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Pietro Colletta STORIA DEL REAME DI NAPOLI |
CAPITOLO VI
IL RE, DIVENUTO MAGGIORE,
GOVERNA IL REGNO
VII. Il 12 di gennaio del 1767 usci di minore il re Ferdinando, tacitamente, però che nessuno atto di governo, né cerimonia nella reggia, né festa nella città celebrò quel giorno; i reggenti divennero consiglieri o ministri, la sostanza o l'aspetto del politico reggimento non mutò. E poiché per le cose dette sono assai note le condizioni domestiche del regno, importa discorrere brevemente le esteriori. 1 potentati del settentrione, che per la bilancia politica del tempo non istendevano sino a noi la cupidigia e la potenza, mantennero i trattati di commercio fermati con Carlo; la Spagna e la Francia avevano con Napoli amicizie, non alleanza, perciocché gli accordi tra quei due regni del 1761, chiamati Patto di famiglia, non per anco erano stati accetti (a ciò consentendo secretamente il re di Spagna) da' Borboni delle Sicilie e di Parma. La casa d'Austria negoziava nuovo parentado col re di Napoli. Essendo finita sin dal 1763 la guerra de' sette anni, riposava la Germania e stava in pace l'Italia. Era morto don Filippo duca di Parma, e appresso a lui la vecchia regina Elisabetta Farnese, l'uno e l'altra per ambiziose voglie concitatori alla guerra. Il papa Clemente XIII contendeva contro Napoli ma inerme, perché sprovvisto d'armi profane, e per le sacre non temuto.
VIII. Primo atto del re maggiore fu la cacciata de' gesuiti, che importa esporre dal capo al fine; perciocché il're medesimo riappellando, tempo dopo, la espulsa compagnia, ed altri re mutando in favore di lei le già praticate ostilità, giova conoscere le cagioni così dello sdegno che dell'affetto. t noto per altre istorie come nell'anno 1540, sotto il pontificato di Paolo III fu instituita la compagnia di Gesù a insegnare e convertire, professando per voti la povertà, la castità, l'obbedienza; come si sparse in varie parti del mondo e nelle reggie; come divenne di povera, opulenta; d'infima, prima; di modesta, ambiziosa; e quante querele ella mosse o respinse.
Nell'anno 1758 Giuseppe I re di Portogallo, tornando dopo notturne lascivie dalla città alla reggia, fu leggermente ferito da colpo di moschetto; e ricercati gli autori e le cagioni, si scoprì che molti nobili e frati gesuiti avevano congiurato di uccidere il re per mutare padrone, corte e ministri. Parecchi nobili, di condanna. furono morti; due frati gesuiti de' meglio rinomati finirono nelle carceri, e si disse per comando del marchese di Pombal, ministro potentissimo di Giuseppe: altro gesuita, Malagrida, accusato nel tribunale del Santo‑Uffizio, dichiarato seduttore, del popolo, perdé la vita sul palco nella città di Lisbona; e tutti dell'ordine in un giorno imbarcati, approdarono a Civitavecchia negli Stati del papa. Fu questo il primo bando a' gesuiti; venne seconda la Francia, perciocché Luigi XV, dopo brighe di corte e allettamenti della Pompadour e decreti de' Parlamenti, scacciò la compagnia nel 1764; e tre anni appresso la sbandì dalle Spagne Carlo III, prescrivendo a' sovrani di Napoli suo figlio e di Parma suo nipote, d'imitare l'esempio.
Nel mezzo della notte, che fu del 3 di novembre del 1767, tutte le case gesuitiche del regno napoletano (monasteri o collegi) furono investite da uffiziali del re e da genti d'arme; gli usci aperti o atterrati, ogni cella sorpresa e custodita; i frati, i serventi, i discepoli adunati in una stanza dell'edifizio; i mobili sequestrati, lasciando ad ogni uomo le sole vesti; e ciò fatto, tutti in truppa scortati al porto o spiaggia più vicina ed imbarcati sopra nave che subito salpò. Né fu permesso il restare a' vecchissimi o agl'infermi; tutti partendo con moti tanto solleciti che, per dire della sola città, i gesuiti navigavano per Terracina e non ancora la prima luce del giorno 4 spuntava.
Quelle sollecitudini e quel rigore vennero dall'esempio di Madrid, o per nascondere al popolo con la sorpresa e le tenebre spettacolo pietoso e inriverente. Gli editti che nel giorno si lessero, dicevano:
«Noi il re, facendo uso della suprema indipendente potestà che riconosciamo immediatamente da Dio, unita dalla sua onnipotenza inseparabilmente alla nostra sovranità, per il governo e regolamento de' nostri sudditi, vogliamo e comandiamo che la compagnia detta di Gesù sia per sempre abolita ed esclusa perpetuamente da' nostri regni delle Sicilie>>.
Seguivano altre ordinanze per accertare il popolo che i beni dei gesuiti, comunque incamerati, anderebbero in opere di pietà e giovamento comune; che i debiti di quei frati, le limosi n‑‑e, i ‑pesi, e opere meritorie, sarebbero mantenuti; che si provvederebbe al mancato servizio delle chiese; e dalle scuole riordinate uscirebbe più vasto e sapiente il pubblico insegnamento.
Non fu noto quante ricchezze incamerasse la finanza, perché il governo pose studio a non palesarle; ma già quei frati, forse intesi e certamente sospettosi di loro sventura, avevano involate molte cose preziose per valore di materia o eccellenza di arte. Le opinioni su la cacciata de' gesuiti furono varie; apportando mestizia a' balordi ed agli ipocriti, contentezza a' sapienti, incuriosità alle moltitudini; ne godevano gli altri frati e cherici per insita malevolenza o invidia alle passate felicità e grandezze de' gesuiti; il ministro Tanucci ne fu allegro; il re indifferente, ma l'animo giovanile si educava alle opere ardimentose verso la Chiesa, e a tener separate nella coscienza l'umiltà cristiana e l'alterezza di re.
Per molti mesi fu dato adempimento alle promesse; e poi che i fatti ebbero mostrata la fedeltà del governo, comparve altro editto, che, ad onore del re, qui trascrivo. «Dalle nostre cure paterne, dopo la giusta e necessaria espulsione da' nostri dominii della compagnia che dicevasi di Gesù (spiegando noi e commutando, con quella sovrana potestà che riconosciamo dirittamente da Dio, la volontà di coloro i quali, nel lasciare i loro beni alla compagnia suddetta, intesero destinarli all'utilità spirituale dei loro concittadini, per mezzo di quelle opere che la medesima professava di fare), sono nate le pubbliche scuole e i collegi gratuiti per educare la gioventù povera nella pietà e nelle lettere; i conservatori per alimentare ed ammaestrare ne' mestieri gli orfani e le orfane della povera plebe; i reclusorii per i poveri invalidi o per i validi vagabondi, che, togliendosi all'ozio ond'erano gravosi e perniciosi allo Stato, si rendono utili con istruirsi delle arti necessarie alla società; il sollievo alle comunità col rilascio delle annue prestazioni che facevano agli espulsi per le scuole; l'aiuto alle genti di campagna con la divisione dei vasti territorii a piccoli censi; il soccorso alle persone oneste e bisognose con le fisse quotidiane limosine; e le tante altre opere pubbliche, fatte o che si van disponendo dopo le prime del culto divino e degli esercizi della religione. Quindi, essendosi co' beni della espulsa compagnia abbondantemente provveduto alla pietà pubblica, e quanto al santuario sapendosi che ormai è tempo di quello avvertimento che fece, inspirato da Dio, Mosé condottiero del popolo ebreo, di non più portare donativi all'arca; perciò noi, rivolgendo lo sguardo al sostentamento delle famiglie de' nostri sudditi ed al riposo loro su i beni che possedono, siamo venuti col presente editto a risolvere e dichiarare caducate tutte le sostituzioni o chiamare a favore degli espulsi gesuiti non ancora avverate; essendo nostra regal volontà che i beni compresi nelle sostituzioni o chiamate restino alla libera disposizione dell'ultimo secolar possessore, dopo il quale sarebbero chiamati i gesuiti. Napoli, 28 luglio 1769 Ferdinando re».
IX. Tra mezzo alle riferite cose corsero per l'Europa lettere del papa, in forma di Breve, contro il duca di Parma, che, ad esempio di altri re, come ho detto innanzi, aveva discacciata la compagnia di Gesù; e perciò Clemente XIII, minacciando anatemi e censure a principe debole e fanciullo, non ne temeva lo sdegno, e sperimentava l'efficacia delle armi sacre per coglier sovrani di maggior potenza. Il Breve, dicendo essere lo Stato di Parma feudo della Chiesa, e contrarii alle ragioni e podestà di lei gli atti avverso la compagnia di Gesù fatti a dispregio degli avvisi, della indulgenza, della mansuetudine del sommo pontefice, conchiudeva: «Siccome è notorio e incontrastabile (per la bolla in coena Domini) che gli autori o partecipanti alla pubblicazione degli atti suddetti sono incorsi nelle censure ecclesiastiche, così i medesimi non potranno ricevere l'assoluzione se non da noi o dai nostri successori».
Reggeva il ducato di Parma, per l'adolescenza del principe, il ministro Guglielmo du Tillot, francese, il quale, nulla mutando alle amministrazioni dello Stato, ebbe ricorso a' re di Spagna, Francia, Napoli e Portogallo contro il papa che avea offeso nel sovrano di Parma tutti i sovrani cattolici. Il re di Portogallo, pronto ed usato ai litigi, riprovò il Breve; il re di Spagna lo confutò riproducendo le querele e le proteste contro alla citata bolla in coena Domini; Luigi re di Francia fece occupare gli Stati di Avignone e '1 Venesino posseduti dal papa. Ed in Napoli la regal camera di santa Chiara è '1 delegato della giuridizione regia, intenti a sostenere le ragioni della sovranità, dimostrando la fallacia delle pretendenze di Roma, pregarono il re, provvedesse ai diritti suoi e dello Stato; e il re, disapprovato il Breve, e vietatolo ne' suoi regni, comandò che gli Stati di Benevento e Pontecorso ritornassero all'antico dominio dei re delle Sicilie. Per lo che nel possesso, facendo da sovrano legittimo e durevole, confermò a que' cittadini, le presenti franchigie, ravvivò le antiche de' passati re, cominciando da Ruggero, e ne promise altre nuove in premio di fedeltà. 1 popoli giurarono al nuovo impero, vogliosi di lasciar l'antico per usata incostanza, e perché a governo sacerdotale, quando anche apporti agiatezza e quiete, sdegna obbedienza l'indole generosa degli uomini. Il pontefice, a quelle viste, pregò la imperatrice Maria Teresa di portar pace con la sua potenza alla religione, alla Chiesa, a' monarchi. Ma colei, simulando modestia e debilità, schivò gli uffici, interdisse ne'suoi Stati d'Italia la Bolla t'n coena Domini, e comandò le copie introdotte bruciarsi. Tante ripulse premevano la insazietà del papato l'anno 1768.
X. Quando il re Ferdinando, giunto ad età virile, trattò matrimonio con Maria Giuseppa arciduchessa d'Austria, figliuola dell'imperatore Francesco I. Stabilite le nozze, cambiati i doni, prefissa la partenza della giovine sposa e preparate le feste del viaggio, ella infermò, e morì; si videro nello impero e nella casa mutate a lutto le vesti e le apparenze dell'allegrezza. Altra principessa, Maria Carolina, sorella della estinta, fu eletta in moglie a Ferdinando, e nello aprile del 1768 si partì di Vienna per Napoli. Ella, onorata nel viaggio da principi d'Italia e vie più in Firenze, dove regnava Pietro Leopoldo suo fratello, giunse il 12 di maggio a Portella, e sotto padiglione magnifico incontrata dallo sposo, ricambiarono gli atti e i segni, di riverenza e di affetto. La reggia di Caserta prima gli accolse, poi passarono a Napoli privatamente il 19 dello stesso mese, e con pompa regale il 22. Le feste e la gioia nella città e nella casa durarono parecchi mesi, inchinandovi per godimento il re, per fasto la regina, per servitù la corte, e per ispettacoli e guadagni la plebe.
Una principessa della casa austriaca, regina del maggiore Stato d'Italia, e moglie di re trascurante, variava la politica del governo, serva sino a quel giorno della mente di Carlo re di Spagna; e tanto più che la giovine donna entrerebbe ne' consigli dello Stato, non per legge o usanza della monarchia, ma per patto fermato ne' capitoli del matrimonio. Il ministro Tanucci, potente per la corte di Madrid, non fu gradito alla regina, ed egli stesso non gradì lei: tardi attristandosi dall'aver prodotta o nutrita la ignoranza del re. La regina, benché non finisse ancora i sedici anni, aveva senno maturo; e poiché bella, ingegnosa, auguratrice di prosperità al regno, attraeva gli sguardi e le speranze de' soggetti. Il fratello di lei Pietro Leopoldo, gran duca di Toscana, l'aveva seguita a Napoli per le nozze, e l'anno appresso vi giunse l'altro fratello Giuseppe, imperatore, i quali, ne' discorsi coi più dotti personaggi del regno, palesavano il proponimento di riformare i loro Stati come volevano secolo e sapienza. Così che a noi tutti la prole di Maria Teresa parve famiglia di filosofi potenti mandati da Dio a ristorare l'umanità.
XI. Morto in. quell'anno 1769 Clemente XIII, ascese al papato frà Lorenzo Ganganelli col nome di Clemente XIV. Il quale ammaestrato da' travagli del predecessore, meglio esperto de' tempi, voglioso di quiete, propose accomodamenti a' sovrani adirati; e questi, per la mansuetudine di lui e i profferti pegni di amicizia, deponendo lo sdegno, accettarono i nunzi, mandarono ambasciatori, restituirono gli occupati dominii. Poscia il pontefice, mantenendo le date promesse, e ripensando che l'appena sopita discordia nacque o fu inasprita da' casi della compagnia di Gesù, cedette alle continuate istanze de' principi, e pubblicò un Breve che ne confermava la cacciata. Il qual Breve era dello stile ingannevole di Roma, quasi mostrando che il pontefice, per evitare il peggio, piegasse alla prepotenza de' principi; ma cotesti principi dissimularono quella pontificale scaltrezza, ora superbi per la potenza, ora paurosi de' preti per coscienza. Godeva di quella pace Clemente, quando occupato da malattia miseramente fini, e gli accidenti del morbo e della morte, o certi presi antidoti, accreditarono la voce ch'ei morisse avvelenato da' frati della compagnia, per vendetta del Breve che toglieva a que' briganti le ragioni e la speranza di risalire alle antiche ricchezze. Se pure bugiarda la voce, non fu maligno il sospetto.
XII. Divenne pontefice Pio VI, già cardinale Braschi; e avvegnaché il re di Napoli aveva per ministri contrastata la elezione di lui, si fecero i due sovrani, dalle contese di Stato e di persona, doppiamente avversi. Vacò l'arcivescovato di Napoli, e'1 re lo provvide, benché a provvederlo pretendesse il pontefice; e comandò al prescelto di sopprimere nelle sue lettere le parole solenni: «Per grazia della Sede apostolica» a fin di evitare il dubbio che la Sede romana avesse partecipato alla scelta. Da tre secoli almeno gli arcivescovi di Napoli ottenevano la porpora cardinalizia, ma al nuovo arcivescovo la negò Pio VI, al quale fece il re scrivere che la ripulsa lo incitava a compiere la già meditata instituzione di un ordine ecclesiastico ne' suoi regni, spettabile per dignità e ricchezze, decorato anch'esso di color di porpora, nel fatto e alle apparenze più magnifico del collegio dei cardinali, soperchianza nella gerarchia. Ma non perciò l'arcivescovo ebbe il cappello, né il re fondò l'ordine. Poco dipoi il re nominò vescovo di Potenza Francesco Serao, dotto autore di molti scritti a pro delle giurisdizioni laicali, e notato giansenista dal pontefice, che rifiutò di sacrarlo; e non consigli, non minacce né preghiere bastarono a muoverlo dal proponimento; insino a tanto che a re scrisse farebbe in ciascuna provincia consecrare i vescovi nuovi da tre degli antichi, sì come prescrivono le sante e prime discipline della Chiesa.
XIII. L'anno 1776 leggero accidente partorì cosa memorabile. Usavano i re di Napoli, come è noto per le nostre istorie, presentare al papa in ogni anno la chinea (cavallo bianco riccamente bardato) e settemila ducati d'oro.
La cerimonia era pomposa, perciocché un ambasciatore, nel 29 di giugno, giorno di san Pietro, offeriva quel dono in nome del re al pontefice, che, negli atrii della basilica vaticana ricevendolo diceva: «essere il censo a lui dovuto per diretto dominio sul regno delle due Sicilie». In quell'anno, mentre il principe Colonna, gran contestabile del regno e ambasciatore del re, cavalcava alla basilica, disputazione di precedenza tra i servi dell'ambasciatore di Spagna e del governatore di Roma produsse nel popolo ivi adunato moti di calca e romori di voci, che subito quietarono. Pure, terminata la cerimonia, l'ambiasciatore riferii le popolari turbolenze al re che, per dispaccio del suo ministro, rispose:
«Le controversie alla occasione della chinea, hanno afflitto l'animo divoto del re, perché, a cagione de' luoghi, del tempo, delle circostanze potevano apportare disgustose conseguenze da turbare la quiete dei due sovrani e de' due Stati. E poiché l'esempio ha dimostrato che un atto di sua mera divozione, qual è il presente della chinea, può essere motivo a scandalo ed a discordie, egli ha deliberato e risoluto che la cerimonia cessi per lo avvenire, e che a quell'atto di sua divozione verso i santi apostoli egli adempisca quando gliene venga desiderio per mezzo del suo agente o ministro. Gli esempi, la ragione, le riflessioni, le cautele, la umanità, la rettitudine, hanno concorso a muovere il regio animo a tale deliberazione, di quell'atto dipendendo unicamente la forma dalla sovrana volontà, e dall'impulso di sua pietà, e della religiosa compiacenza. Questi sensi di figliale venerazione verso il capo supremo della Chiesa sieno comunicati alla corte di Roma. Da Napoli 29 di luglio del 1776».
Il pontefice, dimandata la rivocazione del foglio, e non ottenuta, protestò in contrario. E sebbene da quel giorno fosse cessato il vergognoso tributo, egli nella festa di san Pietro ne faceva lamentanza e protestazione al governo di Napoli. Anni appresso il re privatamente offerse settemila ducati d'oro senza chinea o cerimonia, come dono di principe divoto alla Chiesa; e il papa, rifiutandoli, dichiarò più che mai solennemente le sue ragioni, e la disobbedienza (così la diceva) della corte di Napoli.
XIV. Le buone leggi di Giuseppe e di Leopoldo a pro dei popoli, narrate dalla fama, commendate da' sapienti, lodatissime dalla regina di Napoli, sorella di que' principi, stimolando ‑a certa gloria per fin l'animo, svagato del re, agevolarono al ministro Tanucci e ad altri egregi del tempo l'erto cammino della civiltà. Erano in officio il Palmieri, il Caracciolo, e de Gennaro, e Galliani, ed altri dottissimi che ministri o magistrati diffondevano con l'autorità e l'esempio le dottrine della politica; mentre alle buone riforme preparavano la mente de' reggitori e l'animo de' soggetti, gli scritti del Filangieri, del Pagano, del Galanti, del Conforti, le lezioni (poco innanzi dettate) da Antonio Genovesi, maraviglia d'ingegno e di virtù, dottissimo e povero, e le accademie, le adunanze e per fino il semplice conversare. Perciocché il bene dello Stato essendo allora il tema della sapienza comune, l'aura di società circondava chi meglio ne ragionasse.
Il discacciamento de' gesuiti diede materia e gara ad ordinare la istruzione pubblica; essendo impegno e debito del governo superare il bene che i discacciati erano creduti fare. Ogni comunità salariò i maestri di leggere, di scrivere, d'abbaco. In ogni provincia fu eretto convitto per i nobili, con dodici letture, due sole di argomenti ecclesiastici, dieci di scienze o lettere; altrettante nelle città maggiori del regno; ed altre, ma in minor numero, nelle città più ristrette. Era pubblico l'insegnamento; i professori eletti per pubblico esame. I vescovi, solamente direttori de' seminari sotto l'autorità del re, non avevano nella comune istruzione voce o ingerenza; e quando vi s'impacciavano (confidando nella pietà del principe, o per memoria degli usi antichi, o perché ardimentosi) erano severamente respinti e biasimati. A denunzia di un vescovo che certi maestri non osservavano le regole della fede cattolica, fu risposto, che l'essere solamente cristiano era la condizione richiesta per i maestri delle scuole pubbliche; e chiedendo altro vescovo che alcune cattedre nella diocesi, fondate (contro le bolle pontificie) senza suo permesso, si sopprimessero, il re dichiarò inutile il permesso vescovile, colpevole il domandarlo, e casse per sempre le bolle che si allegavano a sostegno della temeraria dimanda.
L'università degli studii fondata da Federico II, mutata (spesso in peggio) da' re successori, quasi morta nel tempo lunghissimo del viceregno, ravvivata da Carlo, ebbe compimento da Ferdinando che vi raccolse tutto l'intelletto di quel secolo. I professori‑ ottennero maggiori stipendii, migliori speranze; e tolte le cattedre inutili, se ne posero sette nuove che io qui diviserò per mostrare come già il tempo volgeva alle utili instituzioni; erano, di eloquenza italiana, di arte critica nella storia del regno, di agricoltura, di architettura, di geodesia, di storia naturale, di meccanica. L'università ebbe stanza nel convento che fu de' gesuiti, vastissimo, detto il Salvatore; con ivi le accademie di pittura, scultura, architettura, le biblioteche Farnesiana e Palatina, i musei Ercolanese e Farnesiano, un museo di storia naturale, un orto botanico, un lavoratorio chimico, un osservatorio astronomico, un teatro di anatomia; cose tutte o affatto nuove, o dall'antico migliorate. Quella biblioteca e quel museo Farnese erano parte delle ricchezze che il re Carlo portò seco a Napoli, spogliatane la reggia di Parma.
L'accademia delle scienze e delle lettere mutò ordini e migliorò, perciocché abbandonate le ciance o le pompe dei trascorsi tempi, e mirando alle utilità nazionali, fu prescritto che le scienze si applicassero alle arti, a' mestieri, alla medicina, a trovare novelli veri; e le lettere chiarissero le oscurità della storia patria così, da giovare alla sapienza comune, e all'arte del governarsi. Ma è notabile che il presidente dell'accademia era per legge il maggiordomo di corte, e che gli accademici onorari venivano eletti dal. supremo arbitrio del re (sono parole dello statuto) nella sublime nobiltà; tanto era impossibile affrancare qualunque sociale instituzione dell'arbitrio regio e dalla potenza de' nobili. Fu ricomposta l'accademia Ercolanese, principiata da Carlo nel 1755, poi abbandonata; così che di diciasette accademici, quattro soli per ventura di longevità restavano. Parlerò in miglior luogo de' collegi militari pure in quel tempo fondati.
In tante scuole e accademie convenivano, maestri e soci, gli uomini più dotti del regno; altri pari a questi sorgevano; e gli uni e gli altri, venuti a cognizione e riverenza della Italia, illustravano la patria ed il secolo. Qui vorrei registrare gli onorati nomi e le opere, e forse il tempo mi verrebbe meno prima che la materia de' racconti; ma, impedito dalla proposta brevità, ricorderò que' soli che alla storia più importano; tra' nobili, Raimondo di Sangro principe di Sansevero, Francesco Spinelli principe di Scalèa, Paolo Doria principe d'Angri; de' magistrati, il marchese Vargas Macciucca, Giuseppe Aurelio de Gennaro, Pasquale Cirillo, Biagio Troise; degli ecclesiastici, oltre il Galliani e '1 Genovesi, il padre della Torre, uno de' tre fratelli Martini, il padre Càrcani, l'arcivescovo Rossi; e finalmente delle donne, Faustina Pignatelli, Giuseppa Barbapiccola, Eleonora Pimentel, e sopra tutte Mariangiola Ardinghelli. Così le classi per lo innanzi meno pazienti degli studii, allora gelosamente li coltivavano.
Pubblicavansi libri pregiatissimi; de' quali citerò due soli di maggior grido; i Saggi politici di Mario Pagano, e la Scienza della legislazione di Gaetano Filangeri. Per essi, fatta chiara la costituzione sociale, s'intesero le ragioni dei soggetti e del principe, si sperò fine al comandar cieco e alla cieca obbedienza. Lo stile rettorico di quelle opere, comeché sconvenevole alla gravità dell'argomento, piacque e giovò, perché le querele si addicono agli oppressi e speranti; gli autori trassero lodi dall'universale, premii dal governo, così che il Pagano ebbe cattedra nella università degli studii, e il Filangeri alta magistratura nella finanza e pensione di che soccorrere all'onorata povertà della famiglia,
Queste che brevemente ho corse erano le imprese dell'ingegno napoletano per migliorare lo Stato, avanzando nelle buone opere gli altri regni d'Italia. Notiamo cosa vera e dolente; che i primi germi del bene politico, nella età nostra e de' padri, spuntarono dal suolo di Napoli; ma sempre fu visto trasformato il merito in delitto, la buona fama in infamia; e quelle ingiustizie uscire più spesso dagli amici che da' contrarii. Vedremo in giorni non lontani da quelli che descrivo quale fosse degli uomini che ho citati la misera fine, decretata dal governo, applaudita dal popolo. Avvegnaché i buoni concetti e le savie leggi non essendo ingenerate nella mente del re, né sentite dalla moltitudine (l'una e l'altra più basse di quella civiltà), piccolo numero di sapienti le immaginava, numero poco maggiore le aveva in pregio; la plebe se ne sdegnava qual suole delle novità; e dipoi il governo le punì come colpe.
XV. Le altre parti della economia pubblica maneggiava minor senno; Napoli, che aveva preceduto la Toscscana nello affrancarsi dalla Chiesa videsi da Pietro Leopoldo sopravanzata negli statuti dell'amministrazione. Benché lasciato libero alle comunità il modo di amministrarsi, e prescritto il sindacato, punite le infedeltà, ed eletti dal popolo ne' parlamenti di amministratori, i sindacatori, i giudici del conto; non di meno questi benefizi poco profittavano, confusi dalle stesse libertà, e però dall'ingegno vario, e dalle passioni fugaci degli amministratori e de' comuni; altri vivevano a catasto, altri a gabelle, altri a testatico; dove si preferivano le opere civili, e dove di pietà; là prevaleva il poco spendere, qua il troppo; le virtù di un anno parevano vizi l'anno appresso, e i disegni degli uni erano disfatti dagli altri; alla amministrazione mancava uniformità e perseveranza, quindi grandezza e durata. Il re prestò al comune di Pescocostanzo i danari onde ricomprarsi dall'avaro barone Pietro Enrico Piccolòmini, dicendo nella concessione del prestito: «acciò sottraggasi dalla servitù e dal giogo baronale»; ma quell'atto unico, transitorio, era segno non sustanza di prosperità.
Le arti stavano soggette alle fratrìe ed a' consoli; il traffico interno alle annone, alle assise, a' privilegi baronali, ad alcuni resti di franchigie o immunità de' cherici, e soprattutto alla mano continua del governo su le imprese o interessi de' privati. Ritornò libera la coltivazione del tabacco, ma per altre gravezze al vino, al sale, alla carta, a' libri. L'industria della seta, ingrandita nel regno di Carlo, eccitò l'avidità del successore; e messa tra gli arrendamenti del fisco; patì le condizioni della servitù: poco prodotto, estirpazione dei gelsi, decadenza delle fabbriche nazionali di seta e drappi. Pena il capo al barcaiuolo che portasse controbando di sete, e le più leggiere mancanze spesso punite dalla tortura con tratti di corda.
XVI. Altro danno patì la ricca industria dei corali. La Torre del Greco, bella città sulla riva del mare, a' pié del monte Vesuvio, alberga dodicimila abitatori, la più parte marinari o mercatanti, perché le terre, coperte o minacciate dal soprastante vulcano, apportano scarsi e mal sicuri alimenti al bifolco. Alcuni tra marinari, fin dal secolo XVI, andavano alla pesca del corallo nei mari di Corsica e di Sardegna; ma più arrischiandosi nel 1780, bene armati e pronti a guerra, corsero le coste d'Africa, ed occuparono piccolo scoglio deserto e innominato, lontano ventiquattro miglia dall'isola di Gàlita, e quarantatre dalle terre di Barberia: lo chiamarono Summo dal nome del marinaro che primo vi pose il piede; e trovato il lido ricco di coralli, costruirono su lo scoglio frascati, ricoveri e difese. Cosi per due anni; dipoi audacissimi tentando lidi più lontani, pericolosi di guerra e di schiavitù dalle genti africane, pescarono fortunatamente oltre capo Negro, capo Rosa e capo di Bona. Per le quali prosperità montò l'industria tanto, che andavano ogni anno seicento barche grandi ed alte da resistere a tempeste con più di quattromila marinari, salpando nell'aprile e ritornando prima che invernasse. La città perciò arricchita ergeva superbi edifizi, non curando i pericoli dei vicino monte, e (riferisco portenti che ho veduti) s'ella per tremuoti cadeva, o coperta di lava scompariva, fabbricavano in meno di un anno altra città più ornata e bella, su l'aia istessa per amore del suolo e religione della casa.
Furono tanti e sì grandi e nuovi gl'interessi generati dalla pesca del corallo, che non bastava il codice universale a regolarne i modi e la giustizia: formavano per occasione piccole congreghe o le scioglievano, mossi da privato benefizio: ché il pensiero di comun bene mancava a quelle genti, e spesso vedèvi l'un pescatore arricchire della povertà del vicino. Le quali deformità in negozii di sì gran momento diedero motivo a comporre società più vasta, ma volontaria, che, scema di pubblica forza, non bastò al bisogno; e allora il governo vi pose mano, e per leggi e ordinamenti, chiamando compagnia la società, regolò la partenza, il ritorno, la pesca, la vendita del corallo, i magistrati, i custodi, il foro, i giudizi; tante leggi dettò, che al libro di esse diede il nome di Codice Corallino. Ebbe le compagnia bandiera propria; sopra scudo azzurro una torre tra due rami di corallo, e in cima tre gigli d'oro. Quando la società fu libera, benché tra querele e ingiustizie, prosperava: e quando, ridotta in compagnia, ebbe codice, finite le ingiustizie e le querele, decadde la ricchezza: la società era spinta da instancabile zelo di privato guadagno; la compagnia movea lentamente per guadagno comune. Oggi dura la pesca del corallo, ma sfortunata.
XVII Buona legge prescrisse che le terre incolte ridotte a campo non pagassero tributo prediale per venti anni, piantate ad ulivi per quaranta. Per altre leggi si popolarono le isole deserte di Ustica e Ventotene, poi di Tremiti e Lampadusa. A' coloni delle due prime, presi tra i poveri di famiglie oneste, fu concesso terre, vitto per certo tempo, ed istrumenti di agricoltura e di pesca. Prosperarono. Furono coloni delle altre, ladri e vagabondi del regno, a giudizio precipitato di magistrati eletti dal re; e quelle perivano: il governo vi spediva nuovi coloni e troppi, che, per crescer numero, peggioravano di costumi e di arti. Quelle istesse sollecitudini per la quiete pubblica diedero motivo a dividere la città in dodici rioni, e in ognuno stabilir magistrato vigilatore, che per giudizi abbreviati condannasse alla prigionia, e più spesso al confino su le isole di pena. Colpivano quegli arbitrii gente di plebe e disonesta; il regno si sgravò di molti tristi; la città migliorata ne godeva; ma poco appresso, per sospetti di maestà e per le usate licenze di sfrenato potere mandati alle isole cittadini non giudicati né rei, solo spiacenti al dispotismo, tornò dogliosa e atterrita la città e il regno.
Un camposanto fu murato nel luogo prima detto Pichiopi, poi Santa Maria del Pianto; di tante fosse quanti sono i giorni dell'anno. Vi erano trapassati i corpi della povera gente, perciocché i ceti maggiori, vergognandosi di quel luogo, interravano i loro morti nelle chiese della città. L'architetto cavalier Fuga diede il disegno del cimitero, che per danari provveduti dalla pietà fu compiuto in un anno.
Utilissima delle istituzioni fu il regio archivio; di che il primo Ferdinando di Aragona, sin dal 1477, ebbe il pensiero; l'ebbero Carlo V nel 1533, Filippo III nel 1609; ma la incostanza de' principi o le contrarietà di fortuna impedirono l'effetto sino a Ferdinando Borbone, che nel 1786 compié l'opera. E comandato che gli atti generanti azione ipotecaria serbassero nell'archivio memoria e registro, resa chiara la proprietà, certa la ipoteca, pronta la vendita de' beni ascritti, assicurò i creditori, costrinse i debitori a rispondere del promesso pagamento. Il sistema ipotecario, meritamente lodato nel codice Napoleone, era in gran parte raffigurato, trent'anni prima, nell'archivio regio di Ferdinando; questo invero fu meno vasto, poco precettivo, niente avaro; il francese, ampio, forzante, fiscale. L'archivio manifestava il patrimonio di ogni casa, impediva le frodi, scemava i litigi; perciò gli si opponevano i curiali, potenti già, come ho riferito nel regno di Carlo, più potenti al tempo del quale scrivo. E questi, o ministri del re, o magistrati, o capi ed uffiziali dello stesso archivio, turbavano l'effetto della provvida legge, comunque dalle cure incessanti del governo mantenuta. E così toglievano gran bene alla società, tornando i debiti e le ragioni all'antico scompiglio.
XVIII. E dirò p'iù gravi errori della finanza. Regnante Carlo, i denari della Spagna, i guadagni della conquista, poi la pace e sempre la parsimonia de' reggitori e la contentezza de' popoli francati dalla dogliosa servitù di provincia, ristoravano o nascondevano la scarsezza dell'erario. Il concordato con Roma del 1741 fruttò qualche tributo da' beni ecclesiastici; e '1 catasto negli anni appresso fece palesi e sottopose al fisco assai terre, per innanzi franche, perché tenute feudali o della Chiesa; ricchezze di Carlo, consumate dal nuovo regno. Tre fonti sorgevano nell'erario; i donativi, le taglie dirette, le indirette. I donativi abusati nelle età scorse, perché più adatti alla brevità del comando, furono rari sotto Carlo, e due soli nel regnare di Ferdinando.
Le taglie dirette, poste per comunità, si pagavano per fuochi (dicevasi fuoco la famiglia), parecchie comunità, feudi originari o presenti della Chiesa, ed altre assai favorite dalle concessioni dei passati dominatori, godevano franchigia piena o parziale da' pesi comuni. La partizione tra le comunità paganti non misuravasi dalla estensione o fertilità della terra, dalle arti o dalla industria de' cittadini, dalle felicità del commercio, e, per dirla con la parola moderna, dalla proporzione de' valori; ma seguiva certa norma di popolazione più supposta che numerata nel 1737. Per i quali errori spesso vedevi di due città confinanti, l'una ricca di terre, piena di arti, copiosa di fortune; l'altra povera d'ogni cosa, pagar la seconda più della prima.
Non erano meno fallaci i mezzi di esigere, chiamati di capitazione, di arti‑febbrili, di possessi. Da' due primi andavano esenti gli ecclesiastici, i baroni, coloro che nobilmente vivevano, i dottori, i medici, i notai, e tutti gli altri senza mestiero, dicendosi che accrescevano la classe ragguardevole de' nobili: perciò que' tributi solam ente premevano la testa e le braccia, ossia la vita e la fatica de' poveri. In quanto a' possedimenti, restando franche (dove in tutto, dove in parte) le terre feudali, quelle del re o del fisco, le ecclesiastiche, i patrimoni de' cherici, i beni de' seminari, delle parrocchie," degli ospedali, sostenevano pochi sfortunati possessi tutto il peso delle taglie dirette, le quali montavano a due milioni ottocentodiciannovemila e cinquecento ducati all'anno, accresciuti di altri duecento nonantamila ducati, sotto colore di aprir nuove strade.
Erano taglie indirette tutte quelle che il sottile ingegno pubblicano seppe inventare in ogni età, sopra ogni popolo a pro del fisco: le arti, le industrie, le consumazioni per il vivere, i godimenti, i vizi, le meretrici, il giuoco, profittavano alla finanza. Si chiamavano, come ho detto, dallo spagnuolo, arrendamenti; e furono la più parte venduti o impegnati per novelli debiti, o dati a sicurtà degli antichi; ed allora curavano la esazione i compratori o creditori, che mdesimamente punivano le contravvenzioni che severe prammatiche del fisco. Esercitata perciò la vigilanza con lo zelo dell'avarizia privata, e con la potenza della forza pubblica, l'arrendamento fruttava al compratore il doppio che all'erario, e costava triplicato ai tributari.
Il re abolì parecchi arrendamenti, quello detto del minuto, l'altro del capitano della grascia, e sul tabacco, la manna, l'acquavite, il zafferano, i pedaggi, e, in certe provincie, la seta; ma per non privare l'erario di quell'entrare, né mancare agli obblighi fermati con gli acquirenti, furono messe nuove taglie, altre accresciute, meno gravi al popolo, meglio profittevoli alla finanza. Questo è il luogo di riferire fatto memorabile per documento del tempo. Visto il danno che gli arrendamenti portavano allo Stato, voleva il governo ricomparne alcuno, e poiché gli assegnatari (era il nome dei possessori) nol consentivano, il re decretò che i tribunali ne giudicassero con forme uguali e libere. Si trattava se il fisco potesse riscattare a condizioni giuste gli arredamenti trasferiti ad altrui dominio; e così muovere o migliorare, secondo i bisogni dello Stato, la finanza pubblica. Era tra' giudici Ferdinando d'Ambrosio, per fama scaltro ed avaro, il quale nell'atto della sentenza, udendo i giudici compagni sostenere le ragioni del fisco, pregò silenzio, e tirato da' sviluppi della toga grosso crocifisso, in positura e con voce da missionario, disse: «Ricordatevi, o signori, che dobbiamo morire, che solamente l'anima è immortale, che questo Iddio (indicando la croce) vorrà punirci dell'avere anteposto alla giustizia l'ambizione. In quanto a me, io proferisco per. gli assegnatori». Ma il voto non fu seguito perché ingiusto, e sapevasi che un congiunto del divoto oratore stava nelle parti contrarie al fisco; così l'arrendamento del sale fu ricomprato. E, pure l'azienda pubblica, disordinata, come ho detto, traeva in ogni anno quattordici milioni e quattrocentomila ducati, e di tanta somma la baronia, benché possedesse più che metà delle terre del regno, ne pagava solamente duecento sessantottomi.la.
XIX. Imperciocché la feudalità poco depressa nel regno di Carlo, acquistava tutto di maggiori dovizie sotto Ferdinando per opera de' curiali, i quali, intendendo a scemare le giurisdizioni feudali per ammontarle alla curia, e ad accrescere le ricchezze de' feudatari per esserne a parte, trovavano potenti aiuti, quando dal governo, inteso pur esso a spegnere il mero e misto imperio, e quando dal re, che per abitudini, affetti ed istinto regio, favoriva i baroni. Perciò si leggono di quel rempo molte prammatiche o dispacci repressivi della giurisdizione baronale; e, a costo ad essi, altri ne mantengono le franchigie e scemano le taglie; così che per Adoa e Rilevio (sono i loro nomi) pagavano i baroni più gravati il sette per cento di rendita, mentre i cittadini più favoriti il venti, la comune il trenta, altri il quaranta o il cinquanta, e alcuni miserrimi il sessanta; si vedevano sostenute le decime feudali, le angarie, tutta la congerie degli abusi che dicevano diritti. Di modo che i paesi feudali si palesavano al primo vederli per la povertà delle case, lo squallore degli abitanti, la scarsità de' comodi e delle bellezze cittadine: ivi mancavano tutti i segni della civiltà, casa di pubblici negozii, foro, teatro; ed abbandonavano le note della tirannide e della servitù, castelli, carceri massicce, monasteri e case vescovili sterminate, altri pochi palagi vasti e fortificati tra numero infinito di tuguri e di capanne. Lo storico meritissimo Giuseppe Maria Galanti temeva dir cosa non credibile che nel feudo San Gennaro di Palma, distante quindici sole miglia (cinque leghe) da Napoli, visitato da lui nel 1789, abitassero in case i soli ministri del barone, e che il popolo, duemila uomini, si riparasse come bestie dalla incelemenza delle stagioni sotto graticci o pagliaie, e nelle grotte. Tal era la condizione dei feudi: e frattanto in un reame che numera duemila settecento sessantacinque città, terre, o luoghi abitati, soli cinquanta nel 1734, e non più di duecento nel 1789, non erano feudali. Ventura che i feudatari, inciviliti dal secolo, vergognavano delle peggiori pratiche di padronaggio.
XX. Le riferite leggi su l'economia dello Stato furono le sole in trent'anni degne di memoria. L'amministrazione e la finanza durarono, come a' tempi di Carlo, rozze o servili; non giovando a noi gli esempi di altri regni e della vicina Toscana, patria del Tanucci, dove Pietro Leopoldo promulgava l'affrancazione de' possessi, la divisione delle terre, lo scioglimento della servitù prediali, e (sua vera gloria) la libertà del commercio. Meglio in Napoli fu provvisto a' giudizi ed a' magistrati, parte di governo che appelliamo giustizia. Ristretta per nuovi provvedimenti la giurisdizione de' baroni e '1 numero degli armigeri baronali, cresceva di altrettanto la potestà regia e comune; ma con essa l'autorità della curia, ormai sfrontatamente disonesta e pericolosa. Parecchie ordinanze intesero a frenare que' vizi, soggettando i curiali a studii, ad esami, a discipline; moderandone l'avidità per tariffe, li malvagità per minacce; svegognandoli de' nomi di cavillosi, ignoranti, scostumati. Ma non ostante valevano gli usi antichi, e la curia ingrandiva d'uomini d'ogni specie, anche di plebe, togati.
Furono i matrimoni spientemente regolati da nuove leggi, le quali afforzando l'autorità paterna, vietando le querele di stupro per seduzione, invalidando le promesse e i giuramenti innanzi al sacerdote o all'altare, svanivano le insidie delle donne, le fughe degli sposi, i parentadi ineguali, con vantaggio de' costumi e della quiete delle famiglie.
Statuto di maggior grido regolò i giudizi. Da che tra noi le magistrature sederono prime o più possenti tra gli ordini dello Stato, elle, sdegnando il dire comune e semplice de' ragionamenti, presero lo stile dell'autorità e del comando; la quale superbia velando la ignoranza di alcuni giudici, l'abitrio degli altri, grata quindi a tutti, fece che le sentenze altro non fossero che intimate dichiarazioni di volontà e d'imperio. E poiché ad uomini avviliti nella servitù più costa il pensiero che l'obbedienza, il popolo restò cheto sino a quando dal miglior governo de' due Borboni e dall'avanzato universale ingegno dirozzate le menti, mal soffriva que' giudizi; dicendo che mascheravano con la brevità del comando le ingiustizie, la venalità, le ambizioni de' giudici. Nuova legge venne a quietare le sollecitudini del popolo: prescrivendo a' magistrati, ragionassero le sentenze, dimandassero al re nuova legge se mancava nei codici, o il vero senso di alcun'altra, se dubbio. E allora i magistrati del regno ammutinarono, dicendo offesa la dignità, la indipendenza dei giudici: opporsi, disobbedire, rassegnare gli officii, furono i primi tumultuosi consigli; ma dipoi, sperando che i richiami e le brighe bastassero a rivocare la ingrata legge, riserbando per la estremità de' casi gli estremi partiti, attesero a far chiare le loro ragioni. L'immenso numero de' curiali, per ignoranza o adulazione o amore alle discordie, accompagnava e accresceva il grido de' giudici.
Il supremo consiglio, primo de' magistrati, era ordinato in quattro sezioni chiamate Ruote; e quando mai, per gravezza o dubbietà di alcuna lite, tutte in una si raccoglievano, tanta sapienza era creduta in quel consesso che i suoi giudizi avevano forza di legge. E nel caso presente il consiglio, nelle quattro ruote congregato, espose al principe gli errori e i danni dei nuovo statuto, con audace ragionamento; e pubblicò lo scritto. Gli uomini più dotti sostenevano la sapienza del decreto; ed allora Gaetano Filangeri, della età che non compiva ventidue anni, venne la prima volta al cospetto dei pubblico per un'opera che intitolò: Riflessioni politiche su la legge del 23 di settembre del 1774, e dimostrò che la libertà dei cittadini e la sovranità dell'imperio consistendo nella piena esecuzione delle leggi, l'arbitrio dei magistrati era tirannide sopra il popolo, ribellione al sovrano: piacque lo scritto e presagì la futura gloria del giovine. Il re con editto rispondendo al consiglio dichiarò: essere decoro del magistrato la certezza della giustizia, e, non, come pretenderebbe il supremo consiglio, il velo degli oracoli; spettare alla sovranità far nuove leggi, o chiarire i sensi oscuri delle antiche; spettare a' giudici eseguirle; i responsi de' dottori e gli articoli de' commentatori essere studii a' giudici, non leggi, stando le leggi nelle prammatiche.
Quindi l'editto rigettava le eccezioni proposte, biasimava i ritardi all'adempimento del decreto, e chiudeva il dire come appresso: «Il re perdona nella umana fragilità e nelle assuefazioni del supremo consiglio i sofismi escogitati ed esposti nel suo foglio; spera che la obbedienza dei magistrati prevenga e disarmi la giustizia indivisibile dalla sovranità». Per lo stile minaccevole dell'editto la curia chetò, e i curiali impauriti si dissero persuasi; nessuno de' magistrati rassegnò l'uffizio; nessun partito estremo, che nella sconfitta onora l'umana dignità, fu praticato. E così da quel giorno, dimostrate le sentenze, la comune ragione migliorò.
XXI. Antica prammatica de' principi aragonesi aveva stabilito nel regno il sindacato per gli amministratori del denaro pubblico e pe' magistrati; erano sindacatori nella città capitale gli Eletti delle piazze; nelle altre città e terre i cittadini scelti dal popolo in parlamento: durava per ogni anno il cimento quaranta giorni, venti a ricevere, venti a discutere le accuse, nel qual tempo l'uffiziale messo ad esperimento restava privo d'impiego e di autorità; a ciascuno, fin della plebe, era concesso accusarlo di fatta ingiustizia o di giustizia negata; se andava immune, lettere patenti commendavano la sua virtù, e se in contrario, aprivasi giudizio a suo danno. I re che succederono agli aragonesi, trasandarono quegli ordinamenti, che poi Carlo Borbone richiamò, Ferdinando accrebbe, ma senza pro, giacché le altre parti di governo ed i costumi universali non toccavano a quell'altezza; spesso il timore della vicina rinascente autorità chiudeva il labbro degli offesi da giudici disonesti, e spesso privata vendetta dava travagli al giusto giudice sol perché fu punitore di alcun prepotente. La buona legge produceva frutti non buoni, come libertà che sta sola in mezzo a moltiplici servitù.
XXII. Le cose di giustizia fin qui descritte sono degne di lode; dirò le contrarie. Duravano, come a tempi di Carlo, i giudizi criminali; e però lo stesso processo inquisitorio, gli stessi scrivani inquisitori, tortura e supplizi agli accusati; il criterio de' giudici arbitario; e le sospensioni contro loro, innanzi ammesse, oggi da nuova legge rivocate. Mantenuto il giudizio del truglio, anzi fatto più frequente, e peggiorato, perché non interrogata la volontà del condannato, né il suo consentimento necessario. Legge barbara puniva i ladri, detti saccolari dal rubar nelle tasche, con la tortura, per prove benché indiziarie, con processo inquisitorio ancorché non compiuto, e non inteso l'accusato, né difeso: riferisco le parole della prammatica. Legge più superba prescrisse il rispetto alla reggia; così appellando tutte le case del re, le ville, le abitazioni di campagna o di caccia, gli atrii, le corti, le officine de' suddetti edifizi, comunque dal re non abitati: chi brandisse un'arma in que' ‑luoghi, pena la morte. Altra legge punì i Franco‑massoni, chiamati così all'editto, agguagliandoli a' rei di maestà giudicabili dal tribunale di Stato con forma ad modum belli; e la pena, benché non espressa, era, per la qualità del definito delitto, la morte. Poco appresso nuova legge agguagliò a' Franco‑massoni altre secrete adunanze, pericolose (dicevasi) alla quiete dello Stato, all'autorità del sovrano; cominciarono i sospetti di regno. Leggere i libri del Voltaire portava a pena di galera per tre anni, e leggere la gazzetta di Firenze a sei mesi di carcere. 1 tratti di corda, più rari come sperimenti di procedura, si frequentavano come pene.
Composto novello magistrato col nome d'Udienza Generale di Guerra e Casa Reale per giudicare le liti criminali e civili de' militari e di altri favoriti del privilegio del foro, divenne più estesa, piena e continua la giurisdizione militare. Un generale dell'esercito era il capo, quattro magistrati erano i giudici; le forme brevi, le sentenze inappellabili. E dalle persone passando a' luoghi, altra prammatica stabili che le colpe o le civili controversie degli abitatori di certe case, o in certe strade della città, fossero trattate presso l'Udienza Generale di Guerra. Lo spazio privilegiato nella sola Napoli era un buon vigesirno della città, e gli abitatori non meno di trentamila. L'esempio spandendosi nel regno, qualunque fortezza, o castello, o edifizio militare aveva intorno a sé terreno e cittadini liberi dalla giurisdizione comune. Più crebbe la intemperanza, prescrivendo che nessun tribunale potesse giudicare i misfatti e i civili negozii degli uffiziali delle segreterie di Stato, perché il re, secondo i casi, provvederebbe. La qual dispotica legge fu proposta dal marchese Tanucci, a giovamento di un uffiziale del suo ministero in causa civile.
Per tanti errori di governo crescevano di numero e di gravezza i delitti. Un bando del re contro‑ i malfattori, diceva: «Sono continui i furti di strada e di campagna, i ricatti (persone cadute in preda degli assassini), le rapine, le scelleratezze; è perduta la sicurezza del traffico; sono impedite le raccolte». Quindi comandava a' magistrati ed alle milizie di arrestare o spegnere i turbatori della quiete pubblica; e consigliava ai mercatanti e ai viaggiatori (avvisandosi che il bando non bastasse) di andare a carovana ed armati. Spedi nelle province un brigadiere di esercito, Selaylos, con genti d'armi ed assoluto imperio per la distruzione de' malfattori: e intanto invitandoli a tornare obbedienti, ‑prometteva de' passati misfatti dimenticanza e perdono: blandizie non agguerrite da pietà, e non accettate per ravvedimento, ma la necessità le persuadeva al governo ed a' malfattori, come tregue domestiche e passeggiere. Concorrevano a peggiorare i costumi le remissioni di colpa e pena alle occasioni delle felicità della reggia, matrimoni, natali; tanto frequenti che se ne contano diciannove nei trent'anni di questo libro: cosicché il popolo quasi aggiravasi in cerchio perpetuo di delitti, di barbare pene, d'impunità e delitti peggiori.
XXIII. Ma buoni furono i provvedimenti per il commercio; e dopo che Ferdinando ebbe aggiunti nuovi statuti agli statuti del padre, comandò che disposti a libro componessero il codice di commercio. La qual opera, compiuta per fatica di Michele Iorio, ed in quattro volumi pubblicata, non autenticata dal re, e negletta poco appresso per domestiche agitazioni e per la guerra, si tenne a documento di buon volere, o come studio e regola nelle cause commerciali. Fu istituito il tribunale dell'ammiragliato, speciale a decidere le cause commerciali e le civili degli addetti alla mercatura ed al mare, sotto l'autorità del magistrato supremo di commercio eretto da Carlo. Furono rammentate le pene contro i fallimenti dolosi, tanto inacerbite , che leggo nelle prammatiche, raccapricciando, la mutilazione di membra.
Un duca di famiglia nobilissima e tra i primi nella corte, debitore per polizza di cambio, schivando il pagamento e le punizioni sotto l'ombra del nome, accusato al re, fu sottoposto alle discipline comuni: il re, dicendo, che non altezza di grado, né chiarezza di natali, né autorità di magistratura basterebbe ad assicurare il debitore quando fosse obbligato per lettere cambiali. Altra legge instituì la Borsa di commercio, e provide che i cambii con le nazioni oltre mari ed oltre monti si facessero direttamente, e non più come innanzi per le città mezzane di Roma, Livorno e Venezia. Dopo le regole date al commercio, A re confermò gli antichi trattati di navigazione con altre genti, e novelli ne strinse; l. con la reggenza di Tripoli nell'agosto del 1785, a condizioni eguali per i negozii, ma più onorevoli al re per dignità e potenza; essendo serbata da' cieli ad età più misera per la napoletana monarchia fin la vergogna di restar vinta da' Tripolini. 2. Con la Sardegna nel giugno del 1786. 5. Con la repubblica di Genova nell'anno e mese istesso. 4. Con la Russia nel maggio del 1787; concordando, non solamente quanto al commercio, ma (per casi di guerra) ne' doveri scambievoli di neutralità, secondo il giure delle nazioni.
XXIV. In ogni parte dell'amministrazione vedevi statuti buoni appresso ai contrari, ed i primi superare i secondi; la sola milizia, per naturale decadimento delle cose che si abbandonano' da peggio in peggio discendeva; la guerra obliata, da che l'ultima fu del 1744; la pace gustata e naturata; il cielo di Napoli benigno e lascivo; il terreno ubertoso, gli uomini come il clima; il re dedito a' piaceri; i suoi ministri desiderosi di successi civili e di comodi; la curia nemica degli ordini militari; la regina istessa cupida di fama e d'impero, ma trascurante di milizie, perché allora inutili alle ambizioni di regno; i reggimenti formati da Carlo già infraliti da vecchiezza; i muri delle fortezze sdruciti; vuoti gli arsenali; la scienza, le arti, gli ordini, gli usi della milizia si obliarono.
Il re, quando era fanciullo, compose un battaglione che appellò de' Liparotti; e insieme si esercitavano per giovanile diletto al maneggio dell'armi. Quindi fondò il collegio militare dei cadetti per ordinanze compilate da uffiziali né dotti né esperti della guerra. E poi coscrisse quattordici migliaia di militi civili nel solo regno di Napoli, delle classi più abbiette della società, bastando dire che la baronia, la nobiltà, il dottorato, il possedimento di beni stabili, l'esercizio delle professioni o delle arti esentavano da' ruoli; vi entravano gl'infimi cittadini; e meritamente, da che la milizia era lo stato più basso della nazione. Spesso i rei, e di misfatti più infami, si condannavano al militare servizio; e più spesso mutavano in soldati i galeotti e i prigioni. Tale era lo stato militare nell'anno 1780, quando, per avvenimenti che tra poco dirò, fu levato un esercito.
XXV. La regina, sgravatasi di un principe, pretese l'ingresso e il voto ne' consigli dello Stato, come stabilivano i capitoli delle sue nozze. E re non faceva contrasto al desiderio, ma il ministro Tanucci, che temeva l'ingegno, l'alterigia e '1 casato di lei, si opponeva con segreti maneggi e quindi arditamente alla scoperta; ella, rimasta vincitrice, discacciò il ministro. Re sbandito dal regno non è della perdita querulo e doloroso quanto fu il Tanucci poi che lasciò la sedia ministeriale; l'abbandono de' creduti amici, la irreverenza de' sottoposti, le sale deserte, la mutata scena del caduto potere, antichi vizi, comparivano al Tanucci maravigliosi effetti di corruttela presente; cosi che, per fuggire l'odiosa vista degli uomini, si riparò alla campagna, dove fini la vita. Ministro del re in Napoli l'anno 1734, licenziato dall'ufficio ,l'anno 1777, governò lo Stato con potenza di principe 43 anni, morì l'anno 1783 senza figliuoli: e lasciò vecchia consorte, quasi povertà, e buona fama.
La caduta del Tanucci afforzò nelle opinioni de' sudditi e ne' consigli dello Stato la potenza della regina: la quale, nella valida età di 25 anni, avventurosa di molti figli, bella, superba per natura e per grandezza di sua casa, poté di facile assoggettare il marito, solamente inteso a' corporali diletti. Mutò le relazioni straniere, rompendo i legami con la Spagna, ed inchinando più all'Inghilterra che alla Francia. Per opera di lei fu ministro in luogo del Tanucci il marchese della Sambuca, ambasciatore gradito alla corte dii Vienna. 19 quale venuto in Napoli secondo le voglie di lei, onorevoli; perché, ad esempio dei fratelli bramando ancor essa il plauso de' sapienti, attendeva a riformare in meglio il reame. Divenuta così la speranza de' grandi, degli ambiziosi, degli onesti, del popolo, sentì la sua possanza e ne fu lieta.
La politica nuova faceva il regnante più libero e più altiero; ma più all'ombra di re stranieri e potenti, bisognava ch'ei provvedesse alle proprie sorti: reame invidiato e ricco, scemo qual era di esercito e di armata, rimaneva esposto ai pericoli della prima guerra; estese marine non avevano difesa, e ormai vasto commercio riposava su la fede cangiante dei trattati e le fallaci promesse de' Barbareschi. Bisognavano vascelli e milizia, ma non trovando fra i soggetti chi sapesse abbastanza di cose militari, piaceva cercare tra gli Austriaci un generale di esercito, e altrove un ammiraglio che non fosse Spagnuolo né Francese. Tali cose agitavano ne' privati circoli della regina uomini alti di autorità e d'ingegno; ammessi, chi per afforzare il segreto voto di lei nel consiglio del re o proporlo come fosse loro proprio, e chi per dar corso e credito agli editti ed alle opere del governo. In uno dei circoli il principe di Caramanico, grato e forse caro alla regina, propose di chiamare ammiraglio del navilio napoletano il cavaliere Giovanni Acton, nato inglese, agli stipendii, in quel tempo, della Toscana, ornato di fresca gloria nell'impresa di Algeri, con fama di esperto in arti marinaresche e guerriere, imprendente, operoso. Il marchese della Sambuca secondò la proposta perché, assetato di ricchezza e di subiti guadagni, già dechinando dal favore dei due sovrani, adulava le opinioni de' potenti. E perciò, non contrastato il parere del Caramanico, ed acconsentito dalla regina e poco appresso dal re, fu mandato a Firenze il cavaliere Gatti per avere al nuovo ammiraglio licenza del granduca Leopoldo. Così Acton, venuto in Napoli del 1779, bene accolto dalla regina, svagatamente dal re, lodato dai grandi, fu direttore del ministero di marina.
La finanza dello Stato decadeva per quel che innanzi ho detto; e perché, accresciute le spese nella reggia, non bastavano le gravezze antiche, e sembravano le nuove, oltraché sconvenienti a tempi di pace, insopportabili dai popoli. Il marchese Caràcciolo ambasciatore in Francia, avea riputazione di dottrina nelle materie di economia; e perciò, chiamato al ministero in luogo del Sambuca, fu creduto che ristorerebbe l'azienda pubblica senza la increscevole minorazione delle spese che pure ne' consigli di Stato timidamente si proferiva; e per quella fidanza duravano lo spendere del re, le prodigalità della regina, il lusso della casa, le difficoltà dell'erario. Il marchese Caràcciolo, dotto e filosofo dei tempi suoi, ma per troppa età indebolito d'animo e di mente, vide gli errori dell'amministrazione, senti che a lui mancavano i giorni e le forze a correggerli; il favore del Caramanico, la nascente podestà dell'Acton non concitavano in lui né gelosie né disdegno; già scorsa l'età delle passioni, egli volea godere nel riposo gli onori passati e i comodi presenti. La debilità del ministro, appigliata come avviene in dispotiche signorie a tutte le membra dello Stato, agevolò le speranze dell'Acton.
XXVI. La corte di Roma quando vide Napoli governato da ministro debole alle contese, propose novello concordato; ed accettata l'offerta, inviò per le sue parti monsignor Caleppi a riferire pretensioni ardite e sterminate; ma pure si concordarono ventidue punti, rimanendo controversia su la nunziatura e per la elezione dei vescovi. Voleva il papa che avessero i nunzi giurisdizione, uomini armati, carceri; e in quanto a' prelati, che, proposti dal re, fossero da Roma riconosciuti degni ed accettabili per giudizio o almeno in coscienza del pontefice; formule tra le usate, con le quali era stata per secoli esercitata la tirannide pontificale; perciò non accette. E tirando a lungo e a fastidio le contese, rotto il congresso, fu il Caleppi, nunzio e negoziatore, discacciato dal regno. L'ultima gloria del* ministro Tanucci era stata l'abolizione della Chinea; l'ultima del Caràcciolo fu la descritta resistenza alla corte di Roma; quelle erano le libertà, l'ardire, il talento del tempo. Mentre duravano le discordie, si andava rammentando ad onore del ministro ch'egli da viceré in Sicilia sbandi il Santo‑Uffizio, ed applaudi al popolo palermitano, che, impedito a distruggere il palazzo della inquisizione, ruppe in pezzi e disperse la statua di marmo di san Domenico, bruciò gli archivi, ed atterrando le porte delle carceri condusse liberi e trionfanti gl'infelici che vi stavano chiusi. Ne' quali tumulti furono visti audacissimi ed implacabili i più anziani, canuti e curvi sotto il peso degli anni, ma che, ricordando l'Atto‑di‑fede del 1724, raccontavano ai giovani, per più accenderli, le sventure di Geltrude e di frà Romualdo, riferite nel primo libro di queste istorie. Così laudato dal mondo il ministro Caràcciolo pieno d'anni Mori.
La fortuna agevolava le ambizioni al cavalier Acton, il quale, vivente il Caràcciolo, fu ministro per la marina; e piacendo alla regina, e secondando il genio del tempo e del governo, facevasi ammirare dalla corte. FU, indi a poco, ministro per la guerra; e, morto il Caràcciolo, ebbe carico degli affari esteriori. Scaltro per natura e pratico degli affetti umani, temeva il favore non appieno caduto del Caramanico, e la vicinanza nella reggia, le abitudini, le memorie; ma ottenne che il rivale fusse mandato ambasciatore a Londra, indi a Parigi, e infine viceré nella Sicilia. Pur sospettava il giudizio del Pubblico e a farselo benigno lusingava i migliori del regno: mostravasi avverso alla feudalità; dileggiava gli ozii dei nobili; introdusse le scuole normali e le diffuse, soccorreva il commercio ristaurando i porti di Miseno, Brindisi e Baia; disegnando molte strade regie o provinciali; pubblicando per bandi la tolleranza religiosa in Brindisi e Messina.. La condizione di straniero non gli toglieva rispetto dai Napoletani, troppo usati a quella pazienza; e la scarsezza di personaggi adatti o ambiziosi di ministeri lo scampava da nemicizie gravi e da intoppi. Egli, schivando per sé la cura pericolosa del denaro pubblico, ma sospettando che alcun ministro, ingrandito dalla grandezza dei bisogni, potesse vincerlo in potenza e in favore, fece abolire il ministero per la finanza, e affidarne il carico ad un consiglio; perché spartendo sopra tredici consiglieri il merito e le lodi del successo, nessun uomo salirebbe in fama. Gli altri carichi di governo, la giustizia, il sacro culto, le amministrazioni erano affidati ad uomini della curia, Carlo da Marco, Ferdinando Corradini, Saverio Simonetti, appellati ministri, ma invero soggetti al cavaliere Acton, il quale, per uffizio, per favore; per servitù degli altri, era nelle opinioni e nel fatto ministro primo e solo, potente quanto re; ma più venerato e temuto dei re Ferdinando, che spensierato imbestiava nei grossi diletti della vita.
Il cavaliere Acton, nominato maresciallo di campo prese da quel giorno titolo di generale, e lo serbò sino a morte; poi tenente‑ generale, capitangenerale; decorato di tutti gli ordini cavallereschi del regno e di parecchi stranieri, elevato al grado di lord per servigi resi da ministro di Napoli alla Inghilterra, fatto ricco strabocchevolmente, sano e bello della persona, nessun dono della fortuna invidiava. Ma spesso addolorato (come taluno di sua famiglia mi diceva) sfogava per vane afflizioni quella mestizia che in contrapposto della contentezza mette natura in ogni uomo; così che vediamo piangere nelle felicità, ridere nelle miserie; e scomparendo i beni e i mali della sorte, attristarsi e rallegrarsi quanto vuole, nella eguaglianza dataci da Dio, l'umana vita.
Egli prese a formare il navilio e l'esercito. Bisognando tante navi che difendessero le marine e intimorissero i piccoli potentati Barbareschi, il meno od il troppo nuoce in vario modo; ma per ambizioni vaste della regina e per grandigia del ministro si fabbricarono molti vascelli, fregate, altri legni, che, superiori allo stato del commercio, lo peggioravano; tenendo al servizio delle navi da guerra i marinai addetti al traffico. Ed oltraciò l'erario per la inutile spesa impoveriva, e nuova cagioni di alleanze o di nemicizie straniere ne sorgevano; come difatti assai presto per l'acquistata potenza in mare fummo forzati a ingrate necessità. Essendo la nostra milizia in nome di trentamila soldati, ma in fatto di quattordicimila, fu primo pensiero dei ministro ricomporre i reggimenti, cosi che tornasse intero l'esercito: e per quello effetto con legge nuova impose alle comunità buon numero di fanti, ed alla baronia cavalieri e cavalli: poscia i volontari, gl'ingaggiati, i vagabondi, i tratti dalle prigioni e dalle galere aggiungevano al contingente. Chiamarono ad instruire le nuove schiere il barone Salis dei Grigioni; e per l'artiglieria il colonnello Pommereul, francese, noto in patria per ingegno e servigi. Molti uffiziali e sergenti stranieri vennero invitati o condotti dal Salis e dal Pommereul; e tra loro (sergente) Pietro Augereau, quell'istesso che, anni dopo, generale della repubblica francese, maresciallo dell'impero e duca di Castiglione, empié molte carte della storia: e (tenente) Giovambattista Eblè, poi primo generale dell'artiglieria di Francia, istromento di molte vittorie, morto dalla guerra nel 1812: avventuroso che non vide le mutate bandiere.
La leva degli uomini increbbe agli avviliti popoli napoletani; e le discipline, gli usi, le voci forestiere a' soldati, e tanto più agli uffiziali maggiori, che velavano col nome di onor di patria l'ambizione di comandare l'esercito: stolta superbia, perché ad essi mancava l'uso delle milizie, perduto nelle corruttele di oziosa città. Si alzò tanto grido, che il governo, pigliandone sospetto di pericolosa scontentezza, congedò il Salis ed altri uffiziali stranieri; non già il Pommereul, che, avendo affare con poca parte dell'ercito e con uffiziali meno della comune ignoranti, non aveva concitate le opposizioni della moltitudine e della invidia. Ne ‑ derivò. che l'esercito decadde, l'artiglieria migliorò: cominciarono gli odii del popolo contro l'Acton e la regina; crebbe l'amore per il re, tenuto (ed era) avverso a quelle novità, benché si espedissero in suo nome, per sua pazienza ai desiderii della moglie e del ministro.
La fama della ingrandita potenza del regno diede a' Borboni di Francia e di Spagna brama di legami più stretti coi re delle Sicilie; ma gli affetti e i disegni di questa corte essendo mutati, ebbero risposte fredde ed in fine ripulse; e però Carlo III con lo stile di re, di padre, di benefattore, scrisse al figlio di cacciare dal ministero e dal regno il mal favorito Giovanni Acton: ma non fu ascoltato. Indi a poco propose di unire alle flotte spagnuole per l'America due vascelli napoletani e quanti legni mercantili ei volesse; e pure quella offerta, in tanti modi giovevole, fu ricusata. Si negarono alla Francia i legnami per costruzioni navali, dati ab antico a largo prezzo, e soperchianti nei boschi delle Calabrie. Tutte le asprezze a' que' re congiunti, tutte le cortesie ai sovrani dell'Austria e della Inghilterra. Per le quali cose Luigi XV fu avverso alla corte di Napoli; Luigi XVI, dopo speranze di amicizia fallite, tornò contrario: lo stesso Carlo III morì scontento del figlio.
XXVII. L'ordine de' tempi mi ha condotto all'anno 1735, quando tremuoto violentissimo abbatté molte città, scompose molti terreni della Calabria e della Sicilia, con uccisione di uomini e greggi, e universale spavento nei due regni: della quale sventura dirò le parti più memorabili. Il 5 di febbraio, mercoledì, quasi un'ora dopo il mezzogiorno, si sconvolse il terreno in quella parte della Calabria ch'è confinata da' fiumi Gallico e Métramo, da' monti Ieio, Sagra, Caulone e dal lido, tra que' fiumi, del mar Tirreno. Lo chiamano Piana, perché il paese sotto gli ultimi Apermini si stende in pianura per ventotto miglia italiane e diciotto in larghezza. Durò il tremuoto cento secondi: sentito sino ad Otranto, Palermo, Lipari e le altre isole Eolie; ma poco nella Puglia e in Terra‑di‑lavoro; nella città di Napoli e negli Abruzzi, nulla. Sorgevano nella Piana centonove città e villaggi, stanze di centosessantasei mila abitatori: e in meno di due minuti tutte quelle moli subissarono, con la morte di trentaduemila uomini, di ogni sesso ed età, ricchi e nobili più che poveri o plebei: alcuna potenza non valendo a scampare da que' subiti precipizi.
Il suolo della Piana, di sasso granito dove le radici del monte si prolungano, o di terre diverse trasportate dalle acque che scendono dagli Appennini, varia di luogo in luogo per saldezza, resistenza, peso e forma. E perciò, qualunque fossero i principii di quel tremuoto, vulcanici secondo gli uni, elettrici secondo gli altri, ebbe il movimento direzioni d'ogni maniera, verticali, oscillatorie, orizzontali, vorticose, pulsanti; ed osservaronsi cagioni differenti ed opposte di rovina: una parte di città o di casa sprofondata, altra parte emersa; alberi sino alle cime ingoiati presso ad alberi sbarbicati e capovolti; e un monte aprirsi e precipitare mezzo a dritta, mezzo a sinistra dell'antica positura; e la cresta, scomparsa, perdersi nel fondo della formata valle. Si videro certe colline avvallarsi, altre correre in frana, e gli edifizi sopraposti andar con esse, più spesso rovinando, ma pur talvolta conservandosi illesi, e non turbando nemmeno il sonno degli abitatori; il terreno, fesso in più parti, formare voragini, e poco presso alzarsi a poggio. L'acqua, o raccolta in bacini o fuggente, mutare corso e stato; i fiumi adunarsi a lago o distendersi a paduli, o, scomparendo, sgorgare a fiumi nuovi tra nuovi borri, e correre senz'argini a nudare e insterilire fertilissimi campi. Nulla restò delle antiche forme; le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta. Tante opere degli uomini e della natura, nel cammino de' secoli composte, e forse qualche fiume, o rupe eterna quanto a mondo, un sol istante disfece. La Piana fu dunque il centro del primo tremuoto; ma, per la descritta difformità del suolo, vedèvi talora paesi lontani da quel mezzo più guasti de' vicini.
Alla mezzanotte del medesimo dì vi fu nuova scossa, forte pur essa, ma non crudele quanto la prima; perciocché le genti, avvisate del pericolo e già prive di casa e di ricovero, stavano attonite ed affannose allo scoperto. Solamente più soffersero dal secondo moto che dal primo le nobili città di Messina e Reggio, e tutta la contrada della Sicilia che dicono Valdémone. Messina in quell'anno 1783, non aveva appieno ristorato i danni del tremuoto del 1744, così che, scuotendo palagi e terre già conquassati, tutto precipitò; si accumularono nuove a vecchie ruine. Duravano i tremuoti, sovvertendo le terre medesime, e tomando spesso allo scoperto materie ed uomini giorni avanti sotterrati. L'alta catena degli Appennini e i grossi monti sopra i quali siedono Nicòtera e Monteleone resisterono lungo tempo, e vi si vedevano fessi gli edifizi, non atterrati, e mossa, non già sconvolta, la terra. Ma il dì 28 di marzo di quell'anno medesimo, alla seconda ora della notte, fu inteso rumor cupo come rombo pieno e prolungato: e quindi appresso moto grande di terra, nello spazio tra i capi Vaticano, Sùvero, Stilo, Colonna, 1200 almeno miglia quadrate, che fu solamente il mezzo dello scotimento, perciocché la forza pervenne a' più lontani confini della prima Calabria, e fu sentita per tutto il Regno e nella Sicilia. Durò novanta secondi, spense duemila e più uomini: diciassette città, come le centonove della Piana, furono interamente abbattute; altre ventuna rovinate in parte ed in parte cadenti; i piccoli villaggi, subissati o crollanti, più che cento: e quel che un giomo stava ancora in sublime, nel vegnente precipitava; imperocché i moti durarono sempre forti e distruggitori, sino all'agosto di quell'anno, sette mesi: tempo infinito, perché misurato per secondi.
talo XXVIII. I turbini, le tempeste, i fuochi de' vulcani e degli incendii, le pioggie, i venti, i fulmini accompagnavano i tremuoti; tutte le forze della natura erano commosse: pareva che, spezzati i legami di lei, quella fosse l'ora novissima delle cose ordinate. Nella notte del 5 di febbraio, mentre scoteva la terra, l'aeremoto rompeva e balestrava le parti elevate degli edifizi; un campanile in Messina fu scapezzato, un'antica torre in Radicena fu mozzata sopra la base, ed un rottame (tanto massiccio che tiene mi seno parte della scala) sta nella piazza dove fu lanciato, e lo mostrano per maraviglia al forestiero; molti tetti o comici non caddero su le rovine del proprio edifizio, ma scagliati dal turbine andarono a colpire luoghi lontani. Intanto che il mare tra Cariddi, Scilla e le piaggie di Reggio e di Messina, sollevato di molte braccia, invadeva le sponde, e ritomando al proprio letto trascinava greggi ed uomini. Così morirono intorno a duemila della sola Scilla. i quali stavano sulla rena o nelle barche per campare da' pericoli della terra; il principe della città, ch'era tra quelli, scomparve in un istante; né i servi, o i parenti, o le promesse di larghissimi premii poterono far trovare il cadavere per onorarlo di alcuna tomba. Etna e Stròmboli più del solito vomitarono lava e materie, disastri poco avvertiti perché ‑assai men gravi degli altri che si pativano; il Vesuvio durò nella quiete. Fuoco peggiore de' vulcani veniva dagli accidenti del tremuoto, avvegnaché ne' precipizi delle case, le travi cadute su i focolari bruciavano, e le fiamme dilatate dal vento apprendevano incendii tanto vasti, che parevano fuochi uscenti dal seno della terra; donde le false voci e le credenze di ardori sotterranei. Tanto più che udivano fremito e rombo comé di tuono, talora precedere gli scuotimenti, ra accompagnarli, ma più sovente andar solo e terribile. Il cielo nubiloso, sereno. piovoso, vario, nessun segno dava del vicino tremuoto; le note di un giorno fallavano al vegnente, ed altre si citavano fino a che fu visto che sotto qualunque cielo scuoteva la terra. Comparve nuova tristezza; nebbia folta che offuscava la luce del giorno e addensava le tenebre della notte, pungente agli occhi, grave al respiro, fetida, immobile, ingomberante per venti e più giorni l'aere delle Calabrie; indi melanconie, morbi, ambasce agli uomini ed a' bruti.
XXIX. Incomincio racconto più mesto: la miseria degli abitanti. Al primo tremuoto del 5 di febbraio quanti erano dentro le case della Piana morirono, fuorché i rimasti mal vivi sotto casuali ripari di travi o di altre moli che nelle cadute inarcarono: fortunati, se in tempo dissepolti; ma tristissimi se consumarono per digiuno l'ultima vita. Coloro che per caso stavano allo scoperto furono salvi, e nemmen tutti; altri rapiti nelle voragini che sotto ai piedi si aprivano, altri nel mare dalle onde che tornavano, altri colti dalle materie proiettate dal turbine, infelicissimi i rimanenti, che miravano rovinate le case, e soggiacenti la moglie, il padre, i figliuoli. E poiché, anni dopo, io stesso ragionai co' testimoni della catastrofe e con uomini e donne tratte dalle rovine, potrò, quanto comporta l'animo e l'ingegno, rappresentare le cose morali de' tremuoti delle Calabrie, come finora ho descritto più facilmente le parti fisiche e materiali.
Alla prima scossa nessun segnale in terra o in cielo dava timore o sospetto; ma nel moto ed alla vista dei precipizi, lo sbalordimento invase tutti gli animi, così che, smarrita la ragione e perfino sospeso l'istinto di salvezza, restarono gli uomini attoniti ed immoti. Ritornata la ragione, fu primo sentimento de' campati certa gioia di parziale ventura, ma gioia fugace perché subito la oppresse il pensiero della famiglia perduta, della casa distrutta, e fra tante specie presenti di morire, e il timore di giorno estremo e vicino, più gli straziava il sospetto che i parenti stessero ancora vivi sotto le rovine, sì che, vista l'impossibilità di soccorrerli, dovevano sperare (consolazione misera e tremenda) che fossero estinti. Quanti si vedevano padri e mariti aggirarsi fra i rottami che coprivano le care persone, non bastare a muovere quelle moli, cercare invano aiuto ai passeggieri; e alfine disperati gemere di e notte sopra quei sassi. Nel quale abbandono de' mortali rifuggendo alla fede, votarono sacre offerte alla divinità, e vita futura di contrizione e di penitenza; fu santificato nella settimana il mercoledì, e nell'anno il 5 di febbraio; ne' quali giorni, per volontari martori e per solenni feste di chiesa speravano placare l'ira di Dio.
Ma la più trista fortuna (maggiore di ogni stile, d'ogni intelletto) fu dì coloro che, viventi sotto alle rovine, aspettavano con affannosa e dubbia speranza di essere soccorsi; ed incusavano la tardità, e poi l'avarizia e l'ingratitudine dei più cari nella' vita e degli amici; e quando, oppressi dal digiuno e dal dolore, perduto il senno e la memoria, mancavano, gli ultimi sentimenti che cedessero erano sdegno a' parenti, odio al genere umano. Molti furono dissotterrati per lo amore dei congiunti, ed alcuni altri dal tremoto stesso, che, sconvolgendo le prime rovine, li rendeva alla luce. Quando tutti i cadaveri si scopersero fu visto che la quarta parte di que' miseri sarebbe rimasta in vita se gli aiuti non tardavano; e che gli uomini morivano in attitudine di sgomberarsi d'attorno i rottami; ma le donne, con le mani sul viso o disperatamente alle chiome; anche fu veduto le madri, non curanti di sé, coprire i figliuoli fecendo sopr'essi arco del proprio corpo, o tenere le braccia distese verso que' loro amori, benché, impedite dalle rovine, non giungessero. Molti nuovi argomenti si raccolsero della fierezza virile e della passione delle donne. Un bambino da latte fu dissotterrato morente al terzo giorno, né poi mori. Una donna gravida restò trenta ore sotto i sassi, e dalla tenerezza del marito liberata, si sgravò giorni appresso di un bambino col quale vissero sani e lungamente; ella, richiesta di che pensasse sotto alle rovine, rispose: «io aspettava». Una fanciulla di undici anni fu estratta al sesto giorno e visse; altra di sedici anni, Eloisa Basili, restò sotterra undici giorni tenendo nelle braccia un fanciullo, che al quarto morii, così che all'uscirne era guasto e putrefatto; ella non poté liberarsi dell'imbracciato cadavere, perché stavano serrati fra i rottami, e numerava i giorni da fosca luce che giungeva sino alla fossa.
Più meravigliosi per la vita furono certi casi di animali; due mule vissero sotto un monte di rovine, l'una ventidue giorni, l'altra ventitre; un pollo visse pur esso ventidue giorni; due maiali sotterrati restarono viventi trentadue giorni. E cotesti bruti e gli uomini portavano, tornando alla luce, una stupida fiacchezza, nessuno desiderio di cibo, sete inestinguibile e quasi cecità, ordinario effetto del prolungato digiuno. Degli uomini campati alcuni tornarono sani e lieti, altri rimasero infermicci e melanconici; la qual differenza veniva dall'essere stati soccorsi prima di perdere la speranza o già perduta; la giovinetta Basili, benché bella, tenuta comodamente nella casa del suo padrone, ricercata ed ammirata per le sue venture, non apri mai nella vita che le restò il labbro al riso. Ed infine que' dissepolti, dimandati de' loro pensieri mentre stavano sotterra, rispondevano le cose che ho riferite, e ciascuno terminava col dire: «finqui mi ricordo, poi mi addormii». Non ebbero lunga vita; l'afflitta Basili mori giovane che non compiva i venticinque anni, non volle marito, non velo di monaca; si piaceva star sola, seduta sotto un albero, donde non si vedessero città o case; volgeva altrove lo sguardo all'apparir di un bambino.
XXX. Furono lenti gli aiuti a' sepolti, ma non per empietà dei congiunti o del popolo; ché pure ne' tremuoti di Calabria gli uomini furono, come sempre, più buoni che tristi; e fra tutti alcuni profondamente malvagi, altri eroicamente virtuosi. Un uomo ricco faceva cavare ne' rottami della casa; e quando scoprì e prese il denaro ed altre dovizie intermise l'opera, benché lasciasse sotto alla rovine, forse ancora non morti, lo zio, il fratello, la moglie. Contendevano il possesso di ampio patrimonio due fratelli; ed erano, come avviene tra congiunti, l'uno dell'altro adirati e nemici: Andrea cadde con la casa; Vincenzo ereditava il contrastato dominio, ma sollecito, irrequieto, solamente intese a dissotterrare il fratello, e, fortunato, lo trasse vivo. Appena appena si ristabilirono i magistrati, l'ingrato Andrea, sordo alle proposte di accomodamento, ridestò il litigio e 'l perdé. Se tutti gli esempi di pietà o di fierezza, di riconoscenza o d'ingratitudine io narrassi, empirei molte pagine per dimostrare la già vieta sentenza essere l'uomo l'ottimo, il pessimo delle cose create. Ma la tardità negli scavi dipendeva dalla cura della propria salvezza, e dallo sbalordimento che ne' primi giorni oppresse ogni altro pensiero, ogni altro affetto. Privi di casa nel più rigido mese dell'inverno, sotto pioggie stemperate, e turbini, e vento; distrutte le canove, sperduta l'annona, paurose le vicine genti di portar vettovaglie là dove continua e facile era la morte; tutti spandevano l'opera e il danaro a comporre rozza baracca, e procacciare poco cibo a sostegno di vita. Era secondo e debole il pensiero de' congiunti.
Quelle sventure divennero per lungo uso comportabili; le baracche di rozzissime si fecero migliori, poi belle; gli abitanti de' lontani paesi, allettati dal guadagno, portavano vittovaglie ed arnesi di comodità e di lusso; e, obbliati i danni e le afflizioni, tornavano i godimenti della vita, gli amori, i matrimoni; si ricompose la società, ma in peggio. Avvegnaché, l'universale sentimento de' primi giorni essendo stato il terrore, quietarono con gli altri affetti l'odio, la cupidigia, la vendetta; e mancando stimolo a' delitti, fu quel maligno popolo in que' giorni divoto ed innocente; se non se andava ripetendo, a vedere i grandi a capo chino ed abbietto: «eh si che tutti, signori e poveri, siamo eguali! » con malevola contentezza scusabile in vassalli di superbiosi baroni. Poscia i terrazzani, i servi, i tristi e i già prigioni (perciocché agli orribili scuotimenti del 5 di febbraio senso di umanità fece dischiudere le carceri) venivano a frugare nelle rovine, rubare nelle mai custodite baracche, rapire, uccidere; fu grande il numero de' misfatti. E cotesti uomini guadagnavano largamente per l'opera delle braccia in ergere le capanne, o scavare nelle rovine, o andar lontano a comprar viveri; così che molte agiate famiglie impoverivano, e più che altrettanta salirono a ricchezza. I beni mobili furono la più parte distrutti; il nuovo corso delle acque tolse terre o ne donò; terreni già fertilissimi sterilirono; agnati lontani di famiglie spente accolsero eredità non sperate; per terreni gli uni agli altri sopraposti, e per altri casi di dominio, nei quali mancavano i precetti del codice o la guida dell'umano giudizio, generandosi quantità di transazioni, la proprietà fu divisa e spicciolata; distrutti i processi con gli archivi, i fogli e i documenti con le case, si sperdevano le private ragioni o si confondevano. Le ricchezze furono dunque sconvolte quanto la terra; e que' mutamenti di fortuna, rapidi, non pensati, peggiorarono i costumi del popolo.
XXXI. Velocissime giunsero in Napoli le prime nuove, ma per la stessa celerità non credute, e perché le verità che avanzano l'intelletto comune danno le apparenze della fallacia. Altre voci di fama, altri fuggiaschi, e nunci, e lettere avvisarono il governo de' troppo veri disastri; e subito, quanto puote umana debilità contro le forze sterminate della natura, fu provvisto al soccorso di que' popoli. Vesti, vettovaglie, danari, medici, artefici, architetti; e poi dotti accademici, e archeologi, e pittori andarono nella Calabria; capo di tutti, rappresentante il principato, il maresciallo di campo Francesco Pignatelli: una giunta di magistrati reggeva le amministrazioni: una cassa detta sacra raccoglieva le entrate pubbliche o della Chiesa, e manteneva gli ordini dello Stato: le taglie che i possessi ecclesiastici pagavano per metà, come nel concordato del 1741, furono agguagliate nelle Calabrie alla sorte comune: s'impose, per soccorrere le due rovinate provincie, alle altre dieci del regno tassa straordinaria d'un milione e duecentomila ducati. Si andava ristorando quell'afflitta società.
Quando nella estate, per fetore de' cadaveri (bruciati ma non tutti e tardi) ed acque stagnanti, meteore insalutari, penurie, dolori, sofferenze, si manifestò ed estese nelle due Calabrie morbo epidemico, il quale aggiunse morti alle morti, e travagli ai travagli di quel popolo. Tanto miseramente procedé quell'anno; ed al cominciare del 1784, fermata la terra, spenta la epidemia, scordati i mali o gli animi rassegnati alle sventure, si volse indietro il pensiero a misurare con freddo calcolo i patiti disastri. In dieci mesi precipitarono duecento tra città e villaggi, trapassarono di molte specie di morte sessantamila Calabresi; e in quanto a' danni, non bastando l'arte o l'ingegno a sommarli, si dissero meritamente incalcolabili: furono al giusto i nati, non pochi e maravigliosi i matrimoni, i delitti molti ed atroci; i travagli, le lacrime infiniti.
XXXII. Ne' primi giorni dell'anno 1784 venne in Napoli, sotto nome privato, l'imperatore Giuseppe Il; il quale, rifiutati gli onori debiti al grado, e le feste che la reggia preparava, dimandò chi gli fosse guida e maestro ad osservare le cose notabili della città, e dalla regina ebbe Luigi Serio, cultore delle lettere, dotto, ameno, eloquente, Giuseppe bramò visitare le recenti rovine delle Calabrie, ma lo ritennero i disagi del cammino, la stagione del verno, e '1 mancar di strade regie o buone. Rividde que' Napoletani (più conti per sapienza e per civili virtù) che aveva altra volta conosciuti; e, rammentando loro i disegni filosofici e arditi che egli faceva per il governo dell'impero, si partì, lasciando fama egregia e benedetta.
Agli esempi di lui e di Leopoldo granduca della Toscana, desiderò la regina di Napoli, ed invogliò il re di correre la Italia; ma la superbia de' Borboni non tollerando nomi privati, piccolo corteggio, fasto civile, viaggiarono con pompa regia: e il di 30 di aprile dell'anno 1785 imbarcarono sopra vascello riccamente ornato, che, seguito da altre dodici navi da guerra, volse a Livorno; non tocchi gli stati di Roma per disdegno di riverire il pontefice, allora nemico. Arrivati in porto, furono subito visitati da' principi della Toscana, coi quali passarono a Pisa e Firenze. Fu rinnovato in Pisa il vecchio arringo del ponte, ma senza gli usi guerrieri di età più maschia; sì che a' molli giostratori e riguardanti fu scena e festa. Altri onori, altri diletti ebbero in Firenze. Si narra che il gran duca Leopoldo, pieno delle riforme praticate nella sua Toscana, dimandasse al re quante e quali ne aveva fatte nel suo regno, e quegli rispondesse: «nessuna». E dopo momentaneo silenzio: Molti Toscani, ripigliò il re, mi supplicano di avere impiego nel mio regno; quanti Napoletani lo chiedono a V. A. in Toscana?» Né altro rispose, perché la scórta regina ruppe il discorso. Da Firenze passarono i due sovrani a Milano, indi a Torino e Genova, dove s'imbarcarono su la flotta medesima, accresciuta di legni inglesi, olandesi e di Malta, che, insieme ai legni del re (ventitre navi da guerra d'ogni grandezza) lo convoiarono per onore sino al porto di Napoli. Quattro mesi viaggiarono con tanta splendidezza e liberalità, che Ferdinando acquistò nome (ripetuto anni appresso ed accresciuto in Germania) di re d'oro. La città di Napoli fece grandi feste come a sovrani che tornassero dalla vittoria. Più di un milione di ducati costò all'erario il viaggio: bastava a risarcire i freschi danni del terremoto.
Il fine dell'anno 1788 lasciò mesta la reggia. Languivano infermi di vaiuolo due infanti, Gennaro di nove anni, Carlo di sei mesi, allorchè celere nunzio recò la morte di Carlo III re delle Spagne, avvenuta il 14 del dicembre di quell'anno: e sebbene fosse succeduto Carlo IV, fratello del nostro re, mancava alla potenza della casa il senno e il nome del defunto monarca. Indi a pochi giorni mori l'infante Gennaro, e poco appresso l'infantino Carlo: gli stessi funerali, nella reale cappella celebrati, mostravano le immagini e i nomi del padre e di due figliuoli del re; cumolo di dolori che in casa privata cagionerebbe interminabile mestizia. Ma otto figliuoli viventi consolavano la reggia; era pregnante la regina; e quegl'infortuni avvenivano in famiglia di re, ne' quali, per gli usi della vita e le distrazioni delle corti, sono deboli gli affetti che diciamo del sangue.
Più compianta dall'universale, in quell'anno medesimo 1788, fu la fine di Gaetano Filangeri, in età di anni trentasei; lasciando incompiuta, ma per secoli durevole, l'opera che intitolò: Scienza della Legislazione. Amaramente lo piansero gli amici e i sapienti; ma venne tempo crudelissimo (né lontano) che, vedendo morti per condanna o ne' martorii altri uomini quanto il Filangeri egregi in dottrina e in virtù, si consolarono di quella morte che per immaturità precedette alla tirannide.
XXXIII. La mente del re non migliorò dalla vista di altri paesi e governi; non curando le costituzioni, le leggi, gli avanzamenti o decadenza degl'imperii, poiché in nessun luogo aveva veduto le bellissime apparenze della sua Napoli, tornò più amante del proprio regno, più spregiatore degli altrui; il quale o sentimento o errore ch'egli aveva comune co' soggetti, ne' popoli civilissimi o negli ancora barbari, va confuso con l'amore di patria. Ma, comunque fosse il re, egli doveva alle usanze di quella età qualche regia grandezza; i palagi e i monumenti con gravi spese da lui compiuti, principiati dal padre, stavano a gloria di Carlo; i due teatri del Fondo e di san Ferdinando alzati nel suo regno, davano a lui poca fama, in confronto della magnifica derivata al precessore dal teatro grandissimo di san Carlo; e l'altro edifizio detto i Granili, al ponte della Maddalena, gli apportava biasimo, non laude; le buone leggi, la mantenuta giurisdizione incontro al papa, non generate dalla sua mente, e cominciate prima del suo regno, onoravano i consiglieri e i ministri. E perciò, ripetendo gli applauditi esempi delle colonie da lui mandate alle isole deserte della Sicilia, immaginò di fondare da lui mandate alle isole deserte della Sicilia, immaginò di fondare miglior colonia per le arti, in luogo poco lontano della reggia di Caserta. Scelse il colle detto di san Leucio, dove alzò molte case per abitazione de' coloni, altre più vaste per le arti della seta, e poi l'ospedale, la chiesa e piccola villa per proprio albergo. Artefici forestieri, macchine nuove, ingegnosi artifizi con grandi spese provide, e, ciò fatto, vi raccolse per inviti e libera concorrenza trentuno famiglie, che formavano un popolo di dugentoquattordici. Date le regole alle arti ed all'amministrazione della nascente società, egli scrisse la legislazione, della quale toccherò brevemente le migliori parti, giacché quella fu vera gloria del re, documento del secolo e impulso non leggiero alle opinioni civili. Or dunque, l'anno 1789, un editto regio così diceva:
«Nella magnifica abitazione di Caserta, cominciata dal mio augusto padre, proseguita da me, io non trovava il silenzio e la solitudine atta alla meditazione ed al riposo dello spirito; ma un'altra città in mezzo alle campagne, con le stesse idee di lusso e di magnificenza della capitale; cosi che, cercando luogo più appartato che fosse quasi un romitorio, trovai adatto il colle di san Leucio. Di qua le origini della colonia».
E, dopo di aver palesato l'intendimento e narrato le cose fatte, diede sue leggi e discorse i doveri di quel popolo verso Dio, verso lo Stato, nella colonia, nella famiglia. Sono da notare gli ordinamenti che seguono:
«Il solo merito distingue tra loro i coloni di san Leucio; perfetta uguaglianza nel vestire, assoluto divieto nel lusso..
«I matrimoni saranno celebrati in una festa religiosa e civile. La scelta sarà libera de' giovani, né potranno contraddirla i genitori degli sposi. Ed essendo spirito ed anima della società di san Leucio l'uguaglianza fra i coloni, sono abolite le doti. lo, il re, darò la casa con gli arredi dell'arte e gli aiuti necessari alla nuova famiglia.
«Voglio e comando che tra voi non sieno testamenti, né veruna di quelle conseguenze legali che da essi provengono. La sola giustizia naturale guidi le vostre correlazioni; i figli maschi e femmine succedano per parti eguali a' genitori; i genitori a' figli; poscia i collaterali nel solo primo grado; ed in mancanza, la moglie nell'usufrutto, se mancheranno gli eredi (e sono eredi solamente i sopradetti) andranno i beni del defunto al monte ed alla cassa degli orfani.
«Le esequie, semplici, devote, senz'alcuna distinzione, saran fatte dal parroco a spese della casa. E' vietato il bruno: per i soli genitori o sposi, e non più lungamente di due mesi, potrà portarsi al braccio segno di lutto.
«E' prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s'interponga autorità o tenerezza de' genitori.
«Tutti i fanciulli, tutte le fanciulle impareranno alle scuole normali il leggere, lo scrivere, l'abbaco, i doveri; e in altre scuole, le arti. I magistrati del popolo risponderanno a noi dell'adempimento.
«I quali magistrati, detti Seniori, verranno eletti in solenne adunanza civile da' capi famiglia, per bossolo secreto e maggioranze di voti. Concorderanno le contese civili, o le giudicheranno; le sentenze, in quanto alle materie delle arti della colonia, saranno inappellabili; puniranno correzionalmente le colpe leggiere; veglieranno all'adempimento delle leggi e degli statuti. L'uffizio di Seniore dura un anno.
«I cittadini di san Leucio, per cause d'interesse superiore alla competenza de' seniori o per misfatti, saranno soggetti a' magistrati ed alle leggi comuni del regno. Un cittadino, dato come reo a' tribunali ordinari, sarà prima spogliato secretamente degli abiti della colonia; ed allora, sino a che giudizio d'innocenza nol purghi, avrà perdute le ragioni e i benefizi di colono.
«Ne' giorni festivi, dopo santificata la festa e presentato il lavoro della settimana, gli adatti alle armi andranno agli esercizi militari; perciocché il vostro primo dovere è verso la patria: voi col sangue e con le opere dovrete difenderla ed onorarla.
«Queste leggi io vi do, cittadini e coloni di san Leucio. Voi osservatele, e sarete felici».
Per leggi tanto buone prosperò la colonia ed arricchì. Nata di 214 coloni, è oggi, dopo quarant'anni, di 823. Le opere d'arte sono eccellenti; gli operai furono felici sino a che le pesti delle opinioni politiche e de' sospetti non penetrarono in quel recinto d'industria e di pace. Ma quando n codice apparve, genero maraviglia nel mondo, contentezza ne' Napoletani, i quali, benché sapessero non essere del re que' concetti, ne desumevano speranza di vedere allargati nel regno i principii governativi della colonia.
XXXIV. Due figlie del re, Maria Teresa e Luigia Amalia, erano pervenute ad età da marito; ed il figlio erede, Francesco, aveva dodici anni, allorché la casa pensava di annodare con tre matrimoni nuove parentele. Sparita per la morte di Carlo III fin l'ombra dell'autorità spagnuola su la corte di Napoli. e niente, pregiata la casa Borbonica di Francia, la regina, libera di esterni riguardi e potente su la volontà del marito, strinse per tre legami una sola amicizia; maritando le due principesse a due arciduchi austriaci (Francesco e Ferdinando), e l'arciduchessa Maria Clementina di quella casa al principe Francesco di Napoli. Ma intervenne la morte acerba di Giuseppe H, nel febbraio del 1790.
Succedutogli Leopoldo, gran‑duca, il suo primo figlio Francesco restò a Vienna speranza dell'Impero, e Ferdinando, secondo nato, venne in Toscana gran‑duca. Megliorate perciò le sorti delle due spose principesse, furono gli apparecchi accelerati; e nell'anno medesimo 1790 i sovrani di Napoli con le figlie andarono a Vienna, dove si celebrarono i due sponsali; e si fermò il terzo, aspettando ne' due sposi la maturità degli anni. La regina fu paga da que' più stretti legami con la sua casa; le feste nella reggia de' Cesari furono grandi; e, ad accrescerle. il nuovo imperatore Leopoldo andò a coronarsi re di Ungheria, corteggiato nella cerimonia da Ferdinando e Carolina di Napoli; a' quali gli Ungheresi, poi ch'ebbero onorato il proprio re, fecero allocuzione in latino, laudandoli delle eseguite riforme a pro de' popoli, e facendo udire il nome di san Leucio. Tanto lunge si spande la buona fama o la infamia dei principi!
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