FRANCESCO FEDERICI
La famiglia Federici di origine genovese ebbe dagli Angioini il feudo di Pietrastornina nella provincia di Avellino. Pure Francesco Federici, comunque appartenesse a gente cospicua, non sentì la superba ebbrezza degli avi, e giunto in alto non isprezzò mai chi fosse nato umilmente.
Sin da fanciullo manifestò generosi sentimenti. Né per angusta fortuna o per ambizione si volse alla professione delle armi, sì per nobile desiderio di difendere la patria; e i suoi voti non andarono tutti falliti.
Dal marchese Emmanuele, sposato alla Gelsomina Minucci di Pietrastornina,
nacque primogenito Niccola, il quale ebbe in moglie la Caterina Fronda di Nocera
e morì anche assassinato nel 1799. Secondogenito, Francesco Federici
nacque verso il 1739, non so bene se in Napoli o in un paese della costa di
Amalfi, forse Cetara dov'era il suo palazzo.
Al primo di marzo del 1755 entrava nel nuovo reggimento di cavalleria chiamato
Napoli per capitolazione col colonnello Alessandro Filangieri principe
di Cutò. Né andò guari che, fatto esperimento del suo ingegno
e del suo zelo, fu spedito da Napoli a comandare buona mano di cavalieri nella
città forte di Gaeta.
Era in Sicilia l'anno 1760 allorché venne eletto, con altri ufficiali,
a recarsi in Berlino sotto la condotta del chiarissimo Giuseppe Palmieri, per
meglio imparare la rinnovata scienza di guerra di Federico. E con assai cortesia
accoglieva quel principe i Napoletani , dicendo loro graziosamente : "
Fo le maraviglie che il re vi abbia qui spediti per ammaestrarvi , quando
lì è un Palmieri gran mastro, da cui ho imparato 'ordinamento
e la tattica de' soldati leggieri " Figuratevi il rossore del Calmieri!
Gran bene trasse Federici da cotesto viaggio, avendo ampliate le sue cognizioni
su la strategia e la tattica non solo, ma su la filosofia, la storia e le lingue;
cose in quel tempo assai rare ne'soldati.
Dopo vent'anni, fu aiutante maggiore, nel giugno dei 1776, e di lì a
due altri anni venne innalzato a capitano. Ma ammalatosi gravemente, pensò
tramutarsi a Montpellier per provare la benignità di quel clima e le
dottrine mediche di quella università. Rimpatriò risanato; ma
le nuove fatiche militari ed il male di calcoli l'obbligarono ricercare la seconda
volta quella dimora; il che gli veniva facilmente concesso con lettera del 3
aprile 1790. Riavutosi, si fermava a Ginevra, e poi riprendeva il servizio in
Lucera.
Nell'anno 1794 le milizie dell'Italia meridionale mossero alla volta dei campi
lombardi, dove si credeva combattere per la libertà d'Italia, ma con
armi straniere. Il Federici partì col reggimento Principe, ch'ei
comandava. Furono famose le giornate del 6, del 10 e del 30 maggio, combattute
a Fombio, a Lodi e a Valleggio. E quando presero le stanze del riposo, Federici
alloggió in Rezzato presso Brescia, ove presentò i suoi ufficiali
a Bonaparte. Il quale, ricevutili cortesemente, si rallegrò con essi
per la bravura ed intelligenza mostrate, li richiese della loro forza, e quindi
si volse al suo stato maggiore che lo circondava: " Sentite, voi non lo
credevate, ma io ben conosco gl'Italiani. "
Scoppiata nuovamente la guerra, ebbe il brigadiere Federici il comando dei tre
reggimenti Borbone, Principessa e principe A1berto; e a di 6 novembre
1798 fu chiamato da Sulmona a comandare lo truppe accantonate in Teano, invece
del Micheroux mandato in Sora. Le armi napoletane, malamente governate, tornarono
quasi scomposte; la corte prese la fuga: i Francesi entrarono in Napoli e dettaron
leggi. Si cominciò l'ordinamento dell'esercito della repubblica, ma più
si vagheggió quello della Guardia nazionale, come se nulla si avesse
più a temere. A Giuseppe Wirtz fu dato a comporre la fanteria, a Federici
la cavalleria, cui nel tempo stesso venne confidato il governo di Napoli, sebbene
a dì 13 maggio egli avesse a partire per le Puglie marittime con solo
mille fanti, dugento cavalli, e, pochissime artiglierie, seguito dal suo aiutante
di campo capitano di cavalleria Niccola Milano.
Con ordinamenti mal suggeriti e precipitati, scorgendone i danni, sconsigliò
l'impresa; ma partì il 20 per tornarsene il 25 quando s'avvide non esser
vero che nuova gente si riunisse a lui; e da Ariano per Benevento si condusse
in Nola per intender meglio al riordinamento delle armi repubblicane. Era già
troppo tardi; bisognò muovere per Napoli, e in Castelnuovo, ove si tenne
l'ultima difesa; e con onore fu sottoscritta, ma indarno, la capitolazione.
Passato nelle segrete di quel medesimo castello, ove si vide strappare dal fianco
tanti compagni d'infortunio per andare sul palco, un consiglio di guerra fu
tosto convocato, preseduto dal tenente generale duca della Salandra, giudici
i generali Bock e Gualengo ed altri suoi nemici. Né valse la difesa del
marchese Mari Acquaviva con maravigliosi argomenti. Una lettera del Federici
scritta di Puglia fu la principale cagione della condanna di morte, ch'era già
decretata, come dimostrano queste parole della Carolina indirizzate al Cardinale
in data del 7 di maggio
" Li mando due copie del proclama che fa il Re alli Siciliani e che
si manderà in Provincia, non volendo ancora troppo animare la capitale
temendo troppo moto e che possino nascere delle irregolarità riserbandoci
all'ultimo bisogno a tutto animare e portare avanti. Aspetto con somma impazienza
le notizie di V. E. tutto quello che essa fa e dice facendo sempre la mia ammirazione
per la profondità del pensare e saviezza delli pensieri. Ma malgrado
ciò devo confessarle non essere di suo parere circa il dissimulare e
obliare anzi premiare per guadagnare i Capi Briconi nostri: non sono di questo
parere non per spirito di vendeta, ma parlo per il sommo disprezzo che meritano
i nostri scelerati che non meritano né comprarci né guadagnarci
ma allontanarli dalla Società per non corrompere gli altri: gli esempii
di clemenza perdono e sopra tutti di rimunerazione a una nazione cosi vile corotta
ed egoista come la nostra non ispirerebbe gratitudine riconoscenza ma invidia
pentimento di non averne fatte altre tanto e farebbe più malle che bene:
lo dicho con pena a da essere punito di morte chi come Caracciolo, Moliterno,
Rocco, Romano, Federici, e che si trovano l'armi alla mano combattendo contro
di lui, e la perdita di qualche migliaia di simile individui e uno guadagno
per lo Stato : credo per il Stato la quiete sicurezza tranquillità futura
sia necessario il ripurgho di più migliara di persone. "
Pure con la medesima sentenza fu inflitto un anno solo di carcere al generale
Francesco Anguissola.
Faceva ribrezzo la condanna di quel soldato venerando, del Federici su cui vedevasi
ancora la ferita del 1798 al braccio, mentr'era al suo fianco il curato del
medesimo castello Gennaro Bianchi. Un antico familiare gli rimase a canto in
quelli estremi momenti, e volle che questo suo fedele gli scoprisse il collo
per non esser toccato dalla mano del carnefice.
Il di 23 di ottobre, poco innanzi la porta istessa dell'arsenale, ei salì
il palco impavidamente e avanti di morire disse alcune parole ai soldati schierati
che piangevano del dolore.
Ma i condannati a morte dovean anche pagare il capestro, nuova e inaudita infamia;
e al Federici furon confiscati i beni, fra i quali un palazzo in Cetara con
giardini nel luogo detto Federici, molti vigneti e boschi negli altri
luoghi denominati Lo Feliceto e Lo Piano e Meone affittati
a Domenico Apicella, Pietrangelo e Casimiro De Crescenzo, oltre alla rendita
sul capitale di ducati 6mila e trecento, dovutigli dal duca Tommaso Mazzaccara.
E a pag. 809 del volume de'beni confiscati ai rei di stato leggesi in data 8
aprile 1800:
" Al brigadiere don Dionisio Dea ducati 100 li stessi che dal medesimo
furono improntati al fu maresciallo D. Francesco Federici per urgenti affari
appartenenti al real servizio e ciò nel mese di gennaro 1799 allorquando
il detto brigadiere Dea trovavasi comandante dell'armi in Benevento, quali ducati
100 furono pagati in virtù di real dispaccio del 4 di aprile 1800.
Meritatamente fu dato il soprannome di Scipione al Federici nell'Apoteosi, coll'epigrafe
di Terenzio:
in quo nostrae spes, opesque omnes sitae erant.
Da Vite degl' Italiani benemeriti della libertà e della patria
di MARIANO D'AYALA
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