CASACALENDA

Breve racconto del tragico fatto accaduto in Casacalenda a dì 19, 20, 21 febbraio 1799, scritto dal Padre Giuseppe da Macchia.

 

« Appena le truppe Francesi entravano in questo Regno, nel paese di dicembre 1798, dopo prese tutte le fortezze ed impadronite della capitale, il Capo di questa terra erse il democratico governo con stabilire in primo luogo l'esatto culto ed osservanza della nostra Cristiana Religione.

Ad imitazione di questa patria,alcuni convicini paesi fecero lo stesso.

Domenico Di Gennaro

Era io stato destinato dal Vescovo per quaresimale predicatore a questa popolazione. Nel sen­tire la mutazione del Governo, come prevenuto che li Francesi abbattevano la nostra cristiana religione, e spogliavano li popoli della proprietà e dell'onore stavo nel dubbio di venire a predicare: ma comandato con due lettere dal Vicario del Vescovo, e più, invitato da questi Capi, venni. Quì arrivato, osservai la religione coltivata, e nel popolo la tranquillità, la giustizia, la, pace. Mi prefissi di solo attendere al mio impiego, cioè di predicare la parola di Dio. Mentre me ne stavo attendendo al sacro ministero, s'intese che gli Albanesi venivano a distruggere Casacalenda. Questi cittadini si posero in moto per una necessaria e valorosa difesa.

 

Il mio germano fratello, dal Ritiro  con lettera in data de' 9 febbraio , mi avvisava della ostinata risoluzione degli Albanesi di venire con cannoni a distruggere Casacalenda; perciò fossi ritornato per mettere in sicuro la mia vita. Non potei ridurmi a farlo sul riflesso essere un dovere indispensabile di religione, non che ad un uomo apostolico, ma ad ogni cristiano di dare la vita per li suoi fratelli, ad imitazione di G. C.che la diede per tutti. Quoniam, illi animam  suam pro nobis posuit, et nos debemus pro fratribus nostris animam ponere (S. Giovanni). Risoluto dunque di non abbandonare questo popolo, e di piuttosto dare per esso la vita, con continui sagrifizii e fervorose preghiere imploravo dall'Altissimo la liberazione dall'imminente eccidio.

Ma ecco che, a' 19 febbraio, si viddero venuti li nemici in numero (come ho inteso) di circa mille fra Albanesi e Larinesi, li quali, schierati sul monte del casino di Vincelli, ad ore 17 circa, dopo qualche dimora, sfilarono verso questa terra per dare l'assalto.

 Avvisati (come ho inteso) che la piazza era ben guernita, presero ad assalire il Casale del monte. Fecero gran fuoco con fucili e cannone più presto però si diedero a rubare ed assassinare le case del casale. Li nostri Patriotti non si mossero da' posti aspettando li nemici che calassero nella piazza per farne un macello; come sarebbe accaduto se dalle spie (come mi dicono) non fossero stati avvisati. Non pertando alcuni di essi nemici , appena si affacciarono a tiro, restarono uccisi.

La notte, che seguì, poco sparo si fece da' nemici. Fatto giorno, si riprese con calore a far fuoco da essi, senza però mai ferire veruno de' nostri. In questo secondo giorno, 20, febbraro, li nostri patriotti, impazienti, senza uscire dalli posti si diedero a far fuoco dal campanile della Chiesa, dal palazzo e, da qualche torre contro li nemici sul monte, e chi il crederà? con tanta bravura e maestria, che in ogni fucilata, benché in tanta lontananza, cadessero li nemici come frutta mature cadono dall'albero. La meraviglia si è che dai nostri non si sapevano le morti dei nemici, e si gridava ai nostri soldati che non facessero fuoco per non perdere inutilmente la munizione.

Quest’effetto, cioè che li nostri in tanta lontananza colpissero così bene, e facessero stragge dei nemici (dica chi il voglia) non ho potuto mai attribuirlo ad altro, che all'ira di Dio che guidava quelle palle contro gente sì perfida, ed ingiusta assalitrice. Intanto li nemici, vedendosi perditori, e disperando di poter entrare nella terra, anzi atterriti da' colpi, e dalle morti dei compagni, più volte mandarono a cercare la pace: cioè che fosse andato il P. Giuseppe col Santissimo Sagramento in Processione unitamente con li capi e tutto il popolo. Nò, mai nò, risposi, non si deve far questo        questi vogliono fare un massacro generale: come infatti tenevano preparato il cannone caricato a mitraglia a quest'effetto, come si è dopo saputo.

Non vedendo li uomini effettuate le richieste di far la pace, spedirono per le terre convicine e  lontane corrieri (come mi figuro) chiamandole in aiuto: dovevano però stare prevenute, perché tutte le popolazioni invitate accorsero subito armate  in quel secondo giorno col medesimo strepito diabolico e ferino , sotto lo specioso pretesto di venire a combattere per la fede, autorizzando questo perfido principio alcuni Parrochi delle accorse popolazioni, li quali hanno animate e benedette col Sagramento le loro rispettivo truppe prima di partire (come ho inteso).

Nello stesso giorno , 20 febbraio, seguitando li nostri con gran valore a difendersi con uccisioni di nemici (il numero dei loro morti si vuole che giunga a 150) senza che veruno dei nostri restasse nemmeno ferito nella zuffa (eccetto che un sol villano disarmato, che fuggiva, fu ucciso dai nemici vicino al Cigno). Poiché dalla mattina cominciarono ad arrivare dai paesi convi­cini le truppe, che successivamente altre e poi altre giungevano, si vide Casacalenda tutta cir­condata di gente armata.

Si fece l'ultimo sforzo dai nostri Patriotti, ma nel vedere la moltitudine smisurata accorsa, e che da quella efferata gente si cominciò ad at­taccar fuoco alle case, si smarrirono tutti.

Il Galantuomo Michelangelo Ciolla, che dal primo giorno, credendo di provvedere alla sua vita, si era presentato al Caporale dell'esercito nemico nel Monte colla coccarda regia, mentre colà era trattenuto in arresto, scrisse più lettere al cittadino Domenico (due ne conservo): in una di esse egli fa premura che avesse conchiusa la pace ecc., ed è nei seguenti termini:

 

                    Dal Monte 20 Febbraio 1799.

 

« Caro D. Domenico,

 

Io mi trovo nelle mani di questi nostri padroni, e nell'ultimo pericolo di vita.

Qualunque resistenza che voi pensate di fare, è inutile, perché la forza di questi signori è tanta grande, che voi non potete figurarvela, e, tuttora sempre arriva nuova forza. Dunque, o volete, o non volete, dovete cedere, e perciò tutti questi Signori, mi hanno assicurato che, arrendendosi il popolo bonariamente, la vita di tutti è sicura; sicché procurate che il popolo si arrenda e venga col SS. Sacramento tutti concordati con la coccarda rossa del nostro Re, che Dio feliciti , altrimenti io prevedo l'esterminio totale della nostra patria e della nostra vita, e vi abbraccio. »

 

Mi fu questa lettera ' mandata dal, C. Domenico per sapere il mio consiglio; prevedendo io quello che potea succedere egualmente coll'andare, o non andare, cioè coll’andare in un inganno col massacro di Don Domenico e di tutto il popolo , e col non andare lo stesso eccidio che minacciavano li nemici; non fidandomi consigliare nè per la pace, nè per la guerra, risposi al signor Arciprete Antonio Torella, che mi presentò la lettera: Che io non era in stato di dar, consiglio, mentre era sul letto più morto che vivo, e stupido fuori di me per li orror  e spaventi.

 

Ma perchè, come ho detto, crescea l'incendio, e la gente armata dei paesi si aumentava, che giungeva, come si vuole, a 10 in 12 mila uomini, li nostri soldati smarriti affatto scorso il mezzogiorno, cominciarono a fuggire con moltr'altra gente verso il bosco, sicchè, quasi li posti abbandonati, ognuno cercava salvare la vita.

 

Lo stesso D. Dornenico si avviò per fuggire con gli altri. Dopo sortito dal paese, ripensando che salvava la sua vita, ed i suo caro popolo restava in preda della rabbia del nemici, volle ritornare, dicendo che voleva morire col popolo. Nè valsero le preghiere e le violenze de' nostri a fargli effettuare la fuga; volle risolutamente tornare per non lasciare il suo caro popolo.

 

Ritornato che fu , si adoprò per la pace; l'albero della libertà da, più giorni già si era spiantato, ed il popolo allora si coccardò colla regia coccarda; fece spiegare sul campanile bandiera bianca, e, sotto pena di vita, vietò ai nostri di far fuoco ; motivo per cui li nostri si risolsero alla fuga mentre, attesa la moltitudine dei nemici, il forte sospetto di finta pace, colla proibizione di non poter far fuoco, pensarono a mettersi in salvo.

 

Vi furono più lettere dall'una e l'altra parte.

 

Avea cercato il D. Domenico dai nemici l'armistizio fino a 24 ore, ma gli uomini non vollero accordarlo ; anzi gli scrissero che non gli accordavano altro tempo che di mezz'ora. Non intendevano rifare li danni. Volevano 2 mila ducati per la spesa dell'esercito. Tutte le armi e l'arresto di tutti i galantuomini. Questa lettera mi fu data a leggere dal C. Domenico, ma non so dove si trova. Michelangelo Ciolla , vedendo le  disperate circostanze, scrisse dal monte l'altra lettera:

 

Monte di Casacalenda 20 febbraio 1799.

 

« Caro D. Domenico,

 

Si è fatto sentire il vostro foglio ai rispettivi capi ed alle rispettive popolazioni, e non hanno voluto altro tempo concedervi se non che altra mezz ora, per cui fra tal tempo mandate le armi e quanto devesi disbrigare, acciò tutti siano in perfetta armonia. Dovete quì portarvi processionalmente con D. Giuseppe in unione col Sagramento, affinchè tutti si rimettano ai divini voleri; fate tutto con sollecitudine , affinchè non nascano ulteriori sconcerti. Adempite subito e vi abbraccio.

 

                              Vostro servo

MICHELANGELO CIOLLA »

 

Le pretenzioni de' nemici erano stravaganti, strangulatorie e crudeli. Si vide l’infelice Domenico nelle ultime mortali angoscie , nè sapea, nè potea uscirne: ma come? e con quali mezzi? si ricorra al Padre Giuseppe, che vada a trattar la pace nella miglior maniera che può. Ma il padre Giuseppe, presago dei mortali emergenti ,non ha saputo, né voluto risolvere, perché la guerra non potea sostenersi per li soldati fuggiti, e la pace sarebbe stata un tradimento, e fuggire dalla guerra. Mi manda il C. Domenico il C. Giulio Franceschini , acciò io provvegga all'estremo bisogno.

Oh circostanze disperate ! Se vado (dicea tra me)fra le palle e nemici, Pericola la mia vita... questo non mi arresta, sono pronto a perderla, per bene del prossimo. Fra la forza e con nemici radunati a migliaia che vogliono bere il sangue di tutto un popolo, e soprattutto dei Galantuomini, come ridurli ad un mezzo plau­sibile? Se non vado, scorsa la mezz'ora, l'eccidio  sarà universale e l'incendio a tutto il paese ‑ DOMINE CONFIRMA ME IN HAC HORA.

Estenuato dall'inedia e dalla vigilia e soprattutto restato quasi stupido per li trascorsi di  due giorni di fuoco, mi porto dal C. Domenico, è mi fa leggere la risposta di pace de' némici colle sopradette condizioni strangulatorie e cru­deli. Arrivo sul monte, inorridisco al vedere un esercito smisurato in armi. Mi fanno in circolo, ed una funesta idea vivamente mi rappresenta che mi avevano posto in mezzo per trucidarmi come Giacobino, e parziale dell'esecrato popolo.

Impallidito nel volto, e tutto palpiti nel cuore, dissi fra me: già sono morto, mio Dio, aiutami...

Fu una mia falsa supposizione, mentre, accortisi essi del mio mortale timore, cominciarono ad animarmi. Non temere, padre Giuseppe ecc. Mi portarono in una casa lì sopra per convenire circa il trattato di pace.

Il Caporale di tutto l'esercito era Michelangelo Fiocco, con cui dibattei per non condiscendere alle sue inique pretenzioni. Accordai la consegna delle armi e lo sborso di due mila ducati, che si pretendevano per la spesa de' soldati.

 

Mi opposi fortemente per l'arresto che voleva di D. Domenico e di tutti i Galantuomini. Non vi fu mezzo.

 

Alla fine ostinatamente si protestarono che volevano il C. Domenico di Gennaro in arresto, o proseguire ad ingendiare (questa parola si mutò nella carta, con scrivere a seguire la battaglia) con patto e giuramento, che facevano sul Crocifisso, di non toccarlo affatto nella vita. La promessa fu di tutti spontanea, seria e giurata; diedi fede al giuramento e, per meglio assicurarmene, levatomi il Crocifisso dal collo, su di quello feci stendere le loro mani ‑ (Giurando con tutta osservanza, che avrebbero persuaso ogni uomo più accorto del mondo). La sera, dopo la pace, il Michelangelo Caporale mangiò nella casa dell’Arcidiacono di Gennaro, dove era ritirata la C. Maria Antonia , moglie del C. Domenico.

 

Ognuno può immaginarsi le preghiere e le premure che gli furon fatte per la vita del C. Domenico. Le vive, sincere e replicate espressioni del Michelangelo, con che assicurava la vita del C. Domenico, quietarono basta dire l'animo titu­bante d'una moglie. Giuravano dunque tutti li capi delle truppe di ciascun paese di non toccare affatto la vita di Don Domenico Di Gennaro e di trattarlo con tutta la pulizia che merita un Galantuomo fino  a tanto che dal Re si esaminava la sua innocenza ecc. ecc. Si espresse ancora nella carta (che giurata fu man­data in Campobasso al Commissario A. Valian­te) che era in arbitrio del C. Domenico eleg­gersi qual paese volesse delle terre de' rispettivi Capi. Non si firmarono nel foglio solo che cinque Capi, cioè li capi di Larino, di Campomarino, di Portocannone, di Bonefro, e di Provvidenti, ma quello di Ururi, per non saper scrivere, il Vincenzo Minni, che scrisse il foglio, lo espresse con carattere finto. Non si sottoscrissero gli altri capi perchè l'ora era tarda e per la confusione della moltitudine dell'esercito, si stentava a ritrovarli tutti.

 

In questo mentre mi presentarono una copia di proclama del Re, che scriveva da Brindisi.

Tutte finzioni per ingannare li semplici. La cagione, per cui la  a stima falsa; fu per alcune parole ivi espresse, che facevano al Re una satira.

Il Caporale Michelangelo Flocco, che tutto agiva per assicurarmi sempre più della vita del C. Domenico, a mostrarmene in confidenza il disegno e l’impegno, tiratomi in  disparte, segretamente mi disse: che avessi assicurato D. Domenico, e che fosse andato in Campomarino, come gli mandava a dire D. Michelagelo Musacchio; perchè lo avrebbe ritenuto in sua casa ed avrebbe lui pensato al di più ecc. Cosi dissi al C. Domenico, il quale se ne persuase per l'amicizia e quasi parentela che passava col detto Musacchio.

 

In laberinto si orrendo, ed in circostanze si disperate, credei col divino aiuto aver fatto molto: cioè liberata la popolazione della rabbia di tanti nemici fieri, che anelavano a fuoco, a sangue, a stragi, a prede. Fatto condonare li 2 mila ducati che si pretendevano. Esentati dall'arresto tutti i galantuomini. Assicurata la vita del cittadino Domenico non solo col solenne giuramento dei principali capi, e sicurtà di D. Michelangelo Musacchio: ma anche sul riflesso che poichè erano' vicini li difensori Francesi, li giurati capi, o per non incorrere la severa e giusta vendetta di questi, oppure per farsi merito appresso di essi, dovevano conservarlo in vita. Restai persuaso che migliore condotta non poteva aversi. Non ebbi più lumi. Non seppi più. Non potei più. Non prevviddi la loro diabolica furberia: non mi riuscì sospettare sì enorme irreligiosità in cuori cristiani.

 

Questo so bene che, se li nostri Patriotti soldati non avessero abbandonati li posti e datisi alla fuga, non avrei accettato l'incarico, come fatto avea nel dì recedente e nel passato mezzogiorno, poichè durava la difesa dei nostri: in quella mezz'ora era sì disperato il caso, che, nella fuga stessa di questi cittadini, tanta era la lava della gente nemica armata accorsa da 20 e più paesi, e circondata avea tutto il tenimento di Casacalenda, che tutta nostra gente fuggitiva nelle vicinanze del bosco fu oppressa, spogliata e maltrattata.

Sottoscritto il foglio dai capi, giusto il tenore predetto, il Michelangelo Caporale mi fece premura che sollecitassi il consenso, perchè era ora 23 circa, acciò, conchiuso il tutto, volea  di mattino rimandare tanta gente, affinchè non cagionasse ulteriore danno a questa popolazione. Con piccolo discorso pubblicai ed anima l’esercito alla pace come carattere del Cristiano portatoci dal figlio di Dio in terra ecc.

Calato dal monte, portai il foglio al cittadino Domenico, che mi attendeva avanti la Chiesa; non fu sì pronto a scorrerlo con l’occhio, quando il profferire con magnanimo coraggio:

Eccomi pronto, voglio andare, sono pronto a morire per il mio popolo.... il coraggio non potè essere trattenuto da veruno, e bisogna dire che la sua magnanima intrepidezza non poteva venire se non da assistenza divina. Tutte le strade in là di S. Maria erano zeppe di nemici armati; mi convenne accompagnarlo, e vicino a me portarlo acciò non fosse toccato; anzi tutta quella gente armata fecimo passare avanti. Prima di arrivare sul monte, fummo incontrati dal Michelangelo Caporale, da Vincenzo Minni di Larino ed altri, che venivano a ricercare il cittadino Domenico ; ci abbracciammo con dimostrazione di confidenza ed amicizia, e lo accompagnarono, e portarono in una casa sul monte.

 Si avvicinarono le ore 24, mi fu fatta replicata premura per la consegna delle armi ; non essendovi altro che agisse, mi convenne subito calare dal monte, per raccogliere e consegnare dette armi, come feci, e si divisero fra di loro li soldati nemici già calati in mezzo alla piazza: Erano già 24 ore ; estenuato affatto non mi reggeva all'impiedi, mi convenne ritirarmi. Ci parve essere risuscitati da morte a vita, e ci credevamo assicurati di roba, d'onore, di vita dopo un trattato di pace confirmato con solenne giuramento. E come no? Poiché gli uomini non sempre vogliono credere ai detti e promesse altrui, perciò si addice Dio in testimonio di quelle  cose che si promettono ed affermano; come quello la cui maestà è infinita, la cui verità è infallibile, la cui cognizione è universale; perciò quando si chiama in testimonio si dà dall’ uomo una sicurtà infinita che maggiore si può pretendere da lui. Quindi è che tutte le nazioni , anche le più barbare, hanno sempre creduto e temuto il giuramento per un legame inalterabile, di sicurezza in quello che si asserisce e promette dagli uomini, e lo spergiuro per un'azione la più iniqua che fa orrore alla stessa natura, come distruttivo della fede divina, umana, e sociale; e perciò degni castighi più atroci in chi lo commette. Quanto più dovea rispettarsi da nemici che riconoscevano l'unico vero Dio , la cui vera religione e fede vantavano essere venuti a difendere fino allo spargimento del loro sangue! Chi dunque non inorridirà al solo immaginarsi che, per mezzo di uno spergiuro, consumare doveano le più esecrabili inumanità?

Scellerati!... Empii assassini!... Cristiani . scristianati!. perfidi felloni!.. Obstupescite Coelí super hoc et porlae ejus  desolumini (ISAIA).

Ben si è veduto l'iniquo disegno che si covava: nel vostro rio cuore perchè tante volte mandaste a cercare il padre Giuseppe che fosse venuto col SS. Sacramento, di unito col popolo e galantuomini sul monte. Volevate servirvi di un Dio sacramentato per compiere a mano salva la stragge d'un intiero popolo, e coprire sotto atto di religione gli eccessi più barbari che in fine se ne risentirono gli stessi elementi!...

 

Assicurati dunque gli uomini della resa del Popolo, e per la giurata pace tutto sicuro e confidente, in che cominciò a farsi notte, principiarono a spargersi in tutto il paese per dare il saccheggio universale, ed insieme a fare la cattura di molte persone non risparmiando neppure i Sacerdoti: e ciascuno subito era preso, portavasi sul monte, barbaramente stretto con legami e peggio trattato.

Alle ore 3 e mezzo circa della notte, senza aver riguardo alla mia persona ben conosciuta, sei Albanesi assalirono questa mia casa con fucili alzati, si orridi e truci che piuttosto mi fiderei vedere sei demonii che, rivederli alla sfuggita. Non ebbe ribrezzo uno di dire che avrebbe fucilato prima me. Fu tanto lo spavento, che questo vecchio Zio Vincenzo svenne e tramortí per lo spavento. Vennero sotto pretesto di far ricerca d'armi e non rubare; tanto però si presero orologio, fìbie d'argento, fascette d'oro dal dito di M. Maddalena, pegni d'oro, donarizie, ed all'ultimo fecero il ricatto.

Circa le 11 ore, altra truppa venne per saccheggiare questa casa, ma, alzando io la voce, e dandomi a conoscere, si ritirò.

La terza volta, nel mattino, quando vennero a catturare il mio procuratore D. Gaetano Simnonelli, si vidde la casa circondata di gente armata, giacchè doveva essere il cittadino Gaetano una delle vittime segnate che si sacrificarono sul monte (mi trema il polso in scriverlo).

Circa le ore 10 della mattina, nell'udire li colpi con cui scassavano le porte nel vicinato, subito mi presagì il cuore che in quell'ora catturavano i galantuomini; sbalzai dal letto e feci chiamare Gaetano che provvedesse alla vita. Cercò ricovero, e per puro miracolo egli è vivo. Il mattino , come ho detto, una moltitudine di Alba­nesi coi fucili alzati circondarono la casa, ed una gran truppa volea entrare per invadere la casa alla ricerca. Grazie a Dio, che tra fieri ricercatori si trovò un Albanese mio intimo confidente: questo mi fece aprire, a questo mi rac­comandai a non fare entrare tanta gente.

  Mi servì; fatti entrare 3 dei principali, respinse l’altra g:ente, e lui serrò la porta. Fecero diligente ricerca. Gaetano non fu trovato. Poco tempo scorse, sempre più infieriti, tornarono tre dei primi per più minutamente ricercare, di maniera che un capo di essi si mordea le labbra, sbattea i piedi per rabbia per non rinvenire Gaetano.

Poco altro tempo dopo entrarono altri due fieri come demonii per lo stesso fine, e neppure lo ritrovarono: trascinarono alcune cose, e alla fine catturarono il C. Peppe Antonio, e Giov. Antonio, fratelli di Gaetano, e li portarono sul monte con maniera barbara e crudele.

Le barbarie e le sevizie, con cui tutto l'esercito eseguí il saccheggio (oltre a quello di due  giorni fatto nel Casalotto con l’incendio di 12 case), che cominciò alla sera fino al mezzoggiorno del dì seguente 21 febbraio, sono inesplicabili, anzi incredibili da chi li ascolterà, di maniera che se dovessi farne un intiero racconto, vi vorrebbero mesi, a mio credere; ed ogni cittadino di questo popolo potrebbe a parte, formare la sua tragica storia, che farebbe piangere le pietre. Lo ridica chi può, che a me mancano concetti, tempo e maniera di darlo ad intendere.

E che più desolante saccheggio , che oltre a prendersi tutto dalle case, fin li chiodi fitti nel muro, rompere con le accette i canterani, burò, baulli, casse, banche, botte di vino, a perdersi ed in tanta quantità che dalle cantine del casale arrivò a penetrare li condotti dell'acqua, onde per più giorni l'odore del vino si sentì nelle fontane!? Oltre all'incendio delle case con quanto vi era, incendiarono siepi, pagliaie per le vigne, d'intorno al paese recisero alberi fruttiferi e non futtiferi, sterparono viti nelle vigne, ed ove non potevano portarsi via grano, granoni, legumi, li mischiavano per dispetto, sino ad evacuarvi il ventre sopra!!! Che furore!

Che più fiera crudeltà, che  mentre la povera gente tutta mansueta offeriva e lasciava in loro potere la roba tutta, mettevano le mani addosso alle donne per spogliarle del prezioso, strapazzarle con spintonate di fucili, con baionetta alla gola, stupri, percosse, ferite, e che più ?!

Che maggiore empietà invadere le chiese; rapire calici, pianete, tutti gli arredi sacri, spezzare un'immagine di Gesù Cristo legato alla colonna , calpestare, le reliquie dei Santi , finanche il legno della S. Croce ! che empietà! che empietà! che empietà!

Non è finita la perfidia ; appena espletato il saccheggio, e fatto portare in processione il SS. Sacramento sul monte, colà sacrificarono la vita di undici innocenti cittadini; ma per qual causa, e con quale autorità ? capricciosamente.

Che maggior sevizia !... Dopo già fucilati, si fece novellamente sparare su i cadaveri da una truppa allora allora arrivata da S' Elia in lor soccorso, e questo è poco: Il massimo di tutte le scelleratezze (se ne scandalizza anche il demonio) si fu che li poveri trucidati avevano prima cercata confessione, e quantunque sul monte vi erano molti sacerdoti nostri, che stavano presi, e più altri venuti colle truppe dai paesi per coadiuvarli nell'eccidio, non fu affatto possibile accordarla; sicchè la loro rabbia diabolica pare che si è voluta stendere a togliere non solo la vita del corpo, ma anche quella dell'anima; e non solo dare, agl’innocenti morte temporale ma anche eterna. 0 praesuntio neguissima unde creata es ?

Alli più perfidi scellerati, prima di giustificarsi, chi mai intese che fu loro negato il confessarsi?

Dopo il massacro degl'innocenti, e liberazione degli altri arrestati, partirono portando loro presi in Campomarino il C. Domenico ed il Sacerdote Giuseppantonio Simonelli.

Ciò che fecero con questi d'inumanità e di barbarie, e specialmente col C. Domenico nel trucidarlo, fa orrore alla natura, e lo può raccontare il medesimo Sacerdote Giuseppantonio, che, dopo la spietata uccisione del C. Domenico, accaduta, mi pare, ai 27 febbraio, fu rimandato vivo.

Quanto in queste carte ho espresso, tutto l'è verità, ma non è che un piccolo disbozzo di tutto l'eccidio, donde dobbiamo apprendere che il maggior castigo che possa darsi da Dio agli uomini si è il lasciarli in preda delle loro sfrenate passioni, che li portano a cadere non solo in eccessi incredibili in persone cristiane, ma a prevaricare dallo stesso essere umano e ragionevole: come lo minaccia lo stesso Dio: Dimisi eos secundum desideria cordis eorum ibunt in adiuventonibus suis.

Infine, mi protesto , coram Deo et hominibus, che siccome il carattere ‑ di Sacerdote mi obbliga a professare la stessa mansuetudine di G. C. e di avere gli stessi sentimenti per cui sulla croce, con infinita carità, ed inalterabile mansuedine, scusando li suoi perfidi, implorò loro dal suo divin Padre il perdono; così io imploro da Dio e misericordia e perdono a tutti quelli che in questa patria innocente commisero tante scelleratezze e tanto crudele sterminio. Pater, iqnosce illis non enim scierunt quid fecerunt. Di maniera che se queste carte comparissero per caso in Tribunale di Giustizia, non intendo sieno contro dei rei motivo e materia di accusa, e molto più mi riprotesto cento e mille volte avanti lo stesso Dio; quod poenam sanquinis non incedo, absist, ma collo spirito del nostro pietosissimo Dio, che è Pater Misericordiarum, dice sempre Nolo Mortem peccatoris, sed ut magis convertatur et vivvat. Amen.»

 

 

 

 

 

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