriotti o di francesi a Messina. Nelson chiese al Marchese di Niza di prestare mano forte all'ordine che mandava il re‑di predare tutti i navigli francesi o napoletani che costeggiassero le spiaggie della Sicilia e delle Calabrie; « la Sicilia minaccia di insorgere da un momento all'altro, gli disse, e la famiglia reale non avrà altro rifugio che la flotta Inglese. » Egli ordina adunque che i trasporti venghino a Palermo e che vi restino pronti all'occorrenza.
Nel tempo stesso che Nelson era non
solo pronto ad ubbidire a tutti gli ordini, ma benanco a indovinare tutti i
desideri di Sua Maestà, faceva conoscere al Vascello Principe Reale che dovea trasportare 500 uomini a Messina: scrisse
quindi al Console Inglese, James Though, che il Re avendo bisogno di piombo per
fondere palle da fucile, lo pregava di vendere agli ufficiali di Sua Maestà
cento tonnellate di piombo, badando bene al tempo
stesso a cambiare la mercanzia solo contro denaro contante o contro valori
certi.
Il 15, Nelson scrisse in nome del Re all'ammiraglio Utchakoff, comandante la flotta russa innanzi Corfù, che un uomo di fiducia eragli stato inviato per parte del Re onde pregarlo di fare avanzare senza ritardo, sulla costa di Calabria, la sua flotta e quella Turca.
Vedemmo il risultato di questo invio, cioè il pronto rimbarco dei francesi che presero Brindisi.
Sua Maestà Siciliana ricordandosi della ospitalità ricevuta a bordo dal Vanguard, mandò il 24 gennaio a Nelson mille once, vale a dire 12,000 franchi all'incirca, da distribuirsi a bordo del bastimento.
La ripartizione si fece in questo modo [*1]:
Al servidorame |
100 |
once. |
Ai 27 gentiluomini di guardia a poppa e agli uffiziali subalterni, quattro once ciascuno |
108 |
» |
Ai 579 marinai, un'onza e un terzo ognuno |
772 |
» |
Ai 26 mozzi, 1/2 oncia ognuno |
13 |
» |
Resto da aggiungere alla zuppa. |
7 |
» |
Totale |
1000 |
» |
Il 28 febbraio, una deputazione di Maltesi venne a trovare il Re Ferdinando a Palermo, chiedendogli che, in
vista della critica posizione del paese, il Capitano Ball, pervenuto più volte a mettere la pace fra essi, presiedesse il loro Consiglio.
Il cinque marzo, in ricompensa delle cure che davasi, Nelson era fatto cittadino di Palermo.
Mi son rivolto, onde avere dei dettagli sul primo soggiorno del Re a Palermo, completamente dimenticato, moncurato dagli storici, ad un mio vecchio amico, Palmieri di Miccichi Marchese di Villalba, che in età di 82 anni ha conservato non solo tutta la memoria, ma benanco tutto il suo spirito.
Egli è lo stesso innanzi al quale Ferdinando raccontava con franchi scrosci di risa la sua fuga d'Albano solo a solo col Duca d'Ascoli; il suo buon umore gli apriva le porte del Palazzo e spessissimo assisteva alla partita del Re.
Egli ricordavasi perfettamente Nelson ed Emma Lyonna.
Copio una nota di sua mano a tal proposito.
« Lady Hamilton, oltre la sua politica e le sue galanterie amava il gioco con furore. Ho ancora avanti gli occhi questa splendida creatura, la quale mentre che la regina e le Principesse Reali ricamavano uno stendardo pel Cardinal Ruffo, in un angolo del salone, restava ostinatamente assisa dinanzi a una tavola di trenta e quaranta, con le guancie infiammate e puntando l'oro a piene mani: Lord Nelson, che non giocava, era costantemente assiso dietro di lei o all'impiedi, appoggiato alla spalliera della sua seggiola, non volgendo ad alcuno la parola, se non a Lady Hamilton, alla quale di tanto in tanto parlava in inglese a voce bassa e all'orecchio.
« Un altra debolezza della bella Inglese ‑ è sempre il mio vecchio e spiritoso narratore che parla ‑ era di appassionarsi di tutti i gioielli che scorgeva.
« La persona che abitualmente tenea la bisca Rossa o Nera che non nomino, perchè la sua famiglia è una delle prime di Sicilia, era una specie di Casanova, noto pei suoi viaggi in Europa come pei suoi duelli, quasi tutti cagionati dalla sua fortuna, costante e straordinaria al gioco.
« Istruito della passione di Milady, il nobile compagno di gioco mancava di rado a fare la sua taglia senza una ricca spilla al petto della camicia o un ricco anello al dito.
« Il movimento del collo, o l'agitazione delle mani faceva scintillare il gioiello agli occhi di Lady Hamilton, che non mancava di esclamare: « Oh! mio caro Duca che bella spilla, o che bell'anello avete voi.
‑ In effetti, diceva il Duca, essa mi viene da Pietroburgo, è stata lavorata dal famoso Duval, gioielliere della Corte di Russia, il primo orefice di Europa.
‑ Oh caro duca, mormorava la bella giovane, cessando un istante di fare attenzione alle sorte, quanto darei per avere questo anello.
‑ E' vostro Milady, diceva il Duca, traendolo dal suo dito e porgendolo con galanteria avanti ad essa.
‑ Sia, ma a patto che mi direte il prezzo che vi è costato. Capirete, mio caro Duca, che non posso da voi ricevere dei regali di tal prezzo; che ne direbbe Sir William? soggiungeva, gettando di passaggio a Nelson uno dì quei sorrisi inebbrianti, di cui aveva il secreto la sua bocca e i suoi occhi.
‑ Allora Milady, replicava il Duca, rimettendo l'anello al dito, voi vi priverete di questa fantasia, attesochè essendomi costato dieci volte quanto vale, io non intendo farvi portare il peso delle mie follie.
« E la conversazione terminava così, però Nelson avea visto ed inteso tutto.
« Il domani alla prima ora, Nelson andava a trovare il Duca.
Duca, gli diceva, voi mi siete amico, bisogna che mi rendiate un favore.
‑ Parlate, mylord, sono vostro in corpo ed anima.
‑ Cedetemi il vostro anello d'ieri sera, ma senza cerimonie, voglio sapere sulla vostra parola d'onore quanto vi è costato.
« Il duca sospirava, andava a prendere l'anello, e ritornava con un altro sospiro; diceva un prezzo triplo di quanto valeva il gioiello e sempre sospirando, riceveva il denaro.
« E la sera Milady, armata della sua nuova conquista, spillo o anello, mostravala a chi voleva vederla, dicendo:
‑ Guardate questo impareggiabile gioiello, è un regalo di Milord.
« E Sir William, tutto occupato di politica e d'archeologia, non vedeva niente, e non sentiva niente ».
« Non erano soltanto degli anelli e delle spille che facevasi dare Emma Lyonna dal suo illustre amante. Ecco una lettera di Nelson la cui traduzione testuale prova che i suoi desideri non limitavansi solo alle gemme.
« A Sir Spencer Smith Esq.
Palermo 12 marzo 1799
« Caro Signore
« Desidero due o tre bei scialli dell'Indie ‑ qualunque siane il prezzo. Siccome non conosco alcuno a Costantinopoli, così mi prendo la libertà di chiedervi il favore di pregare i miei amici farmi questo piacere. Ne pagherò l'ammontare accompagnandolo di molti molti ringraziamenti, sia a Londra, o in qualunque altro sito, allorquando mi si farà conoscere ‑ facendo questo favore acquisterete un nuovo titolo alla riconoscenza di
NELSON
Questa lettera non ha bisogno di commenti, è prova che Emma Lyonna, sposando Sir W.Hamilton non aveva del tutto dimenticato il suo antico mestiere.
In questo frattempo, il Principe
Pignatelli cacciato da Napoli come narrammo, portando via con lui quei famosi
500 mila ducati che il municipio reclamava da lui, che Ruffo reclamava dal
Tesoriere Taccone, che il Tesoriere Taccone reclamava da Acton, e che non si
trovarono mai; in questo frattempo, diciamo, il Principe Pignatelli giunse a
Palermo, e annunziò a Ferdinando che il mondo liberale contava una repubblica
di più, e che questa repubblica chiamavasi, la Repubblica Napolitana.
Fu per questa notizia che il Re fece arrestare Pignatelli e lo mandò in prigione a tener compagnia al ministro della guerra Airola, e al traditore Michaud [*2].
Effettivamente, ascoltando una simile nuova, la collera di Ferdinando era divenuta immensa.
Egli non comprendeva come i suoi sudditi, così miserabilmente abbandonati da lui non avessero mantenuto il loro giuramento di fedeltà.
In effetti tutto ciò era doloroso ; avveniva del patrimonio di Carlo III quel che oggi avviene del Patrimonio di S. Pietro; esso era diminuito per metà; il Re delle Due Sicilie non ne aveva più che una sola. Nobiltà e borghesia avevano con ardore abbracciata la causa della rivoluzione: restavano al Re Ferdinando solo i suoi buoni lazzaroni, e anche di questi, come dicemmo, qualcheduno era passato armi e bagaglio dal lato dei repubblicani.
A vero però che S. Gennaro ne aveva dato loro l'esempio.
In modochè, Re Ferdinando fece il voto s'egli rientrava a Napoli di cassare S. Gennaro dal suo grado di Capitano Generale dell'esercito, e di fabbricare una chiesa sul modello di S. Pietro. Ne risultò poi quel grazioso fabbricato che chiamasi S. Francesco di Paola.
Poscia ritornò a cacceggiare, e a fare la sua partita di riversino. Ciò faceva dire a Nelson che:
‑ Definitivamente il Re era un gran filosofo.
Il Re, quantunque detestasse la nobiltà di Toga, aveva, non saprei per qual favore, ammesso al suo giuoco il Presidente Cardillo ; di più lo trattava con un'amicizia tutta particolare, forse perchè il Presidente Cardillo non aveva un capello sulla testa, e non un pelo sul mento, e il Re abborriva i capelli alla Tito, e le barbette. La maestosa parrucca del Presidente aveva dunque il privilegio di essere particolarmente ben accolta dal Re. Cosicchè lo invitava alle volte a fare la partita di riversino.
‑ Allora, diceami il marchese di Villalba, dal quale rilevo questo aneddoto, era uno spettacolo dato alla galleria: quando il Re abitava Napoli: il Presidente era tenuto come l'uomo il più impetuoso della Sicilia, allorquando egli giocava con tutt'altra persona che non fosse il Re, sbrigliava la sua collera, fulminava il suo compagno di gioco, con parolacce, faceva volare i gettoni, i segni, le carte, il denaro, il candeliere, ma quando aveva l'onore di giocare col Re, il povero presidente, aveva la museruola ed era obbligato a rodere il freno. Egli afferrava purtuttavia, con intenzione che non isfuggiva ad alcuno, candelieri, denaro, carte, segni e gettoni, ma ad un tratto il Re che aspettava la minaccia, lo guardava, o volgevagli una domanda, allora il presidente sorrideva con tutta la grazia che gli era possibile, riponeva sulla tavola la cosa qualunque che aveva nelle mani, e contentavasi di strappare i bottoni del suo abito, che il domani rattrovavansi seminati sul pavimento: frattanto un giorno, che egli aveva spinto il povero presidente più lungi dell'ordinario e che tale scherzo aveagli fatto obliare il suo giuoco, il Re si accorse che eragli rimasto un asse del quale poteva disfarsi.
‑ A Dio mio, quanto sono asino, esclamò Ferdinando, avrei potuto dare il mio asse, e non l'ho fatto.
‑ E bene, io sono più asino di vostra Maestà, rispose il Presidente, perchè avrei potuto dar la chinola e mi resta nelle mani.
Il Re si mise a ridere : la risposta gli ricordò probabilmente la franchezza dei suoi cari lazzaroni.
Bisogna anche dire che il Presidente era come Nemrod e come il re Ferdinando un gran cacciatore dinanzi a Dio, e che aveva delle magnifiche caccie alle quali il re, appena lo aveva saputo, erasi da sè stesso invitato. Ciò accadeva nel suo bellissimo feudo d'Illice, e siccome in mezzo della proprietà elevavasi un castello degno di essa, S. M. benignavasi, la vigilia del giorno in cui doveva aver luogo la caccia, cenare e coricarsi nel castello dove restava ogni volta due o tre giorni consecutivi.
Una sera vi si arrivò come al solito con l'intenzione di caccieggiare il domani ; quando trattavasi della caccia il re non dormiva ; cosicchè dopo aver girato e rigirato tutta la notte, si levò alla punta del giorno e accendendo la sua bugia, si diresse in camicia verso la camera del feudatario ‑ Ferdinando bramava vedere che figura facesse un presidente nel suo letto: girò la chiave ed entrò nella Camera.
Dio secondava i desideri del Re che stava per vedere quel che meno si aspettava.
Il Presidente senza parrucca e in camicia era assiso in mezzo della camera, su quella specie di trono ove il sig. de Vendóme ricevette Alberoni; il re andò direttamente da lui, mentre che sorpreso all'imprevista, il povero presidente rimaneva, senza dir motto; il re gli mise la sua candela sotto il naso per veder meglio, qual viso facesse, poi cominciò a fare il giro della statua e del piedistallo con una ammirevole gravità; mentre che la sola testa del presidente, abbrancato colle mani al suo seggio mobile, come quella di un babbuino della China, accompagnava S. M. con un movimento di rotazione centrale, simile al movimento circolare.
In fine i due astri che compivano il loro giro si trovarono al cospetto l'uno dell'altro, e siccome il re erasi rialzato, conservando il silenzio,
‑ Sire, disse il presidente con il massimo sangue freddo, il caso non essendo preveduto dalle leggi dell'etichetta, devo restare o alzarmi?
‑ Rimanga, rimanga, disse il Re, ma non ci fate aspettare, ecco le quattro che suonano.
Ed egli uscì dalla camera con la stessa gravità colla quale vi era entrato.
Il Re aveva le sue ragioni d'amar la caccia. Senza adulazione, essendo un abile tiratore, così ben di rado trovava un rivale che gli disputasse la sua superiorità; quantunque non tirasse mai che a palla sciolta era sicuro di toccar l'animale là dove voleva, vale al dire al disotto della spalla. Ma il curioso si era che egli esigeva dai cacciatori del suo seguito, che colpissero come lui, altrimenti andava in collera tale che noceva al favore cui godeva il colpevole. Un giorno che aveva cacceggiato tutto la giornata nella foresta della Ficuzza e che i cacciatori erano intorno ad un mucchio di cignali abbattuti, il Re si accorse di un cadavere colpito al ventre.
Bentosto il rossore gli salì alla fronte, e gettando uno sguardo iroso intorno di lui,
‑ Chi è il porco, domandò, che ha fatto un simile colpo ?
‑ Io, Sire, rispose il Principe di S. Cataldo, bisogna impiccarmi per questo?
‑ No rispose il Re, ma bisogna rimanghiate in casa.
E il Principe di S. Cataldo non fu più invitato alle caccie reali.
L'onore che il Re partecipava al presidente Cardillo andando alle sue caccie, destò ben presto l'ambizione dei cortigiani. Financo le badesse dei conventi popolarono i loro parchi di cervi, di daini e di cignali, invitando il Re a dare alle povere recluse delle quali dirigevano le anime, la distrazione di una caccia. Si capisce che Sua Maestà guardavasi bene rifiutare simili inviti, l'era un mezzo di rattrovare, a cento leghe da Napoli, la sua cara colonia di San Leucio, sola caccia della quale rincrescevagli dopo i cignali di Astroni ed i faggiani di Capo di Monte.
Sua Maestà passava dunque il suo tempo tanto piacevolmente per quanto era possibile nell'esilio, allorquando gli vennero ad annunziare che, grazie ai successi del cardinal Ruffo in Calabria, il suo stesso esilio non sarebbe forse di lunga durata.
E’ veramente doloroso, e spinge all'ateismo politico, il pensare che per l'uomo da noi or ora descritto, il Regno di Napoli era in fiamme da Reggio a Gaeta, e che per lo stesso uomo, per quella regina che ricamava delle bandiere, per quella cortigiana che gettava dell'oro, quanto eravi di più nobile, di più virtuoso, di più prode, e di più intelligente in questo infelice regno, doveva morire.
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