I  BORBONI  DI  NAPOLI

 

Di Alexandre Dumas

 

Libro IV 

 

CAPITOLO VIII

 

Il Re lasciò Napoli, o piuttosto la punta di Posillipo poichè, come abbiam detto, non aveva osato scendere a terra una sola volta durante i 28 giorni che era rimasto nel golfo ‑ il 6 agosto verso mezzogiorno.

Siccome si vedrà dalla lettera seguente diretta al Cardinale, la sua traversata fu buona, è nessun'altro cadavere venne, come quello di Caracciolo, a levarsi dinnanzi al suo bastimento.

Ecco la lettera del Re:

« Palermo 8 Agosto 1799.

« Eminentissimo mio. Non voglio tardare un momento a parteciparvi il mio felice arrivo in questa Capitale dopo il più felice viaggio del mondo, giacchè martedì mattina, alle 11, eravamo sul capo di Posillipo, ed oggi alle 2 abbiamo già dato fondo in questo porto con un ventarello sopr'acqua, e il mare calmo come un lago. Ho trovato tutta la mia f amiglia in perfetta salute, e sono stato ricevuto nel modo che potete figurare. Datemi uguali buone notizie delle nostre faccende Costì, conservatevi, e credetemi sempre lo stesso Vostro Affezionato.

 

« FERDINANDO B.

 

Dunque, il 16 agosto, giorno della partenza del Re. come l'abbiamo detto, erano incominciati i supplizi, e già 6 vittime erano state sacrificate sull'altare fatale della vendetta. Erano:

 

Alla Porta Capuana:

 

6 luglio ‑ Domenico Perla, di cui abbiam già parlato;

7 d.° ‑ Antonio Tremaglia;

8 d.° ‑ Giuseppe Lotella;

 13 d.° ‑ Giuseppe Belloni;

 14 d.° ‑ Nicola Carlomagno;

 

Al Mercato:

20 luglio ‑ Andrea Vitagliano;

Nel castello del Carmine:

3 agosto ‑ Gaetano Rossi;

Del primo non troviamo nessuna traccia ed il suo nome non è neppure iscritto fra quelli de' martiri della libertà italiana d'Atto Vannucci.

Del secondo troviamo questa semplice menzione:

« Antonio Tramaglia, uffiziale.

Il terzo era un semplice trattore ai Fiorentini.

Il quarto ‑ Giuseppe Belloni ‑ era un prete, celebre per le sue prediche liberali, all'aria aperta. Egli avea fatto porre delle sedie appiè degli alberi della libertà, e, con un crocifisso in mano, parlando in nome di quel primo martire della libertà, della quale doveva egli esser martire alla sua volta, dimostrava alla folla i tenebrosi errori del despotismo, e gli splendidi trionfi della libertà, appoggiando sopratutto, le sue prediche su questo principio cioè che, Cristo e gli apostoli avevano sempre ed insieme alla religione, predicato la libertà e la uguaglianza.

 Il quinto ‑ Nicola Carlomagno ‑ era stato commissario della repubblica: salito sul palco, e mentre si preparava la corda che doveva strangolarlo, volse gli occhi alla folla che lo circondava, e vedendola folta ed allegra:

‑ Popolo stupido, esclamò ad alta voce, tu ti rallegri oggi della mia morte, ma verrà un giorno in cui la piangerai. Il mio sangue ricadrà sulla vostra testa, e se avrete la fortuna di non essere più in vita, ricadrà su quella de' vostri figli.

Il sesto ‑ Andrea Vitagliano [*1]  ‑ bello ed amabile giovane di 28 anni, che rallegrava col suono della sua chitarra quelli che eran carcerati con lui, era un abile meccanico che aveva preso servizio sotto la repubblica. Nel momento in cui vennero ad annunziargli la sentenza di morte, suonava la sua chitarra.

Si fermò per ascoltare la sentenza di morte, poi, quando la voce funebre del cancelliere si tacque, riprese con la sua voce allegra, la strofa al punto dove l'aveva lasciata, e continuò a sonare ed a cantare finchè si venne a prenderlo per condurlo alla morte.

Allora prese commiato da' suoi compagni di camera uscì con la sua solita serenità, e, uscendo, disse al custode dandogli quel poco di danaro che gli rimaneva:

‑ Ti raccomando i mie compagni; sono uomini, e siccome tu pure sei uomo, un giorno, forse, sarai infelice al par di loro.

Era il secondo del nome di Vitagliano che moriva a Napoli per la libertà.

Il primo, ve lo rammentate, era morto con Emmanuele de Deo, e con Galiani.

Il settimo ‑ Gaetano Rossi era uffiziale, essendo stato giustiziato nell'interno del forte del Carmine, non s'è potuto avere nessuna particolarità intorno alla sua morte.

In una sola biblioteca si potrebbe trovare qualche notizia preziosa su tutte queste morti ignorate, e sarebbe negli archivii de' Banchi; ma questa articonfraternità devota al caduto governo, chiude ostinatamente le sue porte ad ogni investigazione.

Per undici giorni non fu eseguita nessuna condanna; forse s'aspettavano notizie di Francia. I nostri affari non erano totalmente disperati in Italia, e Ferdinando poteva avere ancora qualche timore, ed i prigionieri qualche speranza.

Infatti Championnet, liberato di prigione dalla rivoluzione del 30 pratile, era stato posto di nuovo alla testa dell'esercito delle Alpi, ed aveva già ottenuto qualche brillante successo: il nome di Championnet era uno spauracchio per Napoli. Era stato veduto giungere tanto rapidamente da Civitacastellana a Capua, che si credeva che metterebbe appena il doppio del tempo per arrivare da Torino a Napoli.

Si sparsero poi alcune voci che facevano risuonare il nome di Bonaparte.

Abbiam veduto che la Regina stessa, in una delle sue lettere dice che, senza dubbio, la flotta francese andava a prenderlo in Egitto. Vi era della verità in fondo a tutto ciò, e la verità era che non solamente il Direttorio prendeva pel suo ritorno la risoluzione che noi abbiamo letta, e che egli non vide mai, ma anche che suo fratello Giuseppe Bonaparte gli scriveva per dirgli la situazione in cui erano i nostri eserciti in Italia e per invitarlo a ritornare in Francia.

Questa lettera gli fu portata all'assedio di S. Giovanni d'Acri da un greco chiamato Barbaki cui erano stati promessi 30,000 franchi se consegnava quella lettera a Bonaparte in persona. Ora Napoleone ricevette questa lettera che gli diè la prima idea del suo ritorno in Francia, nel mese di maggio, precisamente nel momento in cui avea luogo la marcia reazionaria del Cardinale.

Nel partire, il Re avea lasciato due liste: una che conteneva i nomi di coloro che si potevano condannare a morte e giustiziare senza nessun inconveniente; l'altra, i nomi di coloro che non potevano essere giustiziati senza l'approvazione del Re.

Su quest'ultima lista erano scritti i nomi di quelli che avevano capitolato e che si credeva, per conseguenza, che fossero più protetti dall'onore della Francia.

Nondimeno, su questa lista era un nome che, qualunque cosa potesse risultarne, il Re avea contraddistinto con una croce nera.

Questo nome era quello d'Oronzio Massa.

E sotto il suo punto di vista, il Re aveva ragione. Oronzio Massa era non solamente un vero militare, ma un eccellente patriotta.

Massa, i nostri lettori lo ricorderanno, comandava il castello Nuovo, nel momento in cui il Cardinale accordò un armistizio, ed in cui si parlava di capitolare; egli fu chiamato al Direttorio, e fu conslutato dai Direttori.

‑ Che pensate voi della situazione? Gli domandarono.

‑ Noi siamo ancora padroni delle castella, rispose, perchè abbiam da fare con soldati indisciplinati, comandati da un prete; ma il porto, il mare, la darsena sono in potere del nemico; l'entrata per la porta incendiata è inevitabile; il palazzo non ha nessun mezzo di difesa contro l'artiglieria, il bastione dalla parte del nemico cade in rovina, se io fossi l'assediante, invece d'essere l'assediato, in due ore sarei padrone del castello.

Allora, domandò il presidente, voi opinate per la capitolazione?

‑ Sì; ma a condizioni onorevoli, e siccome non le otterremo che a costo di grandi sacrifizi, propongo che venti cittadini si rassegnino volontariamente alla morte per salvare gli altri. Datemi facoltà di trattare a queste condizioni ed io scriverò il mio nome per il primo, sulla lista [*2] .

La moderazione del Cardinal Ruffo fece sì che non si ebbe bisogno di ricorrere a cotale spediente. Si è veduto che al momento in cui Ruffo seppe che Nelson non voleva ratificare la capitolazione scrisse ad Oronzio Massa per offrirgli di aprirgli la strada alla ritirata per terra. Disgraziatamente Massa diffidava di Ruffo e si fidava di Nelson.

Era uno dei più nobili e dei più coraggiosi difensori della libertà napolitana. Ferdinando fece un'eccezione per lui e lo destinò alla morte.

Egli fu impiccato nell'interno del castello del Carmine; ci mancano quindi tutti i particolari sui suoi ultimi momenti: del resto egli subì il supplizio soltanto il 13 agosto, vale a dire otto giorni dopo la partenza del re.

Il 20 fu, a un tempo stesso, un giorno di lutto per gli uomini onesti e di gioja pei lazzaroni.

In quel giorno si decapitò e s'impiccò; tutto nella piazza del Mercato, per modo che chiunque lo volle, potè vedere il terribile spettacolo che durò buona parte del giorno.

Si decapitarono: Guglielmo Colonna dei duchi di Stigliano e Gennaro Serra, ambidue patrizii napolitani.

Si appiccarono: monsignor Natale, vescovo di Vico, e Nicola Pacifico, Vincenzo Lupo, Domenico Piatti, Antonio Piatti; ed Eleonora Fonseca Pimentel.

Ma ciò che, soprattutto, rese più compita la festa, per gli spettatori del supplizio, è che s'impiccava una donna, e che, per oscena compiacenza pel popolo, s'impiccava quella donna ad una forca alta ben trenta piedi.

Quella donna era la madama Roland di Napoli.

Pubblicista, poetessa, concionatrice ‑ Eleonora Pimentel aveva per lei tutte le simpatie.

Noi l'abbiamo paragonata a madama Roland nella sua vita e possiamo paragonarla a madama Roland nella sua morte: come quella, essa andò al palco infame colla serenità di una martire.

La strada era lunga ; pure, la fece tutta a piedi, circondata da lazzaroni che l'insultavano, cantandole intorno questa canzone in dialetto napolitano:

 

La signora Dianora

che cantava ncoppa lu triato

 Mò abballa miezzo a lu mercato

 

Viva, viva lu papa santo

Che a mannatu i cannoncini

Per distruggere i giacobini

 

Viva la forca e masto Donato

 Sant'Antonio sia lodato!

 

Quando erano andati a prenderla per condurla al suplizio, ella aveva chiesta ed aveva bevuto una tazza di caffè; poi aveva dedicato come ricordo, a coloro che lasciavan dietro a lei, nella sua prigione, queste poche parole latine.

« Forsan haec olim meminisse juvabit.

Arrivata sull'impalcatura, si voltò verso la folla e volle parlare; ma il boja temendo l'emozione del popolo, cosa del resto poco da temersi, s'impossessò di lei, e colla corda infame le troncò la voce nella strozza.

Si era cercato per via di farle gridare Viva il Re: forse c'era la grazia a prezzo di quella viltà.

Ella rifiutò.

Stava per venire la volta di Cimarosa. Il povero Domenico era condannato a morte per avere composta la musica di un inno patriotico, di cui Luigi Rossi aveva dettate le parole : era questo il suo solo delitto, e per questo delitto si era cominciato dal saccheggiare la sua casa, gittandone dalla finestra il suo clavicembalo, il clavicembalo che egli aveva redato dal suo maestro Durante, e sul quale aveva composto gli Orazii, e il Matrimonio segreto; infine era stato condotto davanti la Giunta di Stato, o piuttosto davanti Speciale, nella terribile personalità del quale la Giunta di Stato si compendiava, e condannato a morte.

Aveva avuto un bel dire il poveretto, ch'egli non aveva mai considerata la musica come una cosa politica; che aveva composte delle opere per tutti i Sovrani d'Europa; delle messe per tutte le cattedrali, delle cantate per la nascita della principessa reale, la figlia, del principe ereditario [*3]  ; gli si era risposto con questa parola terribile ‑ la Marsigliese!

E difatti, la Marsigliese aveva detronizzata una parte dei re dell'Europa, e scossi tutti gli altri sui loro troni.

Domenico Cimarosa era dunque stato condannato a morte.

Per fortuna, i Russi, codesti Barbari dell'Orsa, come li chiama Botta, si ricordarono di avere sentito a Pietroburgo il canto del cigno napolitano, e ne domandarono la grazia a Nelson, il quale li rimandò al Re, al re che la negò.

Allora, siccome avevano giurato di non lasciar morire Cimarosa, corsero in armi alla sua prigione, lo liberarono, lo fecero imbarcare sopra una delle loro navi, e lo condussero a Venezia.

Ma la commozione era stata troppo forte: la natura si fece complice del giudice e, dopo sei mesi di esilio, Cimarosa morì.

Il boja si riposò durante una settimana intiera, dal 20 al 2 9 agosto ; ma il 2 9 agosto ebbe lavoro doppio, e quella fu giornata di grande impiccagione.

Quel giorno dovevano morire e morirono, Michele Marino che noi conosciamo meglio sotto il nome di Michele il pazzo, e che abbiamo veduto tinto saviamente ragionare sotto la repubblica; Gaetano di Marco, Nicola Fasulo, Antonio Avella, detto Pagliuchella e Nicola Fiano.

C'erano due uomini che avrebbero dovuto trovar grazia presso i lazzaroni, avvegnacchè fossero dei loro ; ma, tutto al contrario, questi li strapparono dalle mani del boja per farne giustizia da loro medesimi: solamente tale giustizia loro fu una tortura di molte ore; il boja non ebbe più che ad impiccare due cadaveri [*4] .

Per Nicola Fiano il popolo fece anche peggio: non potendo impadronirsi di lui, mentre era vivo, s'impadronì del suo cadavere e lo fece in pezzi, strappandogli il cuore che fu fatto arrostire, come la parte più dilicata dell'individuo, e squartandone e sminuzzandone le membra, i cui brani furon poi portati per la città, infilzati alle punte di picche e di bajonette [*5] .

A una trista storia quella di codesto ufficiale, e che dà un'idea di ciò che fosse quell'infame Speciale, inviato, dalla Sicilia, come ognun deve ricordarsi, dal re e dalla regina in persona.

Qualunque fossero le prove riunite contro di lui, nessuna, nemmeno colle leggi feroci che reggevano Napoli, lo rendevano passibile della pena di morte. Tutt'al più meritava l'esiglio; ma per tutti questi uomini eminenti, sia per l'intelligenza, sia pel coraggio, non si voleva mica l'esilio, ma si voleva, sempre e unicamente, la morte.

Bisognava toglier via dalla popolazione napolitana tutta quella gloriosa generazione di sapienti e di forti che col braccio e col senno, si opponevano alla bassa tirannide di Carolina e di Ferdinando.

Speciale s'incaricò di far confessare a Fiano il suo delitto.

Speciale e Fiano erano stati allevati insieme, erano amici d'infanzia. Il giudice lo fece uscire dalla sua prigione e condurre nelle sue stanze, e come se lo avesse riconosciuto soltanto all'udienza, come se non avesse saputo prima di chi si trattasse:

‑ Ah! sei tu Fiano! ; gli disse, facendolo slegare ed aprendogli le braccia per istringerselo al petto ‑ stavamo quasi per dire al cuore ‑ Oh! povero il mio Fiano in quale situazione ti rivedo! Ah! quando fanciulli ci trastullavamo insieme ai nostri giuochi, chi mai ci avrebbe detto allora che un giorno io sarei il tuo giudice; ma no, mi sono sbagliato, io non sono il tuo giudice, sono e sarò sempre il tuo amico. Non è dunque il tuo _giudice che t'interroga, è l'amico tuo che ti parla: vediamo un poco, anche tu come amico, palesami tutto, perchè io possa salvarti.

Fiano confidò in quell'uomo, e tenendone stretta la mano, e sempre ringraziandolo di un'amicizia che, sopravvivendo alle diserzioni dei partiti, arrivava al sacrificio, gli disse tutto.

Quando Speciale ebbe saputo quello che voleva sapere, lo tornò ad abbracciare e baciare, poi lo rimandò alla sua prigione promettendogli che ne uscirebbe presto.

Questa scena era avvenuta il 27 agosto: il 29, egli infatto ne usciva, ma per andare alla forca.

Il 4 settembre, toccò ad Ettore Caraffa Conte di Ruvo.

Voi conoscete la storia di questo forte fra i forti, di questo rude capitano che con una scala sulle spalle, la spada fra i denti e la bandiera dell'indipendenza in mano, scalava le mura della città che era stata feudo della sua famiglia, e che, faceva, gittando la sua volontà nella bilancia, risolvere la distruzione di quella città. Or bene egli difendeva Pescara, come già vi abbiam detto; Pronio ve lo assediava. Quando le castella di Napoli si arresero, il Cardinale gli fece scrivere che, compreso nella capitolazione dei forti, anch'esso potrebbe arrendersi insieme, e così godrebbe dei benefici di quella capitolazione. Vale a dire, non solamente avrebbe salva la vita, ma ben anche sarebbe libero sia di restare in Napoli, sia di ritirarsi in Francia. Pronio, di buona fede, gli trasmise le offerte del Cardinale.

Ettore Caraffa si arrese.

Ma il Cardinale e Pronio avevano fatto i conti senza il Re. Il Re, e soprattutto Carolina, nutrivano un'odio profondo contro Ruvo, che chiamavano ‑ l'Arrabiato ‑ In una delle sue lettere, noi non possiamo citarle tutte, Carolina lascia traboccare l'odio suo contro di lui.

Pescara resa, Ettore Caraffa preso, il Cardinale ricevette la seguente lettera in data del 16 agosto.

« Palermo 16 Agosto 1799.

« Eminentissimo mio. Ho ricevuto la Vostra lettera del 12 che mi ha sommamente consolato, per tutto quanto in essa mi dite della tranquillità e quiete che costì, lode al Signore si gode del comune giubbilo che continua a mostrarsi dal popolo e particolarmente quello del Mercato e per quanto vi avevano detto i paggi e gli altri Capi del medesimo. Ho letto anche quanto avete scritto al Generale relativamente ai diversi Corpi di Realisti formatisi nella Capitale ed in Foggia, sotto la Direzione di D. Lodovico Fredda; e dal detto Generale vi si risponde sull'assunto. Con piacere ho inteso i progressi di Rodio colla sua Truppa ed il complimento fatto da Panedigrano a quel Corpo Francese. Ora sto aspettando con impazienza di sentire quanto avete risoluto in risulta di quello che vi serissimo avant'jeri. Approvo che non abbiate permesso a Fra Diavolo di entrare in Gaeta come l'avrebbe desiderato: convengo che è un Capo di briganti; ma convengo altressì che ci ha molto ben servito, bisogna dunque servirsene, non disgustarlo; ma nel medesimo tempo colla persuasiva convincerlo di dover stare a freno ed in disciplina lui e la sua gente, se vuole acquistarsi veramente un merito con me. Quando Pronio prese Pescara spedì un ajutante per darmene parte dicendo che era in suo potere ben custodito il celebre Conte di Ruvo al quale egli aveva promesso la vita, ciò che non era in suo potere: Rispedii io immediatamente detto ajutante con ordine in risposta di rimetter qui il detto Ruvo colla massima responsabilità vita per vita, fatemi sapere se ciò siasi eseguito dal Pronio [*6] . Conservatevi e credetemi sempre lo stesso Vostro affezionato.

 

« FERDINANDO B.

 

Gli ordini del Re erano stati esattamente eseguiti; Ettore Carafa era stato ricondotto a Napoli e tradotto davanti la Giunta di Stato.

Condotto carico di ferri davanti al giudice, interrogato, insultato da questo, ne interruppe le ingiurie, scuotendo le sue catene e dicendogli:

‑ Sono questi ferri che ti dànno il coraggio d'insultarmi. Se io fossi libero, tu mi parleresti altrimenti.

E scagliandoglisi addosso, gli scosse di nuovo le catene sopra la testa, come per ispezzarne la fronte.

E l'avrebbe certamente fatto se i gendarmi non l'avessero trattenuto.

Pallido di terrore Sambuti ordinò agli sbirri di ricondurre Ettore Carafa nella prigione.

Va senza dire ch'egli era condannato.

Come nobile, come uno dei più gran signori di Napoli, egli ebbe l'onore della guillottina [*7] .

Sul palco, il boja gli addimandò se avesse un ultimo desiderio da esprimere.

Se dipende da te, gli disse Ruvo, me lo accorderai tu?

‑ Sì, rispose il boja.

‑ Ebbene, mettimi supino invece di mettermi bocconi sul ceppo. Voglio vedere calare il ferro che deve troncarmi la testa.

Quest'ultimo desiderio fu soddisfatto, e siccome il boia, attonito per tanto coraggio, tardava a compiere il suo terribile officio :

‑ Taglia dunque per Dio! ‑ gli gridò il paziente [*8] .

Se questa generazione d'uomini avesse vissuto invece di essere tagliata dalle sue radici, Colletta non avrebbe dovuto scrivere sui suoi compatrioti queste parole:

« E quando, per un consiglio di guerra subitaneo, morì il general Federici, che aveva combattuto per la repubblica, e da un altro consiglio fu morto il maggiore Eleuterio Ruggeri in pena di aver sul corpo due margini freschi e sanguigni, sorsero per salvezza di vita, menzogne infinite e vergognose. Altri diceva esser fuggito dalla battaglia, altri comprava dai capi‑banda della Santa Fede falso accertamento di aver disertate le bandiere della repubblica, altri otteneva scrivere il nome nei registri di Baker, o di Tanfano, o del Cristallaro, comprando a ricco prezzo la infamia del non vero tradimento; ed altri nascondeva i segni di onorate ferite, o le copriva del disonore, dicendole prodotte da sventurata lascivia. Lettere false, falsi documenti, testimoni bugiardi, seduzioni pervertimenti eran continui; tutte le idee dell'onore volsero indietro ; il più saldo legame degli eserciti fu rotto. Non avevano le Giunte guida migliore ai giudizii che i fatti della repubblica supponendo traditori al re gl'impiegati da lei, e fedeli i negletti; e poichè quel governo aveva impiegato i valorosi, trascurato i codardi, le virtù militari ebbero castigo, la viltà ebbe premio ».

Continuiamo; questo bel paragrafo di Coletta ci ha permesso di ripigliar lena.

Il Re, da Palermo, seguiva col più grande interesse ciascuno di que' supplizii. Solamente egli trovava che non andassero abbastanza presto e che non fossero abbastanza numerosi. Siccome la cosa sarebbe difficile a eredersi se non ne mettessimo le prove sotto gli occhi del lettore, appoggeremo la nostra accusa con alquanti frammenti di lettere che sono intiere nelle nostre mani.

« Palermo li 25 Agosto 1799.

« Eminentissimo mio. Ricevei jeri la Vostra lettera del 20 [*9] , che mi ha fatto gran bene sentendo, che costì non vi sia nulla di allarmante, l'allegria riprendendo il suo solito corso nel Popolo; che si continuino a cantare dei Te Deum da tutte le Congregazioni in rendimento di grazie all'Altissimo, che si siano incominciate le esecuzioni de' Rei; e che la Giunta di Stato travaglia senz'in‑ termissione. Convengo con voi su quanto mi dite relativamente al Popolo, il quale per quanto buono e fedele sia sempre è una brutta bestia, potendo da un momento all'altro condotto da qualche malintenzionato che s'impadronisca del suo animo, esser perniciosissima: non vi dissi perciò di dovervi assolutamente, a corpo perduto buttar nelle sue braccia, ma farne quel conto che si doveva, essendo il Ceto che si è mantenuto il più fedele.

 

« FERDINANDO B.

In una lettera senza data, scritta tra il 25 e il 29 agosto, leggiamo:

« In punto è giunta una paranza da Massa con due passeggieri chiamati, don Mariano Caputo e d. Antonio Sellitto, napoletani, che si spacciano per esser da Voi raccomandati come fieri realisti. Siccome io son sicuro, che quando tali non sono anzi l'opposto non possono esser da Voi ben visti, e raccomandati così li ho fatto immediatamente arrestare e chiedo conto delle loro persone alla Giunta di Stato, costando a me essere stato il Caputo Capo della Commissione annonaria nel tempo della Ribbelle Repubblica, ed il Sellitto anche nella medesima impiegato. Con quest'occasione vi raccomando, di vegliare, che non si lasci venire nessuno qui, senza il debbito passaporto e che questo non si dia senza l'informo della Giunta di Stato, e Direttore di Polizia ».

« Tutto si deve fare e proporre nelle forme debbite dalla Giunta per la classificazione de' rei per punire i principali col massimo rigore come si meritano, deportarsi gli altri minori e indi usarsi quella clemenza che mi proponete con tutti gli altri, e tutto ciò nel più breve spazio di tempo possibile, non essendo assolutamente tollerabbile di aver 8 mila carcerati a farsi tanti nemici quanto saranno i loro parenti ed adherendi.

In data del 29 agosto, Ferdinando scriveva ancora:

« La Giunta di Stato deve sbrigarsi nelle sue operazioni, e non far vaghi, e generali rapporti; e quando li avea fatti, bisognava ordinarle di verificare in 24 ore i fatti, perdere i Capi e senza cerimonia alcuna impiccarli. Spero che non si sia dilazionata la giustizia che mi si dice si doveva far Lunedì; se mostrate timore siete fritti e lo aver fatto eseguir l'altro con tanto apparato di Truppe mi è sommamente dispiaciuto, mentre più semplicemente si faceva era meglio, e lesto lesto senza far star il popolo ad aspettar tante ore ed impazientarsi ».

Difatti, nella lettera e nella poscritta precedente, Ferdinando aveva già scritto al Cardinale:

« In punto ritorno in casa, ricevo molte lettere da Napoli con due Bastimenti da colà pervenuti, sento, che vi sia stato chiasso al Mercato, che non si siano fatte più esecuzioni; e non da Voi ne dal Governo come era dovere mi si dà una parola di rapporto con mia somma pena e meraviglia ».

Noi limiteremo a queste le nostre citazioni, almeno per quanto riguarda i suppliziati. Ma che cosa vi pare di quel Siete fritti? è poco reale, ma è molto espressivo.

E difatti, dal 20 al 29, non era più stato impiccato nè decapitato nessuno.

Era tutta una settimana di aspettativa; c'era da annojarne il popolo e da impazientirne il Re.

Il 4 settembre i supplizii ricominciarono.

Come abbiam detto, fu decapitato Ettore Carafa.

Poi il carnefice si riposò fino al 24.

Ma il 24 il popolo ebbe la gioja di vedere impiccare il generale savojardo Manthonnet e il proconsole francese Sieyès, probabilmente parente del nostro celebre legslatore.

Noi conosciamo Manthonnet: è l'energico generale il quale sperava che sua madre parteciperebbe alle ricompense delle donne, i cui figli sarebbero morti per la patria.

Egli fu condotto, come gli altri, davanti Speciale.

‑Che hai tu fatto per la repubblica? gli domandò costui.

‑ Di grandi cose, rispose Manthonnet, ma non abbastanza grandi ancora, poichè abbiamo finito per capitolare.

‑ Che cosa hai tu a dire per tua difesa?

‑ Ho capitolato.

‑ Non basta.

‑ Non ho altre ragioni da dare a coloro che calpestano la legge santa dei trattati.

Ed a tutte le altre domande non rispose mai altro che queste parole, le quali, infatti, davanti a qualunque tribunale, avrebbero dovuto essere la sua migliore difesa:

‑ Ho capitolato !

Condannato a morte fu condotto alle forche con Sieyès, colla corda al collo; per via domandò:

‑ E Bassetti, che cosa ne han fatto?

‑ Ha denunziato la congiura de' suoi compagni [*10] , rispose uno sbirro e gli è stato fatto grazia della vita.

‑ Ah! vile assassino de' tuoi fratelli, gridò Manthonnet. Io prevedeva la sua bassezza e voleva farlo fucilare ; ma non godrà mica lungamente della sua viltà e morirà nell'infamia perchè non ha saputo vivere nell'onore.

E difatti, prima di un anno, Bassetti era morto.

Manthonnet intanto moriva quale aveva vissuto: da eroe.

In quanto a Sieyès, gli storici napolitani non f anno altro che registrare il suo nome fra i morti. 2 già molto; come Francese, avrebbero potuto dimenticarlo.

Noi non troviamo sulla lista funebre il nome di Velasco.

Gli è perchè Velasco, mercè la sua energia, sfuggi non mica alla morte, ma al patibolo.

Velasco aveva la forza e la statura di un gigante; condotto davanti a Speciale gli rispose con disprezzo.

‑ Bada alle tue risposte, gli disse Speciale, poichè domani posso mandarti a morire.

‑ Ohibò! rispose Velasco, ci anderò ben io senza che tu mi ci mandi.

E, detto fatto, si slanciò fuori della finestra, che era di un terzo piano e si spaccò il cranio sul lastrico.

Dopo il supplizio di Gabriele Manthonnet e di Pasquale Sieyès, la Giunta parve poter aspettare dal 24 al 30, senza nuove esecuzioni capitali; ma il 30, essa volle scialare col popolo, e se questo non rimase contento, in verità, fu molto difficile.

Gli s'impiccarono due principi, Ferdinando e Mario Pignatelli, un prete, Nicola de Meo, un avvocato, Prosdocimo Rotondo, quel medesimo che era stato denunciato da Palomba, il quale poi doveva pur esso finire alla stessa forca, e un giudice di pace, Francesco Astore.

Il posdomani, primo ottobre, toccò al giovane marchese di Genzano: egli aveva sedici anni! era figlio unico, era bello, bravo, istruito: erano queste buone ragioni perchè la sua morte fosse un lutto eterno per la sua patria.

Tre settimane dopo la sua morte, suo padre convitava i suoi giudici a splendido banchetto!

Ottenne per favore d'essere decapitato, ma vicino a lui s'impiccò, sotto gli occhi suoi, il presidente del Direttorio, Ercole d'Agnese.

Il popolo, malgrado la raccomandazione del Re, rimase sei giorni senza spettacolo.

Il 7 Ottobre, un corteggio funebre s'avviò alla piazza del Mercato. Erano Nicola Russo, che non bisogna confondere con Vincenzo Russo, di cui dovremo occuparci fra poco, e Domenico Pagano: essi precedevano di tre giorni il generale Matera.

Abbiamo già detto che cosa fosse Matera: nel 1795 era passato al servizio della Francia ed era diventato ajutante di campo di Joubert al quale aveva salvata la vita. E' desso che aveva proposto di pagare a Méjean i 50,000 ducati da lui richiesti, incaricandosi di trovarne non solamente 50,000 ma 100,000 solo, che si volesse lasciarlo fare.

Era stato arrestato e consegnato da Méjean in Castel Santelmo, il giorno della sua resa, quantunque indossasse l'assisa francese.

Il 14, furono impiccati: Antonio Tocco, Pasquale Assisi, Nicola Palomba, Felice Mastrangelo.

Era quello stesso Nicola Palomba che abbiam veduto col fucile in mano, il 23 gennajo, che denunciò Rotondo, che difese Altamura e che con Felice Mastrangelo, ebbe il torto di non farsi uccidere insieme agli altri suoi difensori.

Appiè del patibolo, istigato a nominare i suoi complici per aver salva la vita.

‑ Miserabile! rispose a colui che gli faceva quella proposizione, credi tu che sia ad uomini come me che si possa proporre di riscattare la propria vita a prezzo del proprio onore ?

E montò con piè fermo la scala della forca.

Il 22 non solamente s'impiccò, ma si decapitò.

Poi, uno strano episodio rese più viva del solito la curiosità del popolo.

Si trattava di decapitare un morto. Il popolo aveva già veduto decapitare un certo numero di persone vive, ma un morto, questa mo' era proprio la prima volta.

Questo morto, il 41° per ordine cronologico, era Francesco Grimaldi.

La notte precedente si era andato a cercarlo alle prigioni della Vicaria per trasferirlo al Castello del Carmine che avvicinava al patibolo il condannato, facendo presso a poco lo stesso officio a Napoli di quello che faceva a Parigi la Conciergerie, quando le condanne capitali si eseguivano nella piazza di Gréve.

Francesco Grimaldi era un uomo di forza straordinaria. Nel tragitto dalla sua prima prigione a Castel del Carmine, risolvette di tentare di salvarsi; spezzate con violento sforzo le corde che gli stringevano i polsi, rovesciò con due poderosi pugni i due soldati che gli stavano ai fianchi e si diede a fuggire. L'ufficiale che comandava la scorta e che, sulla propria testa, rispondeva del prigioniero, corse col suo drappello ad insequirlo, gridando a gola aperta al Giacobino! al Giacobino! Era il grido mortale, lo sappiamo. Malgrado quel grido, malgrado la furia incalzante de' suoi persecutori, Grimaldi aveva già traversate alquante strade, quando s'imbattè faccia a faccia con una ciurma di lazzaroni armati; era preso, quando ad un tratto gli balenò l'idea di gridare ‑ Viva la Repubblica! morte ai Realisti! Que' Lazzaroni credettero scoppiata una nuova rivoluzione, e vedendo un gruppo di soldati che, correndo nella loro direzione, pareva volesse dar loro addosso, con alla testa Grimaldi, se la diedero precipitosamente a gambe. Grimaldi al quale il desiderio della vita metteva l'ali ai piedi, già guadagnava terreno considerabilmente su coloro che non cessavano d'inseguirlo, e stava ormai per essere fuori pericolo, quando, nell'oscurità non avendo veduto un pietrone che impacciava il lastrico, v'inciampò e, in cadendo, si ruppe una gamba. Si rialzò, ma sentì che gli era impossibile di fare un passo di più: allora si trascinò a poca distanza dal posto dove era caduto e si adossò quanto più potè al muro. Al momento in cui coloro che lo inseguivano passavano a gran carriera davanti a lui, e sarebbero forse andati oltre senza vederlo, la luna uscì da una nuvola. denunciò. Allora i soldati gli si slanciarono adosso pensando non aver nulla a temere da un uomo disarmato e ferito ; ma egli strappò la sciabola di mano al primo che gli si accostò, e così si trovò ferito ma armato. Se egli non aveva più la speranza di salvare la sua vita, almeno sperava di morire combattendo. Difatti, gli erano già toccati due o tre colpi di bajonetta ma parecchi degli assalitori erano già distesi ai suoi piedi, quando arrivò l'ufficiale accompagnato da una banda di lazzaroni. Questo rinforzo di nemici, rendendo a Grimaldi più sicura la morte, ne rese anche più disperata la difesa. Non si poteva prenderlo vivo, avvegnachè egli menasse già gran fendenti di sciabola a quanti gli si avvicinassero. L'ufficiale fece dare addietro i soldati, e sicuro che Grimaldi, colla gamba rotta, non poteva fuggirgli, ordinò loro di caricare i fucili e di fargli fuoco adosso. Una scarica lo trafisse con cinque o sei palle. Grimaldi cadde morto. Era il suo cadavere quello che si decapitava l'indomani, con Giuseppe Riario, nel tempo stesso che s'impiccava Onofrio Calacee, Luigi Bozzaotra ‑ quello stesso che, con una sciabolata, aveva gittato a terra, al Mercatello, la testa della statua di Carlo III ‑, Giovanni Varonese, Carlo Pietri ed il fedele Gaetano Morgera.

Il 23 ottobre il maresciallo Federici fu decapitato dentro Castel‑Nuovo. Era una delle sommità dell'esercito napoletano: trentanove anni prima, mentre era ancora giovanissimo, era stato mandato a Berlino per istudiarvi la nuova tattica, introdotta da Federico il Grande nel suo esercito, e prima della rivoluzione, era, nell'esercito reale, pervenuto al grado più alto.

Più tardi, nominato generale della repubblica, nulla potè fare per salvarla, se non che combattere come un soldato. Dopo il combattimento del ponte della Maddalena, si ritirò a Napoli e vi si tenne nascosto. Il 21 gennajo, essendo stata proclamata la tregua, uscì dal suo nascondiglio e fu arrestato.

Poco prima di morire scriveva a Vincenzo Coco:

« Sono stato or ora condannato a morte, ma ho udita la sentenza con animo tranquillo ».

Un vecchio servidore rimase presso di lui fino a' suoi ultimi momenti.

Non volendo essere toccato dalla mano immonda del carnefice, fu quel vecchio servo che ebbe da lui l'incarico di scoprirgli il collo pel supplizio: ‑ questo supplizio non ebbe altri testimoni che dei soldati, ai quali, senza dir loro una parola di politica, fece un discorso sui loro doveri militari. Ufficiali e soldati piangevano quando rotolò sul palco il mozzo capo di quel veterano dello esercito napolitano.

L'indomani fu sospeso alle forche del mercato un degno prete, il quale non aveva mai commesso altro delitto che quello di predicare la parola di Cristo. Si chiamava Vincenzo Troisi.

Grande fu l'emozione in tutta Napoli. I retrivi più arrabbiati disapprovarono quella esecuzione capitale. Al momento del supplizio, un temporale con pioggia dirotta, lampi e tuoni scoppiò sulla piazza del Mercato, proprio al di sopra del patibolo [*11]  e il popolo si disperse credendo che Dio, il quale era rimasto muto dinnanzi a tanti supplizi finalmente disapprovava quest'ultimo.

Per cinque giorni le esecuzioni capitali furono interrotte, ma, il 29, quattro dei più illustri cittadini di Napoli furono condannati alle forche.

Erano Domenico Cirillo, Mario Pagano, Ignazio Ciaja, Giorgio Pignatelli.

Per un momento, avevano avuta la speranza di scampare dalla morte. Erano con altri quattordici loro compagni di cattività, Albanese, Baffi, Logoteta, Rotondo, in quella lugubre fossa del cocodrillo che noi abbiamo cercato di descrivere, sempre però rimanendo lontani dalla verità. Una donna, a rischio della propria vita, a forza d'oro e di preghiere, era arrivata a far‑loro consegnare una lima e delle funi. Essi dovevano segare una sbarra della stretta finestrella che loro dava un po' di luce, calarsi coll'ajuto delle funi in una barca che sarebbe stata là sotto ad aspettarli. Ma fra loro c'erano due traditori: il matematico Annibale Giordano, e Francesco Bassetti. Per assicurarsi la vita, costoro avevano rivelata la trama.

Nel momento che la sbarra era segata a mezzo, nel momento in cui già si preparava la corda, mediante la quale si doveva fuggire. ‑Duecce quell'ufficiale svizzero, disceso, come abbiamo già veduto, alla parte di sgherro, entrò nella prigione con agenti di polizia, andò difilato alla sbarra quasi segata, mentre i suoi uomini si impossessavano delle corde e della lima.

Tutto era perduto.

Era, a questo tradimento di Bassetti che Manthonnet faceva allusione quando, cercandolo ai suoi fianchi all'ora di morte, non ce lo trovò.

Condotto davanti ai giudici, Mario Pagano si era contentato di dire :

« Credo inutile qualunque difesa; la malvagità degli uomini, la tirannide dei governi mi ha resa talmente esosa la vita, che non credendo più al riposo se non se nella morte, domando di morire »..

Carlo Botta scrive di lui:

« Mario Pagano al quale tutta la generazione risguardava con amore e con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi [*12]  ; era vissuto innocente, vissuto desideroso del bene ; nè filosofo più acuto, nè filantropo più benevolo mai si pose a voler migliorare questa umana razza, e consolar la terra. Errò, ma per illusione, ed il suo onorato capo fu mostrato in cima agli infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed assassina [*13] .

« Non fè segno di timore, non fè segno di odio. Mori quale era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all'altro d'Italia, con amare lagrime i suoi discepoli, che come maestro e padre, e più ancora come padre che come maestro, il rimiravano. Il piansero con pari affetto tutto coloro, che credono che lo sforzarsi di felicitare la umanità è merito, è lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio della età nostra di questo, che un Mario Pagano sia morto sulle forche ».

Domenico Cirillo, condotto, a sua volta, davanti a Speciale, e da questo interrogato sulla sua età, rispose.

‑ Ho sessant'anni; sotto la monarchia, sono stato medico, sotto la repubblica, rappresentante del popolo.

‑ E dinnanzi a me, adesso che cosa sei? gli domandò Speciale.

‑ Dinnanzi a te, vile, io sono un eroe.

Egli era stato medico del Re. Colletta afferma che Nelson ed Hamilton gli fecero dire in prigione che se volesse ricorrere alla generosità del Re, il Re gli farebbe grazia.

Ma egli, colla sua voce dolce, colla sua faccia calma, rispose :

Si spera invano che io contamini la mia riputazione senza macchia con una bassezza. Io rifiuto i beneficii del tiranno; la rovina della mia patria, il saccheggio della mia casa, nel quale ho perduto la fatica di tutta la mia vita, il ratto di mia nipote, la dolcezza della famiglia, la speranza di perpetuare il mio nome, nessun bene al mondo può spingermi a separarmi da' miei cari e virtuosi compagni. Aspetto il mio riposo dalla morte; non farò nulla per fuggirla, e per rimanere un'ora di più in un mondo dove regna l'adulterio, lo spergiuro e la perversità.

In conseguenza domandò di morire coi suoi amici più cari, Mario Pagano, e Ignazio Ciaja [*14] . Questa grazia gli fu accordata.

Difatti, noi l'abbiam detto, Ignazio Ciaja morì lo stesso giorno e della stessa morte.

Ciaja aveva una di quelle dolci nature di fanciullo facili ad ingannare e che vedono sempre il bene attraverso il male. Era stato chiamato al governo dal voto popolare. Quando i repubblicani, vinti, si ritirarono nei castelli, e proposero di aprirsi una strada attraverso ai loro nemici coll'armi alla mano, egli inchinò per la capitolazione, credendo se non alla clemenza, almeno alla buona fede dei vincitori.

Morì calmo, come i suoi compagni, cercando di far loro vedere nell'avvenire quel giorno della libertà all'aurora del quale essi morivano.

Giorgio Pignatelli morì con loro e degno di loro.

Abbreviamo, tanto più che le vittime più illustri, tranne qualcune sulle quali noi dovremo ancora fermarci, sono già comparse sotto i nostri occhi.

Il 31 ottobre si decapitò sulla piazza di Mercato, Sereno Caputo amministratore dipartimentale, e s'impiccarono il prete Ignazio Falconieri, Colombo Andreossi e Raffaele Jossa.

Passarono nove giorni senza nessuna esecuzione capitale; ma era soltanto una sosta nel sangue; non c'era più mezzo di arrestarsi; la regina si unì a suo marito per raccomandare di non fermarsi a mezza via.

Il 29, ella scriveva a motivo del trambusto che aveva avuto luogo al Mercato, e di cui il re, come abbiamo veduto, si era già da parte sua, occupato :

« Era arrivato qui ed andata ad una festa di campagna data da Francesco, al ritorno che abbiamo fatto trovo un corriere Turcho spedito e colla massima spedizione, Si parla di romore che vi sia stato al mercato, ma come non vedo nessuna lettera di Vostra Eminenza confesso stento a crederlo e mi auguro che sia un anticipazione di zelo, basta vedremo in appresso, ritorno a dire i Rei spicciarle alli loro destini con rettitudine giustizia e poi fare giuochare la clemenza e pensare alla polizia e fare una sacra ferma utile ed efficace operazione, li palliativi non valendo niente e cercare le Russi al più presto queste tre operazione unità vigilanza giustizia attività ed ordine ‑ rimediera a tutto e ne sono securo. Addio, fido nel conosciuto provato zelo di Vostra Eminenza mi creda pure con vero e grato cuore sua riconoscente amica

 

« li 29 agosto 1799.

 

« CAROLINA.

Il 3 settembre, la vigilia della morte di Ettore Carafa, ella scriveva:

«O ricevuto questa mattina la lettera di Vostra Eminenza dove mi parla del piccolo disturbo da mallintesi insorti, spero in avenire non ve ne sarà più, ma la scossa che Napoli ha sofferto ed stata troppo forte per potere così subito tutto calmare ‑vorrei vedere tranquillizato Napoli. sul punto dei Rei di Stato punizione alli Capi deportazione alli altri, indulto perdono al maggiore numero e sopra tutto perpetuo silenzio ne potersi più parlare scrivere dire attare il passato di nessuno ‑ che un eterno oblio insepellisca tanti orrori e delitti e che vita nuova ma attenta vigilante di non permettere simile viziose unione, fatto questo quetati li animi Napoli si riordinera presto sopra tutto se si vi mettera ordine fermezza ed, che un deve essere sia immutabile. Vedendo questo tutto pieghera Napoli ed docile e facile a condurre ma senza domandare ne parere ne congrette bisogna in sua camera esaminare prendere lumi pesare il pro il contro scegliere lo più giusto lo migliore ma poi un voglio un così deve essere e la maniera di condurre Napoli per suo proprio bene almeno così la penso ‑ la squadra Russa turcha fa un bell'effetto credo che fra giorni ed al più presto andera a Napoli

 

«li 3 settembre 1799.

 

« Vostra ricconoscente amica

      « CAROLINA.

 

Alcuni giorni dopo, la regina scriveva in seguito ad una rissa accaduta fra i Turchi e i Siciliani, che era meglio al contrario che la squadra turca non venisse davanti a Napoli, dove non farebbe che aumentare il, disordine.

Noi racconteremo, quando avremo finito, di narrare quello che succedeva a Napoli, e ci pare un secolo di arrivarci, quello che succedeva a Palermo.

Napoli rimase dunque, come abbiam detto, nove giorni senza supplizii.

Il nono giorno fu impiccato Giovanni Leonardo Palomba fratello del prete Nicola Palomba: dalle sue finestre, mentre che Napoli era assediata dai Sanfedisti, era stato fatto fuoco addosso ai Lazzaroni.

Il giorno 11, fu la volta di Pasquale Baffi.

Pasquale Baffi era pure uno di que' dolci e placidi scienziati che nascono nel momento di un sorriso della natura; egli si era dedicato allo studio della lingua greca ed era diventato uno dei più dotti ellenisti dell'epoca. Tradusse e pubblicò i manoscritti di Filodemo, trovati nelle lave di Ercolano. Passava tutte le sue giornate nelle biblioteche scrivendo e meditando.

Quando scoppiò la rivoluzione, la voce della patria lo trasse dalla sua bella antichità, ed egli rispondendo a quella voce, si lasciò nominare membro del governo provvisorio, nel quale contribuì a tutto quello che fece di nobile e di buono. Arrestato dopo la rottura dei trattati, la sua giovane moglie si consacrò tutta alla salvezza di lui, ma la sua devozione non le attirò altro che le ingiurie e i motteggi degli sgherri. Speciale l'insultò e la sberteggiò fino all'ultimo.

‑ State tranquilla, le diceva, vostro marito non morirà: se ne caverà coll'esilio e la faccenda sarà presto sbrogliata.

Passò un tempo assai lungo: la poveretta tornava sempre e, sempre, il manigoldo le dava la stessa risposta. Finalmente un giorno che, per la decima volta, egli le dava quell'assicurazione, uno degli assistenti fu mosso da compassione e gli disse:

Ma che piacere trovate ad insultare questa povera donna? !.. ‑ Non gli date retta, signora, vostro marito è condannato e fra pochi giorni sarà fatto morire.

La poveretta sentì mancarsi le forze e cadde mezzo morta.

Speciale la guatò con un ghigno agghiacciante, e disse:

‑ Oh! la tenera sposa! essa ignora perfino il destino del suo consorte ‑ era quello che volevo vedere. Ho capito. Andiamo, via andiamo! sei bella, se' giovine vuoi un altro marito, addio.

Baffi, quantunque morisse solo, morì col più gran coraggio. Una mano pietosa, la mano di un amico gli aveva fatto passare dell'oppio, affinchè, con una morte volontaria, sfuggisse alla morte violenta. Ma egli rifiutò il funebre regalo.

‑ L'uomo, egli disse, è stato posto dal Creatore in questo mondo come il soldato in sentinella: abbandonare la vita volontariamente è disertare: affronterò il mio destino per quanto fosco pur sia; la morte non è mica uno spavento, la forca non è un disonore. Dio è grande e buono. Egli riceve nel suo seno gli uomini giusti e pii. Venga pure il carnefice, mi troverà pronto e rassegnato.

E così difatti il boja lo trovò quando, l'11 novembre, lo condusse alla morte.

Il 13, Francesco Guardati, religioso di Monte Cassino, salì alla stessa forca.

Il 19, Nicola Magliano e Vincenzo Russo furono impiccati insieme.

Lasciamo da banda il meno celebre dei due, malgrado la terribile uguaglianza della morte, per occuparsi dell'altro.

« Vincenzo Russo era, dice Francesco Lomonaco, nel suo rapporto a Carnot sugli avvenimenti di Napoli, uno di quegli uomini straordinari, che onorano non solamente la nazione cui appartengono, ma l'umanità, non solamente una generazione, ma tutte le generazioni insieme.

« Era, continua a dire Lomonaco, una di quelle organizzazioni rare che riuniscono l'estensione alla profondità, alla vivacità della fantasia e del sentimento la sicurezza del calcolo e della ragione, ad una lettura immensa la forza creatrice del genio. Egli riuniva, in grado eminente, l'energia dello stile al dono della parola; quando parlava in pubblico, era talvolta un fiume vasto, immenso, calmo, che scorre in mezzo a campi dorati, a prati verdeggianti, tal altra, un torrente che cadendo dalla cima delle montagne, rovescia tutti gli ostacoli e fa rimbombare del suo strepito l'eco delle foreste vicine; quando favellava con amici, era un dolce ruscello che dissetava e ricreava tutti quelli che lo ascoltavano ».

Il foro napoletano, al quale si era consacrato, era orgoglioso di avere in lui, al tempo stesso, un filosofo ed un oratore di quella forza. Giudici, avvocati, letterati, tutti ammiravano la superiorità del suo ingegno e idolatravano il moderno Demostene. Una volta che egli tuonava in tribunale, difendendo un disgraziato accusato d'omicidio, un ministro che era seduto presso suo padre gli pose la mano sopra una spalla e gli disse:

‑ Signore, potete gloriarvi di avere per figliuolo un uomo come questo.

Al principiare delle persecuzioni, Russo fuggi da Napoli. Non mica in Francia, avvegnacchè la Francia abbandonata alle orgie del Direttorio non le paresse abbastanza pura, ma in Isvizzera.

Dalla Svizzera passò alla Cisalpina, dalla Cisalpina a Roma. Fu a Roma che pubblicò i suoi Pensieri Politici.

Napoli liberata, egli vi ritornò, e non vi volle essere  altro che semplice soldato; ma non però vi fu libero di rimanere in quell'oscurità: fu nominato commissario di dipartimento, poi rappresentante del popolo. Non volle mai ricevere il danaro assegnato ai suoi stipendii, e domandò sempre alle Camere la diminuzione delle paghe di tutti gl'impieghi.

Nei suoi principali discorsi emise sempre il principio che la Repubblica non si fondava mica soltanto sulla rovina de' troni; ma che bisognava, prima di tutto, in un paese eccessivamente sconvolto come lo era Napoli, creare la morale, estirpare gli abusi, far nascere quello che mai era esistito ‑ uno spirito nazionale ; combattere il mal costume e l'errore, coll'educazione ; sostituire al lusso ed all'immoralità l'amor della patria; incoraggiare la agricoltura, infiammare il coraggio delle masse, agguerrendole ai pericoli, mettere il palladio dell'Indipendenza sotto l'egida della forza nazionale, non addormentarsi sul seno e sotto la protezione dello straniero, infine fare una rivoluzione, non già passiva, ma attiva, le rivoluzioni attive essendo le sole che possano avere risultati.

Quando il giorno del combattimento fu giunto, Vincenzo Russo credette suo dovere dare tutti gli esempii: prese un fucile, scese in piazza, e prese posto nelle file de' difensori della patria.

Rimase ferito e prigioniero.

Condotto davanti al tribunale, vi fu quello che era stato alla ringhiera, e quello che era stato davanti al nemico: eloquente e bravo. Davanti la sentenza fu disdegnoso, davanti agli oltraggi fu stoico.

In tutto il tempo che fu in prigione fu il consolatore dei suoi amici che sosteneva col suo inesauribile buon umore.

La vigilia del suo supplizio fu trasportato, secondo la abitudine a castel del Carmine, perchè si preparasse alla morte.

Il prete che lo assisteva, si chiamava Gioachino Puoti; questi si sforzava inutilmente di elevare i pensieri del condannato verso l'immortalità e la felicità della vita futura. Lo spirito di Russo durava fatica a credere il mistero sublime. Troncò la parola al prete per domandare una bottiglia di vino di Capri e due bicchieri; poi quando gli ebbero portato quello che aveva chiesto:

‑ Padre mio, gli disse, bevete meco alla salute dei patriotti che sono nascosti e che hanno ancora la speranza che io non ho più ‑ e costrinse il buon prete a bere con lui.

E dopo si addormentò tranquillamente.

Il prete uscì, e, disperando di convertire l'impenitente, chiese al comandante del Castello d'introdurre un altro prete. Allora il comandante, creatura di Ruffo, che in tempi migliori aveva conosciuto Russo [*15] , andò in persona nella cappella per cercare d'ispirargli dei sentimenti più cristiani, ed a tal fine lo svegliò.

Sia che fosse infastidito d'essere disturbato nel suo sonno, sia che fosse spinto fuori di lui dal disprezzo che gl'ispirava quell'uomo:

‑ Tu, assassino, gli disse, tu mi rammenti la nostra antica amicizia, tu mi parli di religione, tu! ah! via, conducimi presto al supplizio, soffrirò meno che di ascoltarti !

Il commandante si ritirò senza rispondere e coprendosi colle mani la faccia.

Rimasto solo, Russo si calmò e tornò ad addormentarsi.

L'indomani fu condotto al supplizio: arrivato appiè del patibolo gridò con voce forte:

‑ Popolo, vendicami, io muojo per la patria.

Ma Vincenzo si sbagliava di popolo e si sbagliava di epoca.

Il popolo che sapeva il suo rifiuto di confessarsi fece mille insulti al suo cadavere, e finì, dopo averlo trascinato nel fango delle strade, per gittarlo nei fossati della prigione dove fu divorato dai cani.

Il 23, fu decapitato Antonio Ruggi e fu impiccato Melchiorre Maffei.

Il boja si riposò cinque giorni; ma fu per fare il sesto giorno, vale a dire il 2 novembre, lavoro doppio. In quel giorno, otto patriotti furono dati a spettacolo al popolo sulla piazza del Mercato. Furono Giuseppe Logoteta, patriota calabrese di Reggio, che noi abbiamo già indicato come uomo di gran coraggio, e di grande istruzione; Giuseppe Albanese che aveva scritto a nome dei suoi compagni al Cardinal Ruffo per invocare l'osservanza de' trattati; Domenico Biscelie, Gregorio Mattia, Luigi Rossi, Clino Roselli, Francesco Bagno e Francesco de Filippis, ministro dell'interno e matematico distinto.

I supplizi non si arrestarono che il 18 marzo 1800. Fra il 3 dicembre 1799 e il 18 marzo 1800, si spacciarono ventinove vittime, le più celebri delle quali furono, Francesco Conforti, suppliziato il 7 dicembre; Nicola Fiorentino suppliziato il 12 ; il prete Marcello Scoti, supliziato il 4 gennaio 1800 ; Michelangelo Ciccone, suppliziato il 18; Luigi Granalis e Giambattista de Simone ‑ quell' uffiziale di marina che aveva salvati i tre bastimenti napolitani di Castellammare.

Una circostanza accompagnò, o piuttosto precedette la morte dell'illustre Conforti, la quale merita di trovar luogo in una storia che ha la presunzione di far conoscere gli uomini coi fatti.

Francesco Conforti era uno degli uomini più eminenti dell'epoca. Come prete, era stato incaricato di esaminare i Saggi politici di Mario Pagano. Egli lesse l'opera, la ammirò, e l'autorizzò a comparire.

Egli era professore di diritto canonico all'Università: nelle sue lezioni, svolse la storia de' Concilii, facendo toccar con mano tutti quei monumenti giganteschi delle usurpazioni dei Papi; armato della fiaccola dell'erudizione, e collo scalpello della critica in mano, mostrò come il vecchio mondo era stato pazientemente e destramente incatenato dalle barbare istituzioni della Corte di Roma e come la terra del nuovo mondo era coperta degli ossami di cinque o sei milioni d'uomini. In corsi privati, insegnava il diritto civile, analizzando nel tempo stesso i diritti primitivi dell'uomo, e i precetti della natura, questa grande legislatrice dell'universo : tutte le sue idee erano caldamente, eloquentemente esposte, e tutta la gioventù studiosa di Napoli correva a quelle sue lezioni.

Quello soprattutto che egli svolse più profondamente fu la questione delle immunità della Corte di Napoli: era questione di lunga durata; si trattava di sapere se il Reame dovesse considerarsi come libero ovvero riconoscere che fosse un feudo della Corte di Roma. Conforti si dichiarò contro Roma.

Abbiamo detto che Conforti era incaricato della censura dei libri; gli ordini erano positivi e bisognava proscrivere come pestiferi tutti i libri che parlassero di libertà umana e mettessero in dubbio il principio del diritto divino.

Posto fra la voce della sua coscienza e gli ordini reali egli non ascoltò che la sua coscienza; proibì l'entrata ai libri immorali e lasciò passare tutti quelli che potessero illuminare gli spiriti e far nascere nel cuore i nobili sentimenti [*16] .

Così Conforti cominciò dal perdere la sua Cattedra, poi di lì a poco fu cacciato in prigione.

Pochi mesi prima dell'entrata dei Francesi ‑uscì di carcere.

Proclamata la Repubblica, fu naturalmente chiamato al governo della cosa pubblica, ed egli vi si consacrò con tutta forza, e con tutto il calore del suo spirito. Rappresentante del popolo, prese posto fra gli uomini che fecero risaltare un vero sentimento politico ed una sincera probità. Vedendo tutto andare alla peggio si rifuggì nella Cittadella di Capua; ma quando Capua si arrese, alle stesse condizioni che Sant‑Elmo, come napolitano, egli fu consegnato alle Potenze alleate le quali lo consegnarono al Re.

Dal momento in cui egli era caduto nelle mani di Speciale, la faccenda non doveva andare per le lunghe; ma c'era un rammarico per tutti i bei lavori che Conforti aveva fatti, in differenti epoche, e che aveva indirizzati al Re contro la Corte di Roma ‑ lavori che diventavano più importanti che mai, giusto allora che si avevano delle vedute contro quella Corte, o piuttosto in quella Corte: quei lavori negli ultimi sconvolgimenti erano andati perduti. Per fortuna Speciale non era uomo da imbarazzarsi per così poco.

Egli andò a trovare Conforti nella sua prigione e gli diede ad intendere che aveva, a suo riguardo, delle istruzioni particolari, e che, se, per esempio, egli volesse rifare sulla corte di Roma tutte le Memorie perdute, poteva promettergli che, in ricompensa di tale lavoro, il Re gli farebbe la grazia.

Solamente, lo invitava a mettere nei suoi lavori la maggiore speditezza possibile, affine di rassicurare più presto la sua famiglia e i suoi amici.

Non c'era nulla che di onorevole in questa maniera di sollecitare la clemenza del Re. Conforti accettò, e, non avendo nemmeno il dubbio che col suo lavoro più attivo, egli correva più rapidamente alla morte, passò i giorni e le notti a ricomporre le sue Memorie salvatrici.

Finite le Memorie, le consegnò a Speciale.

L'indomani, si venne a cercarlo per condurlo al Castello del Carmine.

Con quel lavoro, egli non aveva guadagnato altro che di morire soltanto il 7 decembre e di essere la sessante‑ simasesta vittima.

Cinque giorni dopo, toccò a Nicola Fiorentino.

Egli pure era uno dei luminari di Napoli; egli pure era un sapiente matematico, un bravo giureconsulto, un uomo istruito in ogni cosa.

Era amico di Guidobaldi, per cui Guidobaldi s'incaricò d'interrogarlo.

‑ Vediamo, gli disse, non ci sieno parole sprecate fra noi, che cosa hai tu fatto per la Repubblica?

‑ Nulla, rispose Fiorentino; ho governato colle leggi e soprattutto colla necessità che è la legge suprema.

‑ Non tocca agli accusati di essere giudici delle proprie azioni, ma ai tribunali, e mescolando al suo discorso ora delle assurde teorie di uguaglianza, ora delle assicurazioni di antica amicizia, ora delle ingiurie, invocando ad ogni momento la giustizia, la buona fede, la clemenza del monarca, fece scappare la pazienza al prigioniero, talchè gli disse:

Non siamo mica noi, mi pare, che abbiamo fatto la guerra ai Francesi: è il Re, è il favorito Mack; Mack e il Re sono stati la causa dei nostri disastri; il Re è fuggito, lasciando il reame devastato, saccheggiato e spogliato da lui; dietro al Re è venuto il nemico, onnipotente per la conquista, ed ha imposte le sue volontà alla nazione vinta. Noi abbiamo obbedito a Championnet, come i nostri padri avevano obbedito al Re Carlo III. Che cosa ci andate voi parlando delle vostre leggi, della vostra giustizia, della vostra buona fede. Voi chiamate legge, degli editti retroattivi che non s'incontrano in nessun codice; voi chiamate giustizia, le vostre citazioni arbitrarie, le vostre procedure segrete, le vostre comparigioni senza difesa, le vostre sentenze senza delitti. Oh! la gran buona fede, in vero, la violazione dei trattati! Via dunque, come voi stessi lo dicevate testè, non perdiamoci in parole inutili. Non mettete più nomi sacri come quelli della legalità, della clemenza e della giustizia al servigio immondo della tirannide. E’ una profanazione: dite piuttosto che il Re vuole il nostro sangue, che la Regina vuole il nostro sangue, che i Principi vogliono il nostro sangue. Sarà più vero, più franco, più certo, e noi risponderemo offerendo le nostre vene ‑ Eccolo, che se ne cavino la sete!

Ed ora, in ricambio delle vostre proteste di amicizia, eccovi dei consigli, anzi meglio, un consiglio solo. Alzatevi da quel seggio, abbandonate il vostro ministero che è quello non mica di un giudice ma di un carnefice; e pensate che, se la giustizia rimane ancora sulla terra e che dimentichi di punirvi nella vostra vita, essa vi punirà certo nell'avvenire, nel vostro nome, che tramandato ai vostri figli li farà arrossire per lunghi secoli. Adesso mò, mandatemi alla morte colla coscienza tranquilIa: io la merito, per avervi detto la verità.

‑ Stringetegli, stringetegli le corde ai polsi e riconducetelo in prigione, gridò Guidobaldi, montato in tutte le furie.

E difatti, Fiorentino rientrò nella sua segreta colle mani sanguinanti, e, mostrandole ai suoi compagni, raccontò loro quello che gli era avvenuto e conchiuse:

‑ Oggi ho fatto questo racconto ai vivi, domani lo farò ai morti.

E l'indomani, difatti, spirava sulla forca.

Marcello Scotti e Michelangelo Ciccone lo seguirono a poca distanza.

Marcello Scotti, celebre pel suo Catechismo dei marinai, e Michelangelo Ciccone per la sua traduzione degli Evangelii in dialetto napolitano.

Infine, lo abbiam già detto, il 18 marzo 1800, alla 99* vitima, il boja si riposò.

Napoli credette tutto finito e respirò.

Ma la vendetta del Re non era ancora pienamente sazia.

Restava la sventurata Sanfelice che il Re aveva così bene raccomandato al Cardinal Ruffo perchè non se la lasciasse fuggire.

All'ingresso di Ruffo in Napoli, come abbiam detto, fu arrestata, giudicata, e condannata. Per contendere, per pochi giorni, la sua vita al carnefice, si dichiarò gravida.

Il medico Bruno Amandea fu incaricato d'esaminarla. Mosso da compassione per quella disgraziata creatura, confermò la dichiarazione da lei fatta.

Ma Ferdinando non volle fidarsi del giudizio de' medici di Napoli, che, a suo dire, erano tutti giacobini. Si fece venire la sventurata donna a Palermo, e la fece esaminare di nuovo dal suo proprio chirurgo, Antonio Villari.

La compassione è contagiosa. Questi confermò la dichiarazione del suo collega.

Ferdinando furibondo che la sua vendetta dovesse subire un ritardo, la fece chiudere in una segreta, con ordine di vigilare in un modo speciale su di lei.

Nell'intervallo, che doveva passare fra la dichiarazione de' medici ed il parto della Sanfelice, la principessa reale, Maria Clementina, prima moglie del Principe ereditario, partori un maschio.

Era il primo erede che essa dava alla Corona. Due anni prima avea dato alla luce una bambina che fu poi madama Duchessa di Berry.

Volete vedere come Ferdinando annunzia questa notizia al Cardinale Ruffo, che trovavasi allora in Roma?

« 27 Agosto.

« Dopo di aver chiusa questa, ieri sera alle undici, da vero guappone, dopo solo tre capuzzate venne al mondo un superbo mascolone: Parto più felice non si poteva desiderare, nè creatura così bella e più robusta si puol fare, siane sempre di tutto cuore ringraziato il Signore. Conoscendo il Vostro attaccamento per noi, hò voluto darvene io stesso la buona nuova, pregandovi di farlo in mio nome col Papa da cui imploro la paterna Apostolica benedizione per me, e per questo nuovo figlio della Chiesa.

 

« FERDINANDO.

 

L'etichetta della Corte voleva che, quando la Principessa reale partoriva un maschio, le venissero accordate tre grazie.

Non c'era esempio d'un rifiuto in caso simile.

La sorte della povera Sanfelice avea mosso tutti a pietà, e tutti s'erano collegati per salvarla. Si ottenne dalla Principessa che, invece di tre grazie, ella ne domandasse una sola, e questa fosse la grazia della Sanfelice.

Si fece sottoscrivere alla prigioniera una supplica; questa supplica fu posta nelle innocenti manine del neonato, incaricato, nell'entrare in vita, di salvare una vita, e, quando Ferdinando comparve nella camera della Principessa, essa gli presentò il reale infante e la supplica :

Ferdinando prese l'uno e l'altra; baciò il bambino e spiegò la supplica; ma non appena ebbe veduto di che si trattava, stracciò la supplica, buttò il bambino sul letto di sua madre, e si slanciò infuriato fuori della camera.

La povera Sanfelice era più condannata che mai.

Ferdinando calcolava la scadenza della gravidanza di lei con maggiore esattezza di quello che Schylock avesse calcolata la sua. Allorchè vide passato il termine fissato pel parto, e che la prigioniera non partoriva, fece scendere nella prigione alcune levatrici, e la fece esaminare di nuovo.

Quelle matrone dichiararono che la Sanfelice non era incinta.

Il giorno stesso la fece trasportare sopra un bastimento che doveva condurla a Napoli, e che nel medesimo tempo portava il seguente dispaccio al Duca di Cassero Statella, suo Vicerè.

« Che dentro dodici ore, dopo il suo arrivo a Napoli, la Sanfelice sia giustiziata ».

Il Vicerè ricevette il dispaccio alle dieci della sera. Il bastimento era arrivato allora.

Egli non aveva tempo che fino all'indimani alle dieci della mattina.

Il principe assisteva allo spettacolo a' Fiorentini, teatro di Cimarosa, col suo segretario il marchese Malaspina. Il marchese Malaspina era un ajutante di campo del re Ferdinando, dato a Ruffo in occasione della sua spedizione in Calabria, più per sorvegliarlo, che per secondarlo. Ruffo, essendo caduto in disgrazia, egli s'era aggrappato al Vicerè, ed era diventato il suo factotum.

Era, del resto, un originale quel marchese Malaspina. Molti nostri contemporanei l'hanno conosciuto, poichè sono appena sei od otto anni che è morto.

Egli aveva conservato un abitudine che aveva presa non so dove; quella di dire la verità; e la diceva a tutti, anche a Ferdinando II, cosa che, come si capisce, era una originalità grande.

Era dunque allo spettacolo col Vicerè, allorchè questi ricevette il dispaccio. Lo lesse, e lo passò al Marchese Malaspina, senza dirgli altro che queste parole:

‑ Leggete. Questo è faccenda vostra.

Il che voleva dire: Incaricatevi de' preparativi della esecuzione della sentenza, e badate che questa abbia Iuogo domani prima delle dieci.

Il marchese Malaspina lasciò lo spettacolo, montò in carrozza, e si fece condurre successivamente presso i tre, carnefici di Napoli; ma, essendo i supplizii cessati a Napoli dal dì 18 marzo, cioè da più di 6 mesi, que' tre signori erano occupati in Provincia.

Come fare?

Invece d'impiccare la Sanfelice, bisognava risolversi a farla decollare. In questo caso, un macellaio potrebbe sostituire il carnefice. Il marchese si diresse a tre macellai i quali ricusarorono tutti e tre, quantunque venissero loro offerti 50 ducati.

Bisognò quindi scendere uno scalino.

Il marchese Malaspina andò a trovare un beccaio, cioè uno scannamontoni, e fece il prezzo con lui di 20 ducati per l'esecuzione della sentenza del giorno appresso.

Era un agnello da scannare, invece di un montone: tutta la differenza consisteva in questo.

L'indimane la Sanfelice uscì dalla prigione della Vicaria, dove era rimasta in cappella. Era la terza volta che ne usciva.

Essa fu condotta a piedi, o piuttosto trascinata, poichè la povera donna non poteva sostenersi, fino alla piazza del Mercato, dove l'aspettava l'antico patibolo che non si era creduto necessario di demolire, e che rimaneva là in caso di bisogno.

 Solamente, per mancanza di carnefici, non si era potuto, innalzarvi la ghigliottina.

Si era dovuto contentarsi di porvi su un ceppo. La decollazione doveva farsi per mezzo di un enorme ascia.

Per tutta la strada, la folla, che avea riconosciuto nel beccalo in boja falso, lo fischiava, alcuni, che lo conoscevano, lo chiamavano a nome. Egli cominciando, forse, ad accorgersi che faceva un'azione schifosa, tremava.

I Bianchi circondavano la vittima, e la sorreggevano. Finchè un membro della confraternita appoggia una ma‑no sulla spalla del condannato, il carnefice non ha diritto di toccarlo: vuol dire che quegli ha ancora qualche cosa a che fare con questa terra.

Dal momento poi in cui il Bianco alza la mano, il condannato diventa il paziente, e non ha più a che fare con altri se non se col carnefice e con Dio.

Si montò sul patibolo. Le grida e gli urli contro il beccaio raddoppiarono. Sul palco, egli era meglio esposto alla vista di tutti, e per conseguenza, meglio riconosciuto.

Prolungare la vita della povera donna era lo stesso che prolungare una agonia che durava da più di un anno. I Bianchi si allontanarono, e la lasciarono nelle mani della morte che stava per essere tanto acerba per lei quanto le era stata la vita.

Il beccaio tremava sempre più; le ordinò d'inginocchiarsi, e siccome ella non lo sentiva o se pur sentisse non obbediva le calcò la mano sulle spalle, e la fece cadere ginocchioni; poi ne spinse la testa nel ceppo.

Colui per darsi coraggio l'insultava grossolanamente.

La povera donna vide che il momento era giunto; rimase immobile, muta, palpitante.

Il beccaio alzò il braccio e calò un colpo.

Ma lo sciagurato, più abile a servirsi della punta che del taglio, non azzeccò giusto il collo, ma fece alla paziente un largo squarcio alla spalla.

Mise un terribile strido la tapina, e si rizzò tutta grondante sangue.

Non era quella la morte ch'ella si aspettava, non era altro che il dolore, ed un dolore atroce!

A quella vista il popolo urlò; gli si dava più di quello che gli fosse stato promesso.

Il beccaio la piegò violentemente, e calò un secondo colpo, che, questa volta, ne spaccò il cranio. La povera creatura non era ancora morta. Con un movimento convulsivo si rialzò, e si trovò quasi in piedi, agitando le mani slegate in aria, e mettendo un gridio inarticolato.

Questa volta il popolo montò in furia davvero, e, cosa rara, prese il partito della vittima contro il carnefice. Non solamente raddoppiarono gli urli, ma i sassi cominciarono a grandinare sul palco.

I Bianchi scesero precipitosamente dalla piattaforma, dove rimasero soltanto il boja, e la vittima.

Nè la lotta fu lunga: il beccaio, vedendo che bisognava finirla al più presto possibile, ricorse alla sua arma favorita ; gittò via l'ascia, trasse il coltello dal cingolo e lavorò di punta.

Allora sì, la Sanfelice cadde morta, il ferro le avea tagliata la carotide.

Tosto il beccaio si precipitò sul cadavere, e si rialzò tenendone in mano il teschio.

Lo mostrò al popolo, ed il popolo fu soddisfatto.

Qualunque fossero i peccati della povera Sanfelice sulla terra ‑ e non siam noi, grazie a Dio, quelli che l'accuseremo ‑ dovettero certo essere riscattati da morte siffatta.

Del resto, fu quella l'ultima esecuzione capitale, che ebbe luogo nel 1800 sulla piazza del Mercato poichè le vittorie del general Bonaparte in Italia posero fine ai supplizii del Re Ferdinando I. a Napoli.

Noi lo abbiamo finalmente terminato il tristo racconto; per rendere a ciascuno il posto da lui occupato nel funebre corteggio, abbiam passato tre mesi in mezzo ai sanguinosi archivii del 1799 ; noi abbiamo cercato di glorificare tutte le virtù, tutti i coraggi, tutti i sacrificii ; poi abbiamo infine, colla coscienza della nostra imparzialità, fatta la parte dei giudici e quella delle vittime.

 

La Giunta di Stato credeva inappellabili le sue sentenze; s'ingannava; le vittime ne hanno fatto appello a Dio, e Dio ha cassato le loro condanne.

La Casa dei Borboni di Napoli ha cessato di regnare e, secondo la parola del Signore, i delitti dei padri son ricaduti sui figli, fino alla terza e alla quarta generazione.

Dio solo è grande !

 

 

 

 

 

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 [*1]  Noi leggiamo In Coco Nicola Vitagliani; ma noi ci siamo accertati che era lo stesso. Un solo patriota di nome Vitagliani si trovava nella lista del giustiziati.

 

 [*2]         Colletta.

 [*3]         Poi duchessa di Bèrry.

 [*4]« S'ignora se fosse per effetto dell'indolenza del governo, o per la forza che i briganti s'impossessarono di Michele Il pazzo e di Pagliuchella, ai quali furono applicate, per lo spazio di molte ore, tutte le torture che può Inventare la barbarie più raffinata.

(Bartolomeo Nardini, testimonio oculare)

 

 

 [*5]  « Mentre stava per morire, sul patibolo, alcuni stipendiati di Carolina gli si lanciarono adosso, lo fecero in pezzi, gli strapparono il cuore, e portarono in trionfo per la città le sue membra.

 

(Francesco Lomonaco)

 [*6]  Non è forse cosa curiosa questa lettera di un Re che, in uno dei suoi paragrafi, raccomanda di ricompensare un brigante e, nell'altro, di punire un gran cittadino.

 

 [*7]  La mannaia italiana somiglia tanto alla guillottina francese che si può adoperare la stessa parola per indicare le due cose.

 

 [*8]  Giuseppe Ricciardi, Martirologio italiano.

 

 [*9]  Questa lettera dava avviso al re che otto condanne erano state eseguite il giorno avanti e che fra i suppliziati erano il Duca di Stigliano, Serra, il vescovo Natale ed Eleonora Pimentel.

 

 [*10] Vedremo più avanti in quale circostanza.

 

 [*11] Lomonaco, Rapporto a Carnot.

 

 [*12] E’ questo un errore. Pagano non subì la pena di morte che il 29 ottobre, ed è cronologicamente, la 49ª vittima.

 

 [*13] C'è probabilmente errore da parte dello storico. Pagano non fu decapitato, ma impiccato, e noi non troviamo in nessun documento che dopo il supplizio la sua testa sia stata recisa dal corpo.

 

 [*14] Colletta s'inganna dicendo che fu suppliziato con Vincenzo Russo. Vincenzo Russo fu impiccato con Baffi non già il 29 ottobre, ma il 16 novembre. Noi possiamo rilevare questo piccolo sbaglio dalla lista cronologica dei supplizii che abbiamo sotto gli occhi.

 

 [*15] Gli storici scrivono talvolta Russo, tal altra Rosso; il prenome di Vincenzo indica che è sempre lo stesso.

 

 [*16]       Atto Vannucci ‑ I martiri della libertà Italiana.