Discorso pronunciato in
Fasano, nel 1980 dal senatore prof. Giovanni Spadolini per lo scoprimento del
monumento dedicato ad Ignazio Ciaja.
IGNAZIO CIAJA
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La celebrazione di Ignazio Ciaja, presidente della Repubblica
Partenopea, che la Città di Fasano, che gli dette i natali, ha voluto
promuovere, evoca in me due nomi che voglio legare all'inizio della mia
testimonianza di ricordo per il patriota repubblicano delle origini del
Risorgimento nazionale. E i nomi sono quelli di Benedetto Croce e di Giosuè
Carducci. Chiunque avesse avuto quattordici o quindici anni allo scoppio
della seconda guerra mondiale, come chi ha in questo momento l'onore di
parlarvi, ricorda l'emozione che in un giovanissimo studente di ginnasio di
quegli anni già solcati dai nembi devastatori della guerra, suscitava la
lettura di un volume stampato dalla casa editrice sacra alla Puglia e
all'Italia per le sue tradizioni di libertà, la Casa Editrice Laterza, con
una copertina, tra il rosso e il marrone, che caratterizzava l'intera opera
di un grande combattente della libertà in patria; e quel libro di Benedetto
Croce si chiamava La Rivoluzione Napoletana del 1799.
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Il mio primo incontro con Ignazio Ciaja, con Mario Pagano,
con Domenico Cirillo, che dovevano insieme condividere la sorte del martirio
alla fine di quell'anno 1799 così lontano, non solo nel calendario, ma troppo
spesso nell'animo dei più, è legato a quelle pagine di un grande
storico‑intellettuale
del Mezzogiorno d'Italia, nato in Abruzzo, cittadino onorario di Napoli, e, per
il suo editore, cittadino anche della Puglia.
Il mio secondo incontro negli stessi anni con il patriota
e col poeta e con l'uomo di cultura e di passione civile, è legato alle pagine
di un altro libro che si tende a scordare troppo spesso nello spirito di
flagellazione e di devastazione dei nostri valori su cui troppe volte è
inciampata la vita italiana in questi anni; intendo dire
Letture del Risorgimento Italiano
di Giosuè Carducci. Un libro
molto più vecchio come anagrafe di quello di Croce, ma ad esso intimamente
legato; perché Carducci, che il giovane Croce aveva avuto tempo di conoscere
malato e già paralizzato nella libreria Zanichelli di Bologna agli inizi del
secolo, era stato il poeta e storico insieme che aveva fissato nella Repubblica
Partenopea del 1799 l'inizio del Risorgimento Italiano. E toccò a Carducci
negli anni '60 o '70 dell'altro secolo vedersi respingere da un editore della
mia Firenze la proposta di raccogliere un'antologia dei poeti repubblicani tra
la fine del '700 e gli inizi del '900. Antologia in cui si sarebbe collocata
anche l'opera breve, ma intensa, del Ciaja; ciò non pertanto in quella stessa
Bologna, qualche decennio prima, nel marzo del 1831, era stata stampata
un'antologia repubblicana che Croce ricorda nella
Letteratura Italiana del '700
e che comprendeva squarci lirici di
Ignazio Ciaja.
E ancora, perdendosi nelle penombre della memoria
storica, che tanto spesso è memoria autobiografica, il mio terzo incontro con
Ignazio Ciaja è legato ad un altro libro ancora più dimenticato, ancora più in
disuso dei due che ho ricordato,
La
Rivoluzione Napoletana del 1799
di Croce,
Letture del Risorgimento Italiano
di Carducci; è legata, cioè, ad
un'opera di uno dei protagonisti diretti del Risorgimento Italiano, ponte tra
la Toscana e la Puglia, Atto Vannucci, che ai martiri della Repubblica
Partenopea dedicò le prime pagine di un libro fondamentale per la ricostruzione
del martirologio del Risorgimento
I
Martiri
della Libertà Italiana
.
Unendo i tre nomi, il nome di Benedetto Croce, il nome di
Giosuè Carducci e il nome di Atto Vannucci, noi arriviamo a ricostruire intera
la parabola umana, singolare, eccezionale, dell'uomo che Fasano onora. Una vita
lampeggiante e sfolgorante nella sua stessa brevità, una vita divisa fra la sua
patria e Napoli, la capitale del Regno che con lui per la prima volta diventava
capitale della Repubblica, antivedendo i destini futuri dell'Italia democratica
e repubblicana che noi abbiamo conquistato un secolo e mezzo più tardi
attraverso tanti sacrifici, tanti dolori, tante sofferenze e tante rinunce. Una
vita che lo vede fino al 1786 legato, tra Monopoli e Fasano, alla Terra di
Puglia e poi spiccare il volo per quelle facoltà di Giurisprudenza e, di fronte
al contatto col mondo degli studi, col mondo della vecchia cultura accademica,
erudita, cortigiana, ufficiale, cominciava a percorrere una su a via, una sua
via di libertà e di conquista civile e sociale.
La figura e l'opera di Ignazio Ciaja scandisce, in
termini davvero esemplari ed emblematici, quell'esperienza intellettuale e
politica nella quale può ravvisarsi, riprendendo una classica pagina della
crociana
Storia del Regno di Napoli,
la
nascita dell'Italia moderna, della nuova Italia, dell'Italia nostra. Ed è in
questo quadro della nascita dell'Italia moderna, della Nuova Italia, della
Italia nostra che noi dobbiamo collocare tanto il Ciaja poeta giacobino, il
Ciaja dell'ode a Carlo Lauberg, il Ciaja della Canzone alla Francia, il Ciaja
del sonetto « Per la caduta di Mantova », quanto il Ciaja uomo di governo prima
e martire poi della Repubblica Partenopea, impiccato insieme a Mario Pagano, a
Domenico Cirillo, a Giorgio Pigliacelli il 29 ottobre del 1799.
Nel Ciaja poeta giacobino sentiamo già, come rilevò Mario
Fubini che lo comprese nella classica collezione di Ricciardi, anche essa
eredità della cultura crociana, più che un preannuncio della poesia del
Risorgimento, un preannuncio non soltanto per il contenuto, ma per
l'espressione in cui le forme settecentesche si avvivano per nuove di spirito e
calore.
Nei moduli elaborati della letteratura settecentesca
Ciaja immetteva la sua passione di libertà riuscendo a superare il diaframma
opposto dalla letteratura, dalla letteratura fine a se stessa; e lasciatemi
collegare quest'esperienza della Terra di Puglia con un'esperienza
contemporanea che nel lontano, e per certi aspetti opposto, Piemonte vedeva in
quegli stessi anni operare Vittorio Alfieri, il poeta che rifiutava il
diaframma fra letteratura ed impegno civile, il poeta che sentiva l'unità fra
battaglia per la cultura e battaglia per la libertà, il poeta che ispirerà non
a caso il nostro Piero Gobetti.
La vita breve eppure intensissima di Ignazio Ciaja fu
caratterizzata da una serie di scelte affrontate e sofferte sempre in prima
persona. Dai giovanili sogni d'amore e dai primi componimenti poetici, agli
studi severi di storia e filosofia, preferiti subito a quelli di
giurisprudenza, cui aveva ritenuto di predestinarlo una certa tradizione
cittadina e familiare.
E quindi il trapasso all'azione politica secondo
patriottismo repubblicano e secondo visioni politiche in cui decisivo fu lo
scandire sull'Europa intera e sul Mezzogiorno d'Italia del 1799, dell'inizio
della
grande rivoluzione apportatrice dei valori di fraternità, di giustizia e di
libertà; gli stessi valori che dovevano poi risuonare nel binomio rosselliano «
giustizia e libertà » cui si ispirò la emigrazione antifascista e laica del
periodo della lotta alla dittatura. La Rivoluzione Francese e i suoi ideali,
pure deformati e via via calpestati dalla reazione termidoriana, andavano fin
dal 1792 peregrinando fra i giovani napoletani e meridionali in genere,
soprattutto nelle scuole tenute da insegnanti privati, che allora giovanissimi
allievi erano in quasi tutte le scuole, non esistendo lo stato moderno e laico
nella sua concezione, che è tipicamente risorgimentale, di educatore, di
addetto alla cultura nazionale, come un altro grande meridionale prefigurò e
volle: Francesco De Sanctis.
E formavano essi, questi giovani, una nuova classe
intellettuale e spirituale, ci ricorda Croce, come sempre quella che fa le
rivoluzioni; checché farnetichino, diceva Croce, i cosiddetti materialisti
storici di classi economiche, di borghesia grassa e magra, di operai e
contadini e di somiglianti astrattezze che la semplice conoscenza dell'animo
umano basta a confutare, dell'anima, come si è detto, tesa d'amore per un'idea
e dell'amore spinto fino all'eroismo e alla morte.
L'idea, che i giovani napoletani e meridionali, e fra
questi il giovane fasanese Ciaja, seguivano, era quella di un chimico: Carlo
Lauberg riconosciuto punto di riferimento della nuova classe intellettuale,
promotore di una serie di club, perché la vita dei partiti italiani è nata dai
club, gruppi spontanei, dai circoli, che poi diventarono sette con la Giovine
Italia, con la Carboneria, per la lotta ai regimi assoluti e che sono tornati
circoli su cui si fondano i partiti di democrazia risorgimentale ancor oggi, in
relazione tra loro e con suprema direzione unitaria, ossia una società
patriottica napoletana in cui il Lauberg e con lui il Ciaja avevano gettato le
fondamenta sulla fine di luglio e i primi dell'agosto '93 in una cena a
Posillipo. E non erano mancati prima di allora contatti, suggerimenti, scambi
di idee, relazioni personali con i repubblicani francesi. Era emersa la
necessità di sostituire alla vecchia e pigra Massoneria meridionale qualcosa di
più giovane e fattivo, ed era stata opera della neonata Società Patriottica
Napoletana, la traduzione che il Lauberg aveva eseguito nel dicembre, della
Costituzione Francese del 1793 con l'aiuto del padre Grimaldi, della quale
furono stampate duemila copie diffuse dalla società per le città e il Regno, e
voglio ricordarlo, era ancora, in tutta la pesantezza delle sue strutture, il
Regno borbonico. Quella pubblicazione avrebbe provocato una denuncia che
avrebbe rappresentato il primo motivo della persecuzione contro il gruppo di
Lauberg e i suoi amici; Ciaja si adoperò con grande ardore e con non minore
trepidazione per convincere il Lauberg e il suo maestro a mettersi in salvo, ad
andare fuori del Regno di Napoli, a collaborare con i patrioti di altre parti
d'Italia e poi in Francia col governo del Direttorio, che nel frattempo si era
costituito. Gli argomenti e gli accenti con i quali Ciaja stringe e spinge il
maestro e l'amico che riluttava a rompere gli indugi e a partire, sono politici
e ad un tempo poetici, e investono la patria e i sentimenti e insieme la sfera
dei ragionamenti; perché esitava? che cosa ancora lo legava a Napoli, a Napoli
oppressa da un despota, anzi da una despota, quand'egli poteva recarsi da un
popolo libero, dal popolo redentore che si apprestava a restituire agli uomini,
nella visione di quei giovani, tutti i loro diritti? Esitava forse, perché gli
pareva colpevole di disertare il posto di combattimento, abbandonare il campo
del suo lavoro.
Restavano in Napoli, essi, i giovani che non invano il
Lauberg aveva educato, i giovani che possedevano le forze per continuare
l'opera da lui cominciata. Intanto a lui si apriva un più ampio campo di
azione, Roma, Firenze, Genova, portando nell'anima l'immagine sempre presente
dell'Italia che risorge all'aura della libertà repubblicana che spira dalla
Francia.
La vicenda della fuga di Lauberg da Napoli e della
successiva, conseguente prigionia di Ignazio Ciaja a Sant'Elmo, da dove sarebbe
stato liberato nel 1798 per essere spedito al confino a Bisceglie e per poi
ritornare a Napoli agli inizi del '99, non restarono circoscritti al mondo
napoletano, ma raggiunsero tutta la penisola e si propagarono anche al di là
della penisola. Il nome di Ciaja risonò allora in Francia e ne rimase
particolarmente colpito Filippo Bonarroti, lontano discendente del più lontano
predecessore e concittadino Michelangelo, il fondatore della società degli
Eguali, il primo protagonista del socialismo repubblicano italiano, in una cui
lettera si sarebbe affermato che se l'Italia è destinata ad essere libera, la
vera rivoluzione comincerà sotto il clima ardente del Vesuvio. Al pari che in
altri giacobini meridionali, motivo costante in Ciaja era la fede nel popolo di
Francia, giudicato il popolo redentore; per chi abbia letto Carducci e sappia
cosa è stata la poesia dei « Giambi ed Epodi » ed il motivo della Francia
repubblicana e rivoluzionaria opposta a Napoleone III, quando, come
principe‑presidente,
soffocherà la Repubblica Romana di Mazzini, quando a Mentana ed Aspromonte
colpirà Garibaldi, capirà cosa vuol dire questo filone di cultura filofrancese
che domina tutta una parte la storia del Mezzogiorno. Redentore dell'Italia, ma
soprattutto già apportatore di nuovo vangelo al mondo, ravvivato dall'esempio
della Repubblica concepita nel senso romano e classico della parola, come
equivalente di virtù. Nella «Canzone alla Francia» Ciaja descrive la parabola
del disfattismo agonizzante che tentava allora di rianimarsi e di riprendere
forza con l'unione al papato temporale che prima aveva avversato, come aveva
fatto il re di Napoli, il suo laicismo, laicismo che sembra acquistare
intonazioni carducciane e comunque pienamente risorgimentali; l'idea
fondamentale della Rivoluzione Francese, la fine dei privilegi e l'eguaglianza
delle classi e delle razze viene intesa come la grande opera che spetta alla
generazione, cui egli, Ignazio Ciaja, appartiene.
Nel suo liberalismo si inseriscono vibrazioni fortemente
democratiche, anch'esse figlie del repubblicanesimo francese progenitore
diretto del repubblicanesimo italiano del Risorgimento fino ad oggi.
Dell'entusiasmo diffuso tra i prigionieri di Sant'Elmo e delle notizie di
successo di Bonaparte, che era ancora il generale rivoluzionario quando vinceva
a Campoformio gli Austriaci, che cancellava la Repubblica di Venezia e apriva
la via alle vittorie che avrebbero abbattuto anche per pochi mesi il Regno
Borbonico di Napoli, è testimoniante il sonetto del Ciaja « Per la Caduta di
Mantova », dove si sente l'esultanza per la vittoria francese.
Liberato nel luglio del 1798, dopo quasi tre anni di
prigionia, Ciaja fu relegato a Bisceglie sotto la sorveglianza del preside
Marugli, perché trovato in possesso di una copia del « Contratto Sociale » di
Rousseau. Come si vede, era sempre la cultura politica francese ad incrinare i
suoi difficili rapporti con la giustizia regia, prima « La Dichiarazione dei
Diritti dell'Uomo » motivo dell'imputazione al suo maestro Lauberg e la sua
successiva cattura, oggi « Il Contratto Sociale » di Rousseau da cui nasce
tutta la grande tradizione dell'Illuminismo e della democrazia europea. Sarebbe
tornato a Napoli il Ciaja nei primi giorni dei febbraio del 1799 insieme ai
Francesi per soffrire fino all'ultimo grandezze e limiti dell'esperienza
repubblicana.
La realtà, scrive Croce, era venuta diversa, come suole,
dal sogno, e i generali e i commissari francesi che dominavano in Napoli con
metodi anche burbanzosi, alteri, non assomigliavano in niente alla Francia
dell'amore e del canto di Ignazio Ciaja; pure egli procurava di fare il bene
che si poteva e di attenuare i mali; e non si sdegnava, non prorompeva in
rinfacci di accuse e se non più rigioivano facili nell'anima immagini liete, il
coraggio gli stava sempre accanto a sostenerlo. Di questo atteggiamento e di
questo stato d'animo sono testimonianze le lettere scritte al fratello che gli
sopravvisse, che era andato a Parigi con la delegazione della Repubblica
Napoletana al Direttorio, delegazione che non fu neanche ascoltata e neppure
ricevuta. E' un idealismo senza illusioni psicologicamente e culturalmente
aperto
a certo storicismo che egli chiama fatalismo, quello con cui Ignazio Ciaja si
accinge a vivere la difficoltà di quei giorni ed egli non cede alle illusioni.
Siamo alla fine di un secolo che ha visto crollare il più grande, il più antico
trono d'Europa; siamo alla fine di un secolo che ha aperto la via alla
esperienza democratica e repubblicana nel mondo identificando la repubblica nel
senso antico della parola: governo di popolo, per il popolo. E Ciaja dice in
queste lettere, che Croce pubblicò molti anni dopo, molti decenni, un secolo e
mezzo dopo: « Il secolo d'Attila era segnatamente quello barbarico, come il
nostro sarà il secolo della Ragione e della Libertà »; le due parole, la «
Ragione » e la « Libertà » che si uniscono in quegli anni in cui la dea Ragione
occupa molte piazze d'Italia e molte statue e molti monumenti venivano fatti
alla dea Ragione contrapposta agli antichi simboli della trascendenza e della
religione rivelata « è dei secoli come delle persone ‑ insisteva Ciaja al
fratello ‑ che hanno sempre come passione dominante un carattere
esclusivo, credo che l'attuale guerra decida per sempre i destini d'Italia e
maturi quelli d'Europa. Napoli ‑ e per Napoli intendeva il Regno ‑
non può essere serva, ogni ragione politica me ne è garante ». E si inserisce
qui l'altro grande ideale di Ignazio Ciaja, la cultura, vista nelle sue più
moderne sollecitazioni ed articolazioni. Nelle lettere al fratello, che era
andato a Parigi per quella missione disperata di soccorso dei patrioti
napoletani, egli non manca di chiedergli ogni volta libri e opuscoli « ... tra
questi ti prego di mandarini il piano dell'Istituto Nazionale, quello del
Collegio di Francia e l'altro delle Scuole Centrali ».
E giova anche notare come nelle sue lettere non vi sia
soltanto la passione e il coraggio delle responsabilità, vi è anche il mondo
degli affetti familiari tutto incentrato sulla figura della madre, un mondo
irrinunciabile, forte di un'antica e sempre nuova stabilità, accanto al quale
affiora quello degli amici, soprattutto gli amici del paese nativo, di Fasano,
quelli che non si erano discostati da lui per il timore di compromettersi con
un reprobo politico. Poeta civile, nel senso più alto della parola, Ciaja
riusciva a riportare realtà ed affetti esterni ad una sua interiore religione
della libertà, come la chiamerà tanto tempo dopo Benedetto Croce, volgendo ogni
sentimento civile in moto dell'anima ed identificando cultura e libertà.
Continuiamo, diceva Croce, a raccogliere con pio
sentimento tutto quanto si riferisce agli uomini che in Napoli nel 1799, ‑
cominciando dall'ultimo presidente della Repubblica, presidente della
Repubblica per poche settimane, Ignazio Ciaja ‑, morirono per la libertà;
è un culto della nostra più alta tradizione che giova tenere sempre vivo nei
cuori.