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Di Alexandre Dumas |
Libro IV
CAPITOLO II
La notte del 13 al 14 giugno scese tenebrosa su quella spiaggia, coperta di cadaveri, su quelle strade rosseggianti di sangue.
Ognuno pensò a trar profitto di questa notte una fra le più corte dell'anno.
Lo spirito arrischiato dei Calabresi sanfedisti che dovevano vendicare la morte dei loro fratelli, uccisi col proprio comandante il Colonnello Rapini, nell'esplosione del Forte di Vigliena, faceva loro meditare di compiere qualche ardita impresa, durante quella propizia oscurità. Bivaccavano mescolati coi Turchi, sulla destra sponda del Sebeto, allorché uno di essi propose d'impadronirsi senza il permesso di alcuno, del forte del Carmine; la proposta venne accolta con entusiasmo; s'insinuarono verso mezzanotte, col favore delle tenebre nelle case più prossime al forte, e, mentre i turchi, tenendo fra i denti le scimitarre, scalavano le muraglie, e montando sulle spalle gli uni agli altri ‑abili tiratori ‑ uccidevano o ferivano tutti quelli che si avvicinavano alla muraglia per difenderla ‑ in un colpo di mano, il Castello fu preso, e, ad eccezione di tre uomini che pervennero, gli uni a slanciarsi sdrucciolando lungo la muraglia, gli altri a nascondersi ‑ tutta la guarnigione fu trucidata. Il Comandante essendosi manifestato amico del Cardinal Ruffo fu risparmiato; ma lo si condusse nel medesimo istante presso il Vicario Generale, con minaccia del più, terribile supplizio se aveva mentito.
Si trovò il Cardinale alzato e il campo sotto le armi: nell'udir la fucileria che i calabresi facevano sui difensori del forte, erasi creduto ad un attacco di repubblicani; si era battuta la generale e teneasi tutto pronto ad ogni evento.
Il comandante del forte aveva detto il vero: egli era intimamente conosciuto dal prelato che, sotto il pretesto di essere stato egli costretto e forzato ad accettare il comando del forte, lo fece mettere in libertà.
Un'ora prima che i calabresi attaccassero il forte, erasi condotto dinanzi al Cardinal un uomo che veniva arrestato in mare, recandosi da Napoli a Torre del Greco. Egli era latore di una lettera indrizzata dal generale Manthonet a Schipani e racchiudendo questo avviso, o quest'ordine, come si vorrà.
« I destini della repubblica esiggono che noi tentassimo un colpo decisivo, e che distruggessimo in un solo combattimento questa massa di briganti agglomerati al ponte della Maddalena. In conseguenza, domani voi marcerete direttamente su Napoli col vostro esercito ; arrivato a Portici, ci farete segnali, ed allora immediatamente noi usciremo, con le truppe della Repubblica ‑ la guarnigione francese del castello S. Elmo ‑ e speriamo quella di Capua. L'esercito Sanfedista, situato in questo modo fra tre fuochi, non avrà più alcuna speranza di salvezza e sarà trucidato dal primo fino all'ultimo uomo. »
Il Cardinale prevenuto del progetto di Manthonet, fece immediatamente partire tutti gli uomini non inreggimentati, vale a dire quelli che egli chiamava le masse e che non gli erano utili che come bersaglieri. Ordinò loro di condursi sulla strada di Aversa, trascinando con essi quanti contadini trovassero disposti a seguirli ed appostarsi tutti insieme fra le biade già alte che fiancheggiavano il cammino da Capua a Napoli: di là, e restando nascosti il meglio possibile, dovevano distruggere, alla spicciolata, la colonna francese se azzardavasi ad uscire dalla Cittadella.
Nello stesso tempo, il Cardinale faceva dire al Capo del posto di Portici e all'ispettore di guerra D. F. Almeide, di non perdere di vista l'esercito di Schipani, conservando pur tuttavia le disposizioni stabilite la vigilia. Soltanto, per sostenere le truppe che per suo ordine occupavano Portici e Resina, mandò Cesari con sei cento uomini; costui si mise nel medesimo istante in marcia, ma per istrada seppe che Schipani aveva con lui mille e cinquecento uomini scelti: allora fece chiedere rinforzi al Cardinale che gli mandò duecento Calabresi, cento Russi e due pezzi di cannoni con i quali proseguì il suo cammino.
Arrivato a Portici dispose gli uomini in fila lungo la lava, in maniera da poter avviluppare Schipani: poscia spedì un uffiziale a D. Francesco Almeide, raccomandandogli fingere di cedere all'attacco di Schipani, ed attirarlo così sotto il fuoco dei suoi fucili e dei cannoni, mentre che gli uomini di Castellammare, di Sorrento, e di Nocera, l'attaccherebbero alle spalle.
Tutte queste misure erano prese pel caso in cui il dispaccio intercettato fosse stato spedito duplicato e ovemai Schipani, malgrado la fatta intercezione riceve un secondo avviso.
Qualche cosa di simile o presso a poco, era in fatti avvenuto.
Al momento in cui la barca che portava il messo del ministro della guerra repubblicano era stata presa, uno dei marinai, patriotta sincero, erasi sommerso nel mare senza esser veduto ed aveva portata la notizia che il messo prigioniero dei sanfedisti non aveva potuto rendere alla sua destinazione.
Allora si tenne consiglio al castello Nuovo; un patriotta s'incaricò della pericolosa missione, e temendo di esser tradito dal battelliere stesso che potrebbe involargli il biglietto suggellato, egli fecesi discendere nel mare con l'aiuto di cordami, con gli abiti legati sulla testa e passò il golfo a nuoto. Giunto a Portici, costeggiò la riva fino a Torre dell'Annunziata ove trovò Schipani, e gli rimise il seguente biglietto.
«
Il Generale Bassetti al Generale Schipani a Castellammare.
« Sentendo tirar tre colpi di cannone al castel S. Elmo, voi marcerete su Napoli colla vostra colonna, passando per Resina e Portici; siccome vi troverete nemici della Repubblica, passate tutti a fil di spada. Quando sarete al ponte della Maddalena, si farà una discesa, i Francesi da S. Elmo ed i patriotti da S. Martino, e noi dagli altri Castelli. Mentre noi li attaccheremo, di fronte e da tre lati, voi piomberete alle spalle di loro e li estermineremo.
« Tutta la nostra speranza è in voi.
« Salute e fratellanza.
« BASSETTI »
Schipani ricevette questa lettera che fu ritrovata nella tasca di uno dei suoi aiutanti di campo, morti sul campo di battaglia; è probabile che colui che frugava nelle sacche del morto, non vi cercasse questo biglietto.
Ma il Cardinale non impiegò punto quella notte del 13 o 14 giugno in semplici disposizioni militari. Egli era un uomo d'immaginazione che potea eseguire più progetti in una volta.
Bisogna ricordarsi ciò che abbiamo detto della sua corrispondenza con Gennaro Tausano e della sua alleanza con i lazzaroni.
Durante la sera del 13, e durante il mattino del 14, fece divulgar la voce che S. Antonio ‑ il rivale di S. Gennaro che doveva ben presto supplire l'antico patrono di Napoli, nella venerazione dei Napoletani eragli apparso, rivelandogli che i patriotti aveano formato il complotto d'impiccare tutti i lazzaroni dopo la ritirata, nella sera del 14, e non dovevano lasciar la vita che ai soli fanciulli per educarli all'ateismo; che a questo scopo una distribuzione di corde era stata fatta ai giacobini; ma che S. Antonio, la cui festa cadeva in quel giorno, non aveva voluto che un simile delitto si consumasse durante le 24 ore che erano consacrate a lui.
E per dare maggior credito alla rivelazione, per colpire contemporaneamente gli occhi e la mente, avea fatto dipingere e lo si portava per le vie di Napoli, S. Antonio che gli appariva con le mani piene di corde, ed egli, il Cardinale, in ginocchio, supplicandolo di salvare i realisti dalla morte che li minacciava.
I lazzaroni erano adunque invitati a visitare le case e a rendere i proprietari o anche gl'inquilini, responsabili delle corde che si troverebbero presso di loro.
Questo era un invito indiretto ad impiccare i proprietari e gl'inquilini con quelle medesime corde.
Non è d'uopo dire che dagli spiragli delle cantine erano state gettate alcune corde nelle case dei patriotti designati anticipatamente alla vendetta del popolo.
La prima vittima di questa favola ‑
tanto più terribile quanto maggiormente era assurda ‑ fu un macellaio,
chiamato Cristoforo. Egli aveva presso di lui una certa quantità di corde con
le quali, legava vitelli, giovenche, montoni e bovi. Queste corde furono
ritrovate da alcuni lazzaroni che gridarono ‑ Eccoli, eccoli, i lacci che ci dove‑vano strangolare tutti.
Il povero macellaio fu ucciso a colpi di spille, onde si sentisse perfettamente morire; e, dopo ucciso, fu fatto in brani, i quali vennero sospesi agli uncini della sua bottega mentre che la di lui testa coronata di corde che eransi trovate in sua casa, era portata in cima ad una baionetta.
Questo assassinio fu il segnale non solo di una carneficina ma di un banchetto da cannibali. Ciò non è mica una leggenda, una tradizione, un racconto popolare, è un fatto raccontato da un grave storico che merita tutta la fede, da un magistrato patriotta ; da quello stesso che Ferdinando raccomandava di non risparmiare ‑ che pur non ostante si salvò, restò esiliato sei anni e rientrò col re Giuseppe, fu ministro sotto Murat e divenne pazzo di terrore, ‑perchè, nel 1816, il Principe Leopoldo gli fece domandare un esemplare del suo Racconto istorico della rivoluzione di Napoli ‑ da Vincenzo Cuoco.
Ecco le sue proprie parole.
« Durante l'assedio dei castelli, il popolo napoletano, unito agl'insorgenti commise delle barbarie che fan fremere; incrudeli financo contro le donne; alzò nelle pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degli infelici, parte gittati vivi, e parte moribondi. Tutte queste scelleragini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo, ed alla presenza degl'inglesi. »
E noi vedemmo intanto dalle lettere di Troubridge e con le altre del Cardinale che i più crudeli non erano nè gl'Inglesi, nè Ruffo! Continuiamo, e dopo aver citato uno scrittore patriotta, citiamo uno scrittore moderato: B. Nardini.
« Inoltre il Cardinale aveva fatto fabbricare una quan. tità di questi lacci, che facea spargere in certe case per dare a questa impostura l'apparenza della verità i giovani della città, che erano stati forzati di iscri versi nella Guardia Nazionale, fuggivano, alcuni tra vestiti da donne, altri da Lazzaroni e si nascondevano nelle abitazioni le più miserabili e le case non sospette. Ma quelli stessi che avevano avuto la fortuna di pas sare in mezzo al popolo senza esser riconosciuti non trovavano nessuno che volesse ricoverarli. Si sapea pur troppo che le case ove dessi fossero trovati, non sareb bero sfuggite al saccheggio e all'incendio: i fratelli chiusero la porta ai fratelli, le spose agli sposi e i pa dri ai figli. S'incontrò a Napoli un padre tanto snaturato, che per provare il suo attaccamento al Partito realista, diede colle sue proprie mani il figlio in balia della plebaglia senza che questa neanco lo persegui tasse, comprando così col sangue del figlio la propria sicurezza.
« Questi infelici disgraziati non trovando alcuni che volessero dar loro asilo furono costretti di nascondersi nelle fogne della città, dove incontravano spesso degli sfortunati come loro, e d'onde erano obbligati ad usci re durante la notte, per andare in cerca di qualche nutrimento per non perire di fame e d'infezione. I lazzaroni li scoprivano, trattenendosi verso sera all'aper tura dei condotti sotterranei, e facendo spirare fra le torture quelli che uscivano; in seguito portavano le loro teste al Cardinal Ruffo che le pagava dieci ducati l'una [*1].
Ed intanto, lo ripetiamo, di quella trinità terribile: Ferdinando ‑ Carolina ‑ Ruffo, Ruffo fu il più misericordioso !
Mentre che tali cose avvenivano nella città si combatteva a Portici.
I patriotti avevano avuto ragione di contare sul coraggio di Schipani; ma oltre il coraggio non bisognava dimandare altro a quel cuore impetuoso, a quell'animo imprevidente. Animato dalla speranza di salvar la Patria, altero di essere proclamato come uno dei suoi liberatori, ricevè le sue truppe, e con una voce tale da essere intesa da tutti, dimostrò la necessità in cui trovavansi, di vincere o di morire, e, in qual modo morire? fra le più crudeli torture, o sospesi alla forca infame!
Ricordò loro i propri figli, le proprie mogli, i padri, gli amici esposti allo sprezzo, abbandonati all'obbrobio, chiedendo vendetta, e aspettando dal loro coraggio, e dalla loro devozione, la fine dei loro mali e delle loro sofferenze; infine i cittadini più virtuosi, i patriotti più devoti, soli cuori nobili e puri, tendevano loro le braccia, e s'avanzavano all'incontro di essi sui cadaveri dei propri nemici.
A questo discorso, nel quale
l'accento e il gesto supplivano all'eloquenza, non fuvvi che un grido: La libertà o la morte ‑ Viva la
repubblica!
E si slanciarono sull'inimico.
Il nemico, come dicemmo, aveva l'ordine di ripiegarsi ‑ d'altronde quand'anche non avesse ricevuto ordini, lo avrebbe probabilmente fatto, tanto fu terribile questo ultimo sforzo dei repubblicani.
L'audace capo di quella truppa di disperati Vincenzo Durante, aiutante di campo di de Cesari avanzavasi minaccioso e furibondo, percotendo con rabbia la terra coi piedi, e simile al toro che diffonde il terrore coi suoi Muggiti.
Però, trasportato dal suo ardore, Schipani commise una colpa: invece di prendere il cammino della campagna e girare Resina e Portici ove egli sapea di trovare i sanfedisti, seguì la strada maestra, come lo avrebbe fatto in tempo di pace, e quasichè dovesse traversare per una parata, villaggi amici.
Ma a Portici, quelli che inseguiva fecero fronte indietro ed egli si trovò, all'altezza della Chiesa, davanti la bocca di una batteria di cannoni e avendo a fronte una truppa tre volte più numerosa della sua.
I cannoni fecero fuoco a mitraglia e gli tolsero via delle intere file.
Due volte diede la carica, sperando rendersene padrone.
Due volte fu respinto lasciando il terreno coverto di morti. Allora distaccò cinquecento uomini; ordinò loro di fare un giro per la riva del mare, e caricare quella batteria alla coda, mentre che egli per la terza volta la caricherebbe alla testa.
Ma, per disgrazia, in vece di affidare questa missione ai più sicuri, ai più valorosi, ai più devoti, colla sua imprudenza ordinaria, Schipani ne incaricò il primo venuto. Per questo patriotta tutti dovevano avere il suo cuore. Si ingannava: quel battaglione mandato da lui era un battaglione di marinai comandato da un antico ufficiale di Ferdinando. Ufficiale e battaglione eseguirono la manovra comandata loro; ma, non appena essi, dall'altro lato di Portici, presero la strada maestra, che, al grido di Viva il Re, si gettarono nelle braccia dei sanfedisti; ed il risultato di quell'ordine che poteva decidere della giornata in favore di Schipani, fu di creargli cinquecento nemici di più.
E questi, così traditori ed infami insino all'ultimo, ponendosi alla testa della colonna sanfedista, marciarono questa volta, mettendo forti grida di Viva la Repubblica, all'incontro dei loro antichi compagni, i quali, dopo aver resistito una mezz'ora eroicamente, vedendoli comparire, si lanciarono senza diffidenza all'incontro di essi.
Ma il disinganno fu pronto e terribile; a venti passi Schipani e i suoi patriotti ricevettero la scarica dei traditori ‑ nello stesso tempo che tuonava l'artiglieria e che da tutte le case, dalle finestre e dall'alto dei tetti, piovevano palle.
Bisognò ritirarsi. Piangendo per rabbia, Schipani diede l'ordine della ritirata e sempre combattendo arrivò fino a Castellammare.
Colà pervenne a gettarsi in un viottolo ed a fuggire un patriotta gli diede abiti con i quali errò per qualche tempo travestito.
In fine, riconosciuto e preso, fu condotto a Procida, ove risiedeva Speciale.
Finiamo, di fretta, con questo sfortunato: avremo a raccontare tanti supplizi in massa che non è male il registrarne tre qui.
Diciamo tre, dappoichè fra le persone di Procida, Schipani incontrò Spanò e Battistessa.
Spanò era un ufficiale dell'epoca monarchica, di cui la repubblica aveva fatto un generale; incaricato di opporsi alla marcia di de Cesari, egli era stato sorpreso nelle gole di Monteforte ed era caduto nelle mani dei sanfedisti.
Battistessa aveva occupato una posizione più oscura: aveva tre figli e passava per uno dei cittadini più onesti di Napoli; nessun atto violento poteaglisi rimproverare.
Tutti e tre, per giudizio di Speciale, furono condannati alla forca ed impiccati; ma una circostanza rese la morte dell'ultimo più terribile di quella degli altri.
Dopo essere rimasto sospeso per 24 ore alla forca, fu portato via coi due suoi compagni, per essere tutti e tre esposti nella chiesa dello Spirito Santo. Ma nella chiesa, con maraviglia si accorsero non esser morto il Battistessa. Stavasene immobile, è pur vero, ma udivasi l'ultimo rantolo, e vedevasegli gonfiare ansante il petto.
Appoco appoco tornò intieramente in sè.
Fu parer di tutti che poichè era stato giustiziato, avea terminato colla morte; ma, intanto non si ardì far nulla senza prendere gli ordini da Speciale ‑ Si spedì quindi un messo in Procida.
Il messo tornò accompagnato dal boia.
Il boia avea l'ordine di trar fuori dalla chiesa Battistessa e di ucciderlo sui gradini col suo coltello, affin di non lordar di sangue un luogo sacro.
L'ordine fu seguito alla lettera.
Ritorniamo a quanto succedeva a Napoli. Due cose impedirono i patriotti di fare la sortita che avevano progettata.
L'insuccesso dell'attacco di Schipani; l'inazione della guarnigione del forte S. Elmo che il suo Comandante ricusò assolutamente di far uscire.
Inoltre si ricevette una lettera dell'officiale Comandante la guarnigione di Capua, il colonnello Girardon ‑ egli diceva essergli impossibile di fare una punta fino a Napoli; ma se i patriotti volevano seguire il suo consiglio, mettessero in mezzo a loro le donne, i vecchi ed i ragazzi, facessero una sortita alla baionetta, e venissero a raggiungerlo in Capua.
Una volta coIà, prometteva loro sull'onore francese, di condurli fino in Francia.
Ricusarono, tenendo a vile abbandonare Napoli.
Tolto di mezzo Schipani, e non avendo notizie del Principe Ereditario, Ruffo s'incaricò da sè, d'attaccare Napoli e diede l'ordine di marciare contro i castelli.
I realisti drizzarono una batteria nelle fabbriche di tegole per bombardare il castello dell'Uovo. Niente di più facile sarebbe stato a Mèjean l'impedire questi lavori o pure distruggerli quando erano completati: ma Mèjean aveva aperto dei negoziati col Cardinale e sperava ricavare da lui quello che non aveva potuto ricavare dai patriotti.
Una seconda batteria fu eretta alla strada Toledo, per cacciare i patriotti fortificati a S. Ferdinando, ed in fine una terza alla Immacolatella, presso il castello Nuovo.
Questi progressi dei sanfedisti non erano stati ottenuti senza combattere: erasi lottato tutta la giornata; la strada Toledo era ingombra di morti; i patriotti, protetti da due o tre pezzi di artiglieria, combatterono fino alla notte, e, costretti a ritirarsi, si divisero in due corpi dei quali uno occupò le strade che potevano offrir loro una ritirata verso il castello S. Elmo, mentre che il secondo si fortificava al Palazzo nazionale. I sanfedisti vennero in quel giorno sino al palazzo Stigliano che fu saccheggiato e dato alle fiamme. Fra Diavolo alla testa della sua banda accorse alla carneficina della città; si provò ad attaccare i patriotti accalcati davanti S. Ferdinando; ma il fuoco ben nutrito di una batteria di cannoni, che avevano tolta dal castello Nuovo, avendo ucciso un centinaio dei suoi uomini, egli si gittò nelle vie trasversali e attaccò il nemico alle spalle. Dall'altro lato, Sciarpa, secondato dalle batterie del Carmine, tentava d'impadronirsi del castello Nuovo: una grandine di palle e di bombe, e una vigorosa sortita alla bajonetta, disperse da una parte gli uomini di fra Diavolo, dall'altra quelli di Sciarpa.
Intanto non sapevasi a che cosa attribuire il silenzio del forte S. Elmo; importava il conoscere se questo castello che domina la città, era amico o nemico. Il Corpo legislativo decise d'inviare una deputazione al colonnello Mèjean per conoscere le sue disposizioni.
Era una missione difficile: bisognava attraversare la strada Toledo, e la strada Toledo era in potere dei realisti. L'Assemblea, fatta ed adottata la proposta, teneasi in silenzio e alcuno non s'offriva, quando un vecchio di sessant'anni, chiamato Signorelli, si alzò, chiedendo di eseguire il pericoloso mandato: contemporaneamente e nel medesimo istante, sursero Mario Pagano e Domenico Cirillo. Allora tutti i giovani, vergognosi di essere stati prevenuti da uomini fra' i quali il meno di età era di cinquant'anni, si presentarono a gare, ognuno gridando
Io! io!
Ma Signorelli e Pagano dichiararono che essendosi offerti per i primi non cederebbero ad alcuno l'onore di quella ambasciata: soltanto, tutti e due si riunirono per supplicare Cirillo di rimanere alla Camera, il suo concorso, i suoi lumi potendo essere utili in loro assenza.
Cirillo sedette facendo un cenno d'assenso e senza nulla perdere di quella placida serenità che era uno dei caratteri della sua fisionomia.
Fra i giovani che eransi offerti, i due deputati ne scelsero undici sul cui coraggio e sulla devozione dei quali potevano contare.
Costoro si armarono di tutto punto e, mettendo in mezzo ad essi Signorelli e Mario Pagano, slanciaronsi verso ‑la strada di Toledo.
I lazzaroni ed i sanfedisti,‑ prendendoli per una semplice avanguardia, e credendo che dopo di essi marciasse un corpo più considerevole, si fecero indietro, e indietreggiando lasciarono libera una delle strade traverse che conduceva a S. Elmo.
Il piccolo gruppo s'inoltrò e disparve senza che il nemico, che temeva qualche agguato, pensasse ad inseguirlo.
I messaggieri trovarono sopra una prima prominenza circa cento patriotti, posto avanzato di quelli che erano a S. Martino. Si fecero riconoscere da essi; ricevettero un rinforzo e continuarono ad ascendere la montagna.
Arrivati al castello S. Elmo, Signorelli e Pagano trovarono cinque o seicento repubblicani bivaccando ai piedi delle mura del castello: un numero pressochè uguale di patriotti, erasi rinchiuso nel convento dei Cappuccini e vi si era fortificato.
Agli uni ed agli altri, il colonnello Mèjean aveva ricusato l'entrar nel castello.
Signorelli e Mario Pagano si fecero annunziare come inviati del Corpo legislativo ‑ Mèjean non poteva con [al titolo rifiutare di riceverli, e gl'introdusse presso di lui.
I due deputati, gentilmente, ma con fermezza, gli domandarono allora una spiegazione sulla sua condotta... Perchè il mattino non aveva sostenuto i patriotti con una sortita? perchè durante una giornata così disastrosa per la repubblica, non aveva tirato un sol colpo di cannone contro i trinceramenti dei realistí? e perchè infine, in vece di ricevere ed accogliere i repubblicani in una fortezza, che al postutto, apparteneva alla Repubblica, ne aveva loro chiuse le porte e li lasciava bivaccare al di fuori.
Il Colonnello rispose, che non aveva fatto sortite il mattino perchè non riconosceva nel ministro della guerra di Napoli il diritto di dargli degli ordini.
Che, in quanto ai rimproveri che gli si facevano di non aver profittato della posizione del castello S. Elmo per distruggere le fortificazioni dei realisti, egli non aveva bisogno di ricevere lezioni nel suo mestiere di soldato; egli farebbe fuoco quando gli converrebbe, nel modo stesso che era rimasto inattivo quando gli era piaciuto.
Il fine, che egli agiva in seguito degli ordini ricevuti dai suoi superiori. Accordando l'entrata della Cittadella a quelli fra i Napoletani che indossavano l'uniforme francese, come Michele il pazzo e Belpussi, e ricevere seicento repubblicani nel castello era mettere la confusione nelle operazioni militari; che del resto la posizione che essi occupavano quantunque al di fuori della fortezza, era vantaggiosa, e che egli conosceva abbastanza il coraggio dei Napoletani per comprendere che non avevano bisogno di muraglie per difendersi.
Queste risposte erano letteralmente chiare ed indicavano cosi bene il partito preso di abbandonare, se non di tradire la Repubblica, che i due deputati non giudicando opportuno insistere ulteriormente, si ritirarono al convento di S. Martino facendo al castello Nuovo il segnale convenuto per annunziare che erano arrivati a S. Elmo e nulla avevano ottenuto.
Una volta a S. Martino, essi si occuparono di formare i patriotti in compagnie, incoraggiandoli a fortificarsi il meglio possibile e dichiarando che resterebbero in mezzo ad essi per dividere i loro pericoli.
Ora vediamo finalmente perchè il Principe non era giunto nel porto di Napoli, com'era stato annunziato dal re al Cardinal Ruffo, e qual nuovo uragano addensavasi dalla parte della Sicilia, e grondeggiando e tremendo stava per iscoppiare sul capo de' patriotti.
Quello stesso giorno in cui accadevano gli avvenimenti da noi narrati or ora, cioè il 14 luglio la regina Carolina scrisse al Cardinale Ruffo, la lettera qui appresso [*2]:
« Li 14 giugno 1799 ».
« Questa mia Vostra Eminenza la riceverà secondo le mie speranze dentro Napoli ed avrà così compita l'opera sua gloriosa di averci riconquistato il Regno le fatalità che gia mai non ci abbandonano hanno obbligato la squadra inglese questa mattina a ritornare a Palermo partì ieri con il più bel tempo vento possibile prendessimo congedo verso le undici già alla vela ed a 22 ore non si vedeva più la squadra ed il vento era così propizio che si sarebbe stato oggi a Procida ma a mezzo il cammino si rincontro due vascelli inglesi che venivano di rinforzo già che la squadra francese era sortita di Tolone e si avvicinava alla costa meridionale d'Italia fu tenuto consiglio di guerra e Nelson decise che il suo dovere era di pensare in primo luogo alla Sicilia e poi di sbarasandosi di gente truppa artiglieria che portava, correre a incontrare e cercare di battere l'inimico e con questa decisione sono tornati stassera in tutta freta sbarcando per corere ad incontrare il nemico quale dispiacere mi abbia dato questo disapunto non so bastantemente dirlo la squadra era superba bella imponente con tutti i trasporti avrebbe sicuramente fatto gran efetto, mio figlio imbarcato la prima sua spedizione della quale lui era tutto entousiasmato insomma mi ha fatto una sensibile pena le lettere delle 11 e 12 ricevute da Procida mi mostrarono che la bomba sta per aprirsi ne più si puole aspettare le acque tagliate la mancanza dei viveri non ammette indugio lascio alla saviezza di Vostra Eminenza a dirigere il tutto anche io vivamente desidero che si risparmia massacro e sachegio sono convinto che i napoletani non si difenderanno, mentre le classi ribelle non hanno veruno coragio e lo popolo che ne ha mostrato e della buona causa e percio credo che senza nissuna o pochissima pena si riprenderà Napoli il solo S. Elmo mi imbarazza avrei intimata resa a quel Comandante coll dilemma subitaneo in poco tempo o rendersi ed essere accompagnato con salvo condotto dove vuole anche potersi a sua scelta portare 50 sino a 100 giacobini con se ma dovere lasciare li cannoni fortificazione difese tutto in buon stato o non accettando non esservi per lui quartiere ne per i suoi, così crederei che si paralizzerebbe S. Elmo in caso che si ostina immediatamente Russi e Turchi avanti e dei nostri un oncia fosso a fosso a chi va all'assalto e un altra al ritorno avendosi fatto onore sono certo che in mez'ora e nostro ma tenere la parola a tutti quelli che si difende come pure alli assaltanti, metterà subito i Deputati per l'ordine Arione per la Città li Elette non eligendosi più che dell Re i sedili restando aboliti dopo la fellonia di avere detronizzato il Re caciandone il suo Vicario e assumendosi senza suo permesso l'autorità di tutto creare lordine impedire le rapine e scrivere qui tutto mi pare per il primo istante consegnare S. Elmo a quello che sia il probo attento e fedele cercare di formare organizzare una armata con distinzione e fiducia e tanti fedeli mettere il crattere in stato di difesa e subito prendere esatto conto delle forze Marittime dell'Artiglieria e di quello che li magazini hanno vedere per le finanze in somma rimettere un poco di unanimità e buon ordine se con quell' istesso entousiasmo si potesse portare i popoli a entrare nello stato romano e liberare Roma per renderla al suo Pastore ed noi prendere la Montagna per frontiere sarebbe riparare il pieno al nostro leso onore. « Chiunque altro che Vostra Eminenza fosse di ciò incombensato viverei in mortale inquietitudine conoscendone tutta l'estensione e peso con il talento perspicacia profondita zelo attività di Vostra Eminenza sono perfettamente tranquilla ‑ o ricevuto la sua lettera del 4 di questo mese di Bovino e delli 6 di Ariano ho letto la sua scritta a Acton dei 6 ho visto li suoi savie profondi ragionamenti e benchè non in tutto per mia intima convinzione lunga ed operosa esperienza d'accordo con Vostra Eminenza mi ha fatto fare profonde riflessione e sempre più ammirarla credo che il Governo di Napoli sarà di una difficoltà infinita e che avrà bisogno di tutte le cognizione talenti e fermezza di Vostra Eminenza mentre benchè il passato le rendeva in apparenza docile le odi le passioni private i timori conoscendosi rei svelati faranno la direzione ben difficile ma il talento di Vostra Eminenza rimedierà a tutto desidero con vera ardenza di sentire Napoli presa entrare in trattative con St. Elmo ed il suo francese comandante ma nessuna trattativa con i nostri ribelli vassalli il Re nella sua clemenza le perdonerà diminuirà le loro castighi per sua bontà ma mai capitolare ne trattare con dei criminosi Ribelli che sono a la gonia e volendo non ponno fare male essendo come le sorcie nella trapola io le vorrei se conviene al bene dello Stato perdonare ma non pategiare con simili bassi e disprezevole scellerati tale e la mia opinione che sottometto come tutte le altre ai suoi lumi e conoscenza creda pure Vostra Eminenza che sento con viva gratitudine tutto quello che li dobbiamo e se qualche volta sono in differenza di opinione non ne sento meno tutto l'eccesso della ben dovuta gratitudine che li professo per li unici e segnalatissimi servizi a noi prestato tanto per me che il riordinare risistemare Napoli sia il colmo ed a parer mio più grande e difficile che il riconquistarlo sia da Vostra Eminenza così felicemente eseguito ma sara mettere il colmo alle suoi fedele servizie ed attirarsi l'Eterna este‑ sissima nostra riconoscenza. Finisco fra di tanto pregando Vostra Eminenza in questi critici decisivi momenti non farei mancare le sue notizie potendo supore con quando premura le stiamo aspettando e mi creda con vera ed Eterna Gratitudine sua
« riconoscente ed Affezionatissima Amica
« CAROLINA
« Li 14 giugno 1799.
Cosa pensate di codesta Regina che nella sua lettera dell'8 maggio dice non essersi mai lasciata trasportar da nessun odio? Dall'8 maggio al 14 giugno, l'agnello si è fatto tigre, e non pare che le sue unghie sieno ancora cresciute.
Oggi s'occupa ancora delle masse, ma aspettate! fra breve verrà a darsi pensiero degli individui!
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[*2] L'istorico del Cardinale dice che ‑ in quel giorno, 14, un corriere spedito da Palermo portò fra gli altri dispacci indrizzati al Cardinale, una lettera autografa dei Re nella quale diceagli «che gl'Inglesi avevano sbarcato a Palermo il Principe Ereditario, per la notizia che la Squadra Francese di Brest era entrata nel Mediterraneo, onde unirsi alla squadra Spagnuola ‑ e che portando truppa da sbarco, questa squadra facea temere per Napoli e Sicilia; che, lasciato il Principe a Palermo, Nelson avea ripreso Il niare con sei vascelli per incontrarla e combatterla, ma che ignorando la via che tenea, non sapeva se potesse trovarsi sul cammino di essa ‑ il Re aggiungeva dice sempre lo stesso autore, ed, ordinava al Cardinale ‑ che, nel caso in cui non sarebbe ancora padrone di Napoli, e ove mai il porto non fosse sufficientemente fortificato, dovesse ritirarsi in qualche luogo dove difficilmente attaccabile, potesse attendere nuovi favori dal Cielo».
Domaniamo
scusa al signor Sacchinelli che più di una volta abbiamo consultato e citato;
ma il Cardinale non poteva ricevere questa lettera il 14 ‑ imperochè fu
il 10 giugno soltanto che il Re scrisse a Nelson, supplicandolo di andare a
Napoli colla sua squadra; che fu il 13 giugno soltanto che il Principe Ereditario
si rese a bordo del Foudroyant; e che fu il 14 al mattino soltanto, come lo
prova la lettera della Regina Carolina, che il Principe ritornò a Palermo e
Nelson ripartì. Eravi dunque impossibilità naturale che lo stesso giorno alla
stessa ora, Ruffo sapesse a Napoli ciò che avveniva a Palermo.