Francesco Pignatelli Strongoli (1775-1853) |
INTORNO
ALLA GUERRA TRA
LA REPUBBLICA FRANCESE E IL RE DI NAPOLI ED ALLA RIVOLUZIONE CHE NE FU CONSEGUENZA OPUSCOLO DI
FRANCESCO PIGNATELLI STRONGOLI GENERALE DI BRIGATA ITALIANO (1800-1801) |
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Qualche tempo
prima che scoppiasse la guerra tra la casa d'Austria e la Francia, il Re di
Napoli cominciò i suoi preparativi. Il governo francese, che aveva ragioni per
dubitare delle intenzioni di una corte dominata dalla sorella di Maria
Antonietta, premendogli di conservare il commercio coi porti delle Due
Sicilie e temendo che non diventassero in séguito l'asilo e gli arsenali dei
suoi nemici, si affrettò ad incutere timore al Re di Napoli col mandargli una
flotta numerosa. Questa
spedizione; benché molto bella nell'apparenza, non produsse gli effetti che
si speravano. La corte, messa sull'avviso dal pericolo corso, accrebbe le
fortificazioni del Golfo di Napoli, fece nuovi preparativi, fu più cauta di
prima, si strinse segretamente con l'Inghilterra, aspettò il momento
favorevole, e dichiarò la guerra. La presa di
Tolone porse al governo di Napoli una propizia occasione per agguerrire le
sue truppe che erano così mandate a far la guerra in paese straniero, in
compagnia di bande già agguerrite di Spagnuoli e Piemontesi. Ma gli sforzi
dei Francesi, e la discordia che non tardò ad accendersi tra gl'Inglesi e gli
Spagnuoli, animati da antichi rancori e da un'insormontabile antipatia,
fecero tornare a Napoli quei reggimenti. La corte, fedele
al suo disegno di agguerrire successivamente i suoi soldati senza fare sforzi
troppo grandi, spedì in questo tempo un corpo di duemilacinquecento
uomini di cavalleria all'esercito austriaco di Lombardia. Colà questa truppa
si condusse molto bene, e si distinse particolarmente nel
proteggere la ritirata di Beaulieu da Alessandria fino alle Chiuse del
Tirolo. Al fatto d'armi di Borghetto alcuni squadroni del Reggimento della
Regina salvarono Beaulieu, ch'era stato sorpreso nel suo quartier
generale. Ma i rovesci
degli Austriaci distaccarono da essi il loro timido alleato, che aveva preso
alla guerra una parte secondaria. Chiese dunque pace, e l'ottenne a
condizioni poco onerose, perché così richiedevano gl'interessi commerciali
della Francia, e trattandosi, del resto, di un nemico che potea
far del male e che non era facile raggiungere. Lo stabilirsi
delle Repubbliche in Italia e l'avvicinarsi dei Francesi agli stati
napoletani furon causa di nuovi allarmi alla corte di Napoli, cosicché essa
non cessò di aumentar le proprie forze: finalmente, l'avvenimento al trono di
Paolo I e la spedizione d'Egitto fecero nascere una nuova lega più formidabile
di tutte le precedenti, cui il Re di Napoli non mancò di accedere. La lega
aveva bisogno di tempo per riunire le proprie forze e fare un gran colpo
tutto in una volta: era dunque per essa cosa essenziale fingere per qualche
tempo, e perciò l'alleanza fu stipulata secretamente. Il re di Napoli.
da sua parte, ordinò e fece proclamare lo stesso giorno, il 2 settembre 1798.
in tutto il regno una leva di quarantamila uomini. Una misura di questo
genere, che annunciava evidentemente intenzioni ostili, e il movimento che si
faceva nella corte, svelarono i suoi segreti. Il Direttorio esecutivo fece
tuttavia dei tentativi per dissuadere il Re di Napoli dal prender
parte alla nuova guerra che minacciava l'Europa. Egli poteva rendere grandi
servigi alle flotte nemiche per la posizione marittima dei suoi stati e
costringere le armate francesi, in quel tempo poco numerose, a far la guerra
ai due punti estremi d'Italia. Le ambasciate, i discorsi adulatori e gli
incensi diplomatici di certi ministri francesi non potevano più bastare a
rassicurare la corte di Napoli. Essa non aveva nessuna fede a queste
dimostrazioni amichevoli: l'invasione degli Stati romani e la sorpresa di
Malta (1) erano
motivi abbastanza forti per determinarla a profittar della prima crisi
che si presentasse e ad aiutare gli alleati con tutte le sue forze. Cosicché il
governo francese, prevedendo il partito che il Re di Napoli sarebbe per
prendere, avrebbe dovuto preparar in anticipazione i mezzi di respingere i
suoi attacchi, senza indebolire le forze della Lombardia. Gli Stati romani
avrebbero potuto fornire a propria difesa diecimila uomini di truppa che,
riuniti ai Francesi, sarebbero valsi assai meglio della leva del Re di
Napoli. Bastava perciò richiamare i reggimenti che erano stati licenziati, e
mettere alla loro testa ufficiali repubblicani. In quel paese,
in cui nel corso di un anno si erano venduti quasi tutti i beni dello Stato e
una gran parte di quelli della Chiesa, non sarebbe stato difficile di
mantenere durante questo tempo diecimila uomini di truppe, se il frutto della
rivoluzione si fosse fatto volgere un po' meno a vantaggio degli aggiotatori
e degli speculatori. E non si dica che i Romani non erano più adatti alle
armi: è questo un vecchio pregiudizio che l'esperienza ha smentito. Era il
pretesto dei nostri nemici segreti e dei vili ed interessati calunniatori
della nazione italiana. Gli Italiani non differiscono da ciò ché sono stati
nei tempi antichi se non per le circostanze. Il generale Bonaparte, che creò
nella Lombardia, il paese meno militare di tutta Italia in quel tempo, un
piccol esercito cisalpino, ebbe egli forse a pentirsene mai, lui o i suoi
successori? Bravi cisalpini, io vi ho visto nella campagna di Napoli
gareggiar di bravura coi Francesi: voi avete fatto un glorioso tirocinio in
Lombardia. La condotta del solo battaglione che si permise di organizzare a
Roma, il valore della guarnigione di Ancona, composta in gran parte
d'Italiani, son prove evidenti della mia affermazione. La Legione italica le
ha dato ora nuova forza. Ma mentre, il Re
di Napoli si affaccendava in preparativi, a Roma si era nell'inazione. Una
ricognizione militare fatta da un ufficiale del Genio su tutta la frontiera
del Regno di Napoli nei primi tempi che i Francesi arrivarono a Roma, era
restata inutile. Non si era fortificata nessuna posizione, né riparato alcun
forte o posto, di quelli che l'arte e la natura indicavano come propri alla
difesa delle frontiere degli Stati romani; non si era fatto nessun approvvigionamento
di campagna. La situazione dei Francesi era tale, in una parola, che, se il
sig. Mack avesse saputo fare, essi non potevano evitare la loro distruzione. I soccorsi dati
alla squadra del Nelson, che si avviava a combattere i Francesi;
l'accoglienza fatta dal Re a questo ammiraglio al suo ritorno e l'entrata
della squadra inglese nel porto di Napoli con aperto disprezzo dei trattati
con la Francia per cui il Re si era obbligato di non ricevere più di quattro
vascelli insieme appartenenti alle nazioni belligeranti; le insolenti e
pubbliche dimostrazioni che la Regina e la corte si permisero in questa
occasione sotto gli occhi dei ministri francesi; la scelta, finalmente, di un
generale tedesco che godeva di una grande riputazione, per comandar le truppe
napoletane, destarono il Direttorio esecutivo dal suo sopore. Fu nominato lo
Championnet a generale in capo dell'esercito di Roma e fu dato ordine al
Joubert di fargli giungere dei rinforzi. Lo Championnet
si affrettò ad arrivare a Roma con parecchi generali per fare i preparativi
di una campagna che era divenuta inevitabile. Egli non ebbe a lodarsi dello
stato delle cose. Credeva di trovare una divisione francese in buone
condizioni, un corpo considerevole di ausiliari ed un governo abbastanza
solidamente costituito da risparmiargli le cure dell'amministrazione ed
aiutarlo nel suo compito. Quale non dovette essere la sua meraviglia al
vedere le truppe francesi prive di tutto, le casse vuote, il governo nel
maggiore avvilimento, dipendente da due commissari in lotta tra loro, le
forze della Repubblica Romana quasi nulle e i suoi mezzi di difesa dissipati?
Io non mi fermerò a far la triste descrizione dello stato di questo paese,
interessante al pari che sventurato: questo argomento meriterebbe di essere
trattato a parte da una penna esperta, la quale mostrerebbe ai repubblicani
minutamente tutti i loro errori, ed essi ne trarrebbero lezioni per
l'avvenire. Mi contenterò di osservare che la causa principale delle sventure
di Roma fu il continuo cangiamento di commissari e di generali comandanti.
Non appena costoro cominciavano a conoscere gli uomini e gli affari, venivano
sostituiti; e tanti sconvolgimenti, quanti cangiamenti. L'arrivo
precipitoso dello Championnet e la marcia delle truppe, che dall'esercito di Lombardia
passavano a quello di Roma, scoprivano il disegno dei Francesi di mettersi
finalmente in guardia contro i Napoletani. La corte di
Napoli fu dapprima indecisa se attaccherebbe i Francesi prima che fossero
riuniti e preparati alla guerra, o se aspetterebbe che l'arrivo dei Russi
permettesse agli Imperiali di cominciare le ostilità. Il Re inclinava al
secondo partito, e ve l'avevano deciso i più prudenti consiglieri, i quali
avrebbero desiderato che l'esercito, riunito per la prima volta in grandi corpi
e per metà composto di reclute di due mesi, fosse stato meglio disciplinato
prima di misurarsi coi Francesi; che i generali stranieri, arrivati da
qualche settimana, avessero avuto il tempo di conoscere i loro soldati e di
essere da questi conosciuti; che si fossero lasciati impegnare i Francesi in
una grossa e terribile guerra prima di attaccarli; ed infine che si fosse
cominciato con lo stancare il nemico poco numeroso e con l'agguerrire le
truppe in fatti d'armi parziali prima di venire ai decisivi. La Regina, per
contrario, voleva che si piombasse sui Francesi; ed aveva, d'altronde, troppa
fiducia nell'abilità del generale Mack da dubitare che con sessantamila
uomini (2) egli
non avrebbe saputo battere diciassettemila repubblicani, sparsi sopra una
vasta distesa di territorio e di cui una porzione non sarebbe arrivata se non
fra alcune settimane. Ma, poiché non
si riusciva a decidere il Re, la Regina risorse all'inganno: l'Acton finse
una lettera dell'Imperatore e la consegnò ad un corriere del Re, chiamato
Ferreri che arrivava da Vienna: nella lettera si diceva che gl'Imperiali
attaccherebbero i Francesi su tutti i punti in un giorno indicato. E così non
fu più cosa difficile di ottenere il consenso del Re. S'intenderà facilmente
che la Regina non si sarebbe data tanta premura di cominciar la guerra se
questo non fosse stato il parere del Sig. Mack; ma non sarà egualmente
facile il concepire come mai questo generale, senza preparar le difese (3) che sarebbero state
necessarie se la sorte, sempre incerta, della guerra non fosse stata
favorevole al principio della campagna, senza aver formato magazzini da
assicurare una parte della sussistenza ad un esercito molto numeroso, il
quale entrava in un paese la cui cultura e il raccolto erano stati molto
scarsi l'anno precedente (4), potesse consigliare di cominciare la
guerra e vantarsi del consiglio. Le persone di buon senso non giudicavano
meno ridicolo il fatto che il general Mack, invece di condurre dalla Germania
ufficiali ricchi d'ingegno e di abilità, quali sarebbero bisognati a capo di
un esercito di reclute che si apparecchiavano a combattere i primi soldati
della terra, avesse preso con sè soltanto alcuni giovinotti tutt'altro che
capaci di istruire e condurre un esercito. Infine, questo generale mostrò
così poco tatto da scegliere come uno dei suoi aiutanti di campo un
patriotta, che non mancò nella campagna d'intralciare le sue disposizioni con
tutti i mezzi. Questo aiutante-generale, chiamato Massa, è stato in sèguito
generale d'artiglieria della Repubblica Napoletana, ed è morto ora, vittima
del tradimento del Nelson e del Re, appartenendo al numero di quelli che
avevano capitolato dopo una bella difesa (5). E non era il solo uffiziale repubblicano che
contasse lo stato maggiore dell'esercito napoletano. Se si riflette a
tutte queste circostanze e al tuono burbanzoso con cui il generale Mack
scriveva ai generali francesi, si acquisterà la convinzione, che una pazza
prosunzione facea perdere a costui il vantaggio che avrebbe dovuto dargli la
sua lunga esperienza. E, ricordando tutto il male che egli coi suoi aiutanti
di campo hanno detto dell'esercito napoletano quando non potevano giustificarsi
altrimenti, non si può osservare che la sua grande fiducia in questo
esercito al principio della guerra è bizzarramente opposta all'opinione che
egli se ne è formato in sèguito. Senza seguire
passo per passo le operazioni di questa campagna, della quale si troverà la
storia nella Memoria del general Bonnamy, io mi fermerò su quelle che
sembrano meritare maggiore attenzione. Si sa che il re
di Napoli entrò con la sua armata negli stati romani senza precedente
dichiarazione e intimò ai Francesi di ritirarsi: si sa che questi si
ritirarono senz'esser attaccati, fino al punto dove ad essi piacque di
fermarsi; si conosce anche la lettera del general Championnet al Mack per
chiedergli una spiegazione, e la risposta di quest'ultimo, piena d'orgoglio e
di minacce. Qual poteva essere lo scopo di questo singolare procedere del Re?
Credeva egli forse di dare un grande esempio di moderazione perchè non
dichiarava la guerra? Bisogna convenire che i suoi ministri conoscevano il
diritto delle genti come i suoi generali l'arte della guerra Lo Championnet
profittò maestrevolmente di questi spropositi del nemico. Ordinò al centro
della sua armata di ritirarsi lentamente fino a Terni, e far colà tutti gli
sforzi per impedire che i Napoletani non la staccassero dall'ala diritta; al
general Macdonald, che comandava l'ala diritta, di concentrar le sue forze
sparse nel Circeo, ritirar la guarnigione di Civitavecchia,
approvvigionar Castel S. Angelo, ritirarsi a marce forzate fino a Civita
Castellana, e prendervi posizione appoggiandosi alla fortezza di questo nome.
Per tal mezzo, egli riunì tutte le sue forze in poco tempo, e il nemico
perdette il vantaggio della sorpresa. Esaminando il
piano del general Mack, si vede che l'operazione dalla quale egli
s'imprometteva maggior successo era quella di tagliar l'ala diritta dal
centro dell'esercito francese. Il corpo, che da
Aquila sboccò per Rieti, fece il primo tentativo e si diresse su Terni, donde
avrebbe dovuto scacciare i Francesi e impadronirsi della montagna di Somma.
In tal caso, ogni comunicazione sarebbe stata intercettata tra Macdonald e il
resto dell'esercito. Per effettuar questo disegno la colonna del centro dei
Napoletani sarebbe dovuta esser forte del doppio; il sig. Mack, ritenendo con
sè circa quarantamila uomini all'ala sinistra, non aveva potuto impiegare se
non un corpo di sei a sette mila uomini per l'operazione più importante. Il
general Lemoine, che, con un pugno di gente, dovè far prodigi di valore per
respingere il nemico a Terni, sarebbe stato obbligato a ritirarsi se il loro
numero fosse stato molto più considerevole. Bisogna aggiungere quest'altro
errore del general Mack a quello già notato dal general Bonnamy, di non aver
manovrato egli stesso per la sinistra del Tevere e per la magnifica strada di
Cantalupo. Fallita
quest'operazione, il general Mack cercò di sopraffare col numero il corpo di
combattimento del general Macdonald, che l'aspettava nella bella posizione di
Civita Castellana. Il general Mack ci darà senza dubbio, nella Memoria che si
dice ch'egli stia per pubblicare, la descrizione di questa battaglia, nella
quale ottomila uomini ne battettero più di trentacinquemila, sostenuti da una
formidabile artiglieria: io farò soltanto notare che non ci voleva meno di
tutti questi spropositi da parte del nemico per operare un simile prodigio.
Il centro dei Napoletani attaccò alla punta del giorno; l'ala sinistra un'ora
prima del tramonto; l'ala destra provò tutto il giorno di passare un torrente
che la separava dai Francesi, cannoneggiò molto, e non entrò mai in azione.
Si crederà a stento che, mentre si dava battaglia, il campo dei Napoletani
era restato piantato ed ingombro d'equipaggi alcune miglia dietro la loro
linea. Il general
Bonnamy, che non ha mai mancato di rendere ad ogni corpo il tributo di lodi
che meritava, dimentica in questa occasione la Legione Romana. Benché in
generale sia cosa poco importante in fatto di storia di sapere che il tal
corpo si sia più o meno distinto, vi sono tuttavia dei casi in cui giova
conoscere i minimi fatti che posson servir da scalini per risalire a grandi
verità: il che mi determina a parlarne per minuto. Le finanze della
Repubblica Romana erano così limitate che il governo non aveva potuto mai
completar la prima Legione. Il solo battaglione che se n'era formato, pagato
in assegnati o in cedole mentre tutto l'esercito francese era pagato in
contante, armato male e mal vestito, era un quadro fedele dell'avvilimento
del suo paese. Poco tempo prima della guerra con Napoli, un uffiziale zelante
e repubblicano, essendosi dato molta pena per raccogliere alcune centinaia di
disertori napoletani da servire alla formazione del secondo battaglione, fu
arrestato, e sarebbe stato condotto innanzi ad un consiglio di guerra se
l'opinione dei suoi superiori e dei suoi camerati non l'avesse giustificato:
i disertori furono però rimandati fuori del territorio romano. Questa legione
era forte di circa mille uomini, quando si cominciò la guerra. Dugento
restarono in Castel S. Angelo con altrettanti Francesi: il resto fece parte
della divisione del Macdonald. Non ostante i mali trattamenti che aveva
sofferti, e malgrado il modo in cui si era abbandonata Roma alla presenza dei
Napoletani e senz'esserne molestati, tanto che si credette generalmente
nell'armata che ciò accadesse in conseguenza di un accordo tra il governo
francese ed il Re, essa fu fedele alle bandiere tricolori, e mostrò al pari
dei Francesi maggior voglia di battersi che di ritirarsi. Alla battaglia di
Civita Castellana essa era all'ala destra, e benché si trovasse al fuoco per
la prima volta, eguagliò in valore il corpo polacco. Le due legioni
battettero completamente l'ala sinistra del nemico, tre volte più forte,
comandata dal giovane Maresciallo di Sassonia. Questo maresciallo, che
avrebbe dovuto girare la diritta dei Francesi, ritardò tanto nella sua
marcia, che un'ora appena prima del tramonto lo si vide sboccare dal bosco di
Falari alla testa di un corpo di ottomila uomini, che marciavano su di una
sola colonna senza avanguardia e con tutti i suoi cannoni e cassoni negli
intervalli dei battaglioni. Tre battaglioni piombarono su di lui in
quest'ordine e rovesciarono la testa della colonna, che scompigliò il resto
del corpo. Alcuni uffiziali, che servivano in questo tempo nelle truppe del
Re di Napoli, m'hanno assicurato che, al momento che sboccava dal bosco, il
Maresciallo di Sassonia fu avvisato che il centro dell'esercito francese
aveva battuto il Mack, e che a questa notizia egli ordinò la ritirata, invece
di spiegarsi prontamente contro il nemico che giungeva. Questo falso
movimento fu causa della sua disfatta. Il principe non lasciò il campo di
battaglia se non dopo essere stato gravemente ferito: su quel campo aveva
dato insieme prove di bravura e d'imperizia. Mentre spiegava
tutte le sue forze contro l'esercito francese, il general Mack non aveva dato
alcuna disposizione per assediare Castel S. Angelo, che seimila uomini
avrebbero potuto prendere in men di quindici giorni. Egli si contentò di
notificare al comandante del castello che ogni colpo di cannone che quegli avrebbe
tirato sulla città di Roma sarebbe stato il segnale della morte di uno dei
Francesi restati all'ospedale. La storia non potrà far comprender meglio da
quale spirito fossero animati la corte di Napoli e il suo generale, se non
col riferire la corrispondenza di costui coi generali francesi. La sconfitta del
corpo napoletano a Terni, e la perdita della battaglia di Civita Castellana
non tolsero ogni speranza al general Mack: egli era ancora tre volte più
forte dei Francesi. Tornò dunque alla sua idea di tagliar via dal resto
dell'esercito il maresciallo di campo Metch di traversar le montagne della
Sabina con seimila uomini, piombar sulla retroguardia del general Macdonald,
impadronendosi della posizione d'Otricoli, e chiudergli il passo. Il Metch
eseguì l'ordine; ma, non appena giunto ad Otricoli, il general Macdonald lo
raggiunse, lo battette, l'obbligò a tornar nella Sabina. Il general Metch
segnalò il suo soggiorno ad Otricoli col massacro dei prigionieri e col
saccheggio. Dopo essere stato battuto, andò a chiudersi col suo corpo nel
villaggio di Calvi sopra una montagna, dove fu subito investito dai Francesi;
ed il general Mathieu non tardò molto ad intimargli la resa, nè egli a
rendersi. Io ho visto quest'uffiziale, nel momento che faceva deporre le armi
ai suoi soldati, in uno stato di ripugnante ubbriachezza, e il giorno dopo,
disperato dal suo eccesso e delle conseguenze, e vergognoso di comparire
innanzi ai suoi uffiziali. Se il general
Mack avesse fatto attaccar vigorosamente le poche truppe, che il Macdonald
aveva lasciate per difendere il passaggio del Tevere mentre scacciava il
Metch dalle sue spalle, il Macdonald si sarebbe trovato in un terribile
imbarazzo. Niente di più
irregolare della ritirata del general Mack. Parte precipitosamente da Cantalupo,
appena saputo della resa al nemico del Metch con la sua brigata, e non si
ferma se non ad Albano, dimenticando, che per la posizione del Tevere e del
Castel S. Angelo e la vicinanza dei Francesi, il corpo del maresciallo Damas,
che si trovava a due marce al nord-est di Roma, sarebbe stato tagliato dal
suo esercito, subito che questo avrebbe abbandonata la città. Se fosse
restato un giorno solo di più a Roma, Damas l'avrebbe raggiunto, e la sorte
della campagna non sarebbe stata ancora decisa. Questo differimento non
avrebbe neanche fatto rischiare all'esercito napoletano d'esser molestato
nella sua ritirata da Roma, perchè, avendo guadagnato una marcia sui Francesi
con la sua impreveduta sparizione, l'avanguardia di questi ultimi sarebbe
appena arrivata al Teverone, stanca da una lunga via, mentre i Napoletani
riuniti sarebbero usciti da Roma, tagliando i ponti di questo torrente alle
loro spalle. Riferirò tuttavia di aver sentito dir da un ufficiale patriotta
(6) dello stato
maggiore del sig. Mack, ch'egli aveva intercettato il primo ordine di
ritirata che il Mack spediva al Damas. Se questo fatto è vero, l'uffiziale di
stato maggiore rese un gran servigio ai repubblicani. In ogni caso, il sig.
Mack commise un errore elementare col non lasciare un corpo destinato a
protegger l'arrivo del Damas a Roma. Accorgendosi dei suo errore, il general
Mack spedì il maresciallo Diego Pignatelli verso Roma per disimpegnare il
Damas; ma era già troppo tardi. I Francesi erano padroni della città e il
Damas si ritirava verso le maremme toscane. Il Pignatelli s'avanza di notte
fino a un miglio da Roma, cade in un'imboscata presso la porta di San
Giovanni ed è fatto prigioniero, dopo essersi lungamente battuto ed essere
stato ferito da parecchi colpi di sciabola (7). La condotta
dell'esercito francese nella sua marcia verso Napoli preparava già la
controrivoluzione dei paesi dove portava la guerra: e ne fu conseguenza
l'imbarazzo in cui si trovò innanzi al Volturno. Le contribuzioni enormi ed
arbitrarie, il saccheggio le violenze, avevano sollevato i popoli, che
dapprima non avevano preso parte alle lotte dei due eserciti, ed erano usciti
incontro ai Francesi con l'olivo della pace. L'opinione che i popoli si formano
dei loro padroni dipende dalla loro condotta nei primi tempi. Quando un
esercito entra in un gran paese per fermarvisi, i suoi capi debbono adoprar
tutti i mezzi di guadagnar la stima pubblica: debbono mostrar la maggiore
moderazione e non opprimere i popoli con contribuzioni eccessive,
specialmente quando non si sia ancora saldamente stabiliti ed occorra
conservarsi delle riserve per l'avvenire. A veder l'esercito nella sua
marcia, si sarebbe detto che aveva in mente di punire un paese ribelle
abbandonandolo ad ogni sorta di orrori. Questa condotta produsse una reazione
spaventosa e terribile. E tuttavia, se si volesse dar ascolto a coloro che si
fanno accecare dalla passione, i risentimenti delle popolazioni erano
puramente gratuiti, e i loro delitti nascevano da istinti più che da cause
prossime. Né era meno
improvvido politicamente di attraversar tante provincie senza prima
organizzare un governo forte e fedele: così i due Abruzzi e i paesi bagnati
dal Liri e dal Garigliano, dopo il passaggio dell'esercito caddero in una
completa anarchia. Deboli guarnigioni in due o tre fortezze in mezzo a vaste
provincie, di cui gli abitanti son feroci ed armati, non bastano a tenerli in
freno, quando non si sia usata verso di essi una buona condotta e non si sia
organizzato tra di essi un partito favorevole. Questi paesi non furono mai
più sottomessi e i loro abitanti hanno molto contribuito in sèguito a
soggiogare le repubbliche Napoletane e Romana. Il sig. Mack e
il suo esercito erano stati presi da un così grande spavento che, invece
d'aspettare il nemico nelle belle posizioni che coprono le frontiere del
Regno da Itri fino a Pescara, d'appoggiare i fianchi a questa fortezza e a
quella di Gaeta, di compier le linee ch'erano state cominciate in parecchi
luoghi, si ritirarono precipitosamente fino al Volturno senz'esser
perseguitati dal nemico. Il Mack lasciò le fortezze sprovviste di tutto e in
disordine. Da quel punto la Regina e l'Acton, vili nell'avversità quanto
prosuntuosi nella prospera fortuna, risolsero di passar in Sicilia. Il Re, incapace
di prender una risoluzione, non voleva né combattere né fuggire. I suoi amici
gli mostravano che, partendo, perdeva il regno per sempre; che bisognava
cercar di ottener la pace, facendo dei sacrifizi; e che, se fosse stato necessario
decider della sorte del paese con le armi, i suoi soldati e i suoi popoli,
incoraggiati dalla sua presenza, avrebbero potuto far pentire il nemico del
suo ardimento; ed infine, ch'egli avrebbe avuto sempre il tempo di ritirarsi,
avendo una squadra a sua disposizione. Queste ragioni fecero molto effetto
sull'animo del Re, cosicché la Regina, per volgerlo alle sue idee, cercò la
via dell'inganno da cui in altri casi aveva tratto gran profitto. Il Re
mandava il suo corriere Ferreri a bordo dell'Ammiraglio Inglese con alcuni
dispacci; parecchi assassini, appostati per ordine dell'Acton ed aventi alla
loro testa un tal De Simone emissario della Regina, l'aspettano al passaggio,
l'indicano al popolo come uno spione francese e lo scatenano su di lui. L'uomo
è preso, in un momento ucciso, e la sua testa messa su di un'asta è portata
sotto i balconi del Re. Con questo stratagemma la Regina e l'Acton ottennero
il doppio scopo, di spaventar l'animo timido del Re e di liberarsi di un
testimone importuno dei loro intrighi, che diventava pericoloso per la sua
familiarità col Re. Nel tempo stesso con false deposizioni si finse di
scoprire una mina sotto l'arsenale, che è a lato del Palazzo. Fu allora cosa
facile far credere a Ferdinando che i Giacobini tramavano contro la sua vita,
che il popolo non aveva più freno, e ch'egli sarebbe perito o pel furore
degli unì o pel tradimento degli altri, se non si metteva in salvo con la
fuga. Si risolse in fine e s'imbarcò secretamente con la sua famiglia. A
questo modo sua moglie gli faceva perder l'onore col trono! I delitti della
Regina le facevano temere il castigo che l'era dovuto: essa non poteva aver
nessuna fiducia in un popolo di cui era stata la disgrazia durante venti
anni... Nel partire, dava ancora delle disposizioni che dovevano metter il
colmo al disordine e alla pubblica miseria: alcuni comandanti di vascello
inglesi ebber ordine di far colare a fondo i bastimenti di guerra che non
erano in istato di partire, e distruggere sessanta barche cannoniere e tutti
gli ordigni dell'artiglieria e della marina da guerra. Il vicerè Francesco
Pignatelli (il vecchio) ricevette ordini di armare il popolaccio e scatenarlo
contro i patriotti e i Francesi. La devozione alla patria dei corpi
d'artiglieria e di marina impedì in parte l'esecuzione delle prime
disposizioni: la profonda scelleratezza o l'imbecillità del general
Pignatelli gli fece purtroppo eseguir bene le seconde. La Regina non
era meno ingiusta verso i suoi più fedeli sostenitori. Un certo marchese
Vanni, mostro orribile, inventore del sistema della inquisizione delle
opinioni, flagello del suo paese e consigliere della Regina, le chiese invano
un posto nei suoi vascelli per sottrarsi ai risentimenti dei comuni nemici.
Il Vanni, fremente di rabbia ed oppresso dai rimorsi, si ritirò nella sua
camera, scrisse queste parole sempre mai memorabili: " L'ingratitudine e
l'ingiustizia della corte, il gran numero di nemici e la mancanza di asilo,
m'obbligano a togliermi la vita... Serva il mio esempio di lezione ai cortigiani!
"; e, preso con mano ferma l'istrumento di morte, si uccise. Ombre dei nostri
fratelli, periti per la difesa della patria e pel tradimento dei nostri
infami nemici, accogliete l'omaggio ch'io vi rendo, votando all'eterna
ignominia il nome dei vostri persecutori! Fortunatamente
pei Francesi, Napoli era nell'anarchia, e la discordia dilaniava l'esercito
nemico, mentre essi si trovavano nelle più pericolose condizioni, chiusi alla
destra tra il Volturno e il Garigliano, il primo difeso da un esercito e da
un forte, il secondo dagli insorti che avevano tagliato a pezzi i
distaccamenti che stabilivano le comunicazioni con Gaeta, e ne guardavano il
forte; il centro, circondato da masse immense di contadini e costretto
ogni giorno a nuovi combattimenti per conservar le posizioni; l'ala sinistra,
errante negli Appennini, sempre molestata dagli insorti. Dopo la fuga
della Corte i patriotti (8) acquistarono molto potere nella Città (9), che spesso non andava
d'accordo coi vicerè. Il general Mack, da sua parte, comunicava al vicerè,
ch'egli aveva ragioni di non fidarsi di parecchi uffiziali e che temeva
d'esser tradito. In queste circostanze il vicerè, ignorando ciò che accadeva
alle spalle dell'esercito francese, domandò un armistizio, e l'ottenne a
condizioni che servivano solo a differir la resa. Benche' alcune
gradazioni d'opinione dividessero i membri della Città, essi erano
tutti di accordo in ciò, di far volgere a vantaggio dello Stato gli
errori della Corte. Avevano anche cominciato ad aprirsene col vicerè; ma
costui, incapace di grandi concezioni, rigettò sdegnosamente ogni disegno di
novità. Un uomo d'ingegno ed amante del suo paese, al posto del
Pignatelli, sarebbe stato il liberatore della sua patria. Alla partenza del
Re egli aveva a sua disposizione un esercito di più di ventimila uomini: la
parte sana della nazione, al solo nome dell'indipendenza nazionale, era
pronta a secondarlo con tutte le forze: il popolo era ancora subordinato, e col
dirigerlo si sarebbe potuto cavar gran partito dalla sua energia (10). Il vicerè, divenuto
capo della nazione, avrebbe trovato nello Championnet un amico ed un
sostegno; lo Championnet era repubblicano ed aveva il cuore buono. I lazzaroni, che
cercavano il pretesto per abbandonarsi a tutti gli eccessi, subito che seppero
che si trattava coi Francesi, accusarono i militari di tradimento, corsero in
folla al Palazzo e domandarono al vicerè le armi e le fortezze della città.
Il vicerè, spaventato dal tono dei patriotti e dai disegni della Città, autorizzato
d'altronde dagli ordini della Regina, accordò loro tutto ciò che domandavano.
Ma, vedendo che il primo uso che facevano della loro forza era di maltrattare
e disarmare i militari, accorgendosi che non gli s'obbediva più, si squagliò
secretamente. Dopo la sua partenza i lazzaroni, che non riconoscevano
più padrone, vollero darsi dei capi a loro gusto, e scelsero due giovani
signori dei più noti per l'aspetto guerriero e per la bellezza della persona:
erano i principi di Moliterno Pignatelli e di Roccaromana Caracciolo; ed
imposero ad essi di dar le disposizioni necessarie per la difesa della
capitale. I patriotti, convinti della inferiorità delle proprie forze,
stabilirono tra di loro, come il partito più adatto al caso, di mescolarsi
nella folla, prendere su di essa l'ascendente che danno i talenti
sull'ignoranza, e raffrenare con questo mezzo la sua tendenza agli eccessi.
Essi pervennero finanche a circondare i due capi e far loro intendere la voce
della ragione. Intanto,
l'esercito francese s'era concentrato: aveva messo guarnigione in Capua,
s'era riposato per qualche giorno, e si preparava ad entrar nella capitale,
provocato dai lazzaroni, che avevano violato l'armistizio ed attaccato alcuni
dei suoi posti. Lo Championnet, avendo ricevuto parecchie deputazioni dalla
parte dei patriotti, che gli promettevano d'impadronirsi di Castel S. Elmo
quando l'esercito sarebbe pronto ad attaccare, e sentendo quanto ciò gli
faciliterebbe la conquista della città, si concentrò con essi e marciò su
Napoli. I patriotti s'erano già assicurati dei generali dei lazzaroni, e li
avevano indotti a favorire i loro progetti, avendo mostrata ad essi
inevitabile la loro perdita se avessero osato opporsi all'entrata
dell'esercito vittorioso. Ne ottennero così un ordine di entrar una notte
nella cittadella, sotto pretesto d'un rinforzo che i generali inviavano ai
lazzaroni; ma questi rifiutano d'aprir le porte a gente che non conoscono,
sospettano una sorpresa e fanno fuoco. Il giorno dopo i patriotti fecero un
secondo tentativo. Alcuni uffiziali d'artiglieria s'offrono ai lazzaroni per
servir la cittadella, che ne aveva gran bisogno, e vi s'introducono, avendo
al loro sèguito dei militari e dei borghesi travestiti da artiglieri; i
generali accordano permessi d'entrata a parecchi patriotti, e questi ne
richiamano ancora degli altri. Questo pugno di repubblicani si affeziona
presto i lazzaroni a forza di liberalità, s'impadronisce del comando, e,
fingendo di stabilire un servizio più esatto, dispone regolari e numerose
pattuglie dal lato delle colline dalle quali i Francesi avrebbero potuto
avvicinarsi. Avendo fatto uscire con uno stratagemma un gran numero di
lazzaroni, piombano su quelli che restano e li incatenano senza quasi versare
una goccia di sangue. Perché non posso io nominare tutti questi bravi
repubblicani, che resero un gran servizio alla loro patria e ai loro
liberatori! Alcuni di essi che leggeranno questa Memoria, indovineranno la
cagione del mio silenzio. Forse in tempi più felici mi sarà dato di
designarli alla riconoscenza della nazione. La presa
di Castel S. Elmo fu il segnale al quale l'esercito si mise in movimento.
Tutte le sue colonne avevano alla loro testa dei patriotti, che, combattendo
pei Francesi, e valorosamente guidandoli, vegliavano nel tempo stesso alla
conservazione della città e intercedevano presso gl'irritati vincitori col
loro credito in favore dei cittadini innocenti, che la soldatesca avrebbe
potuto confondere col popolaccio insorto. Tra questi patriotti si contavano i
due fratelli Pignatelli, nipoti del viceré. L'uno di essi, quello stesso che
comandava il battaglione romano a Civita Castellana, allora capo di brigata
addetto allo stato maggiore del generale in capo, fu staccato dal general
Kellermann da Capodimonte con due battaglioni per gettarsi nella cittadella,
dove i patriotti erano assediati, e dar di là il segno dell'assalto a tutto
l'esercito, coll'inalberare la bandiera francese accanto alla napoletana. Il
Pignatelli scivolò coi suoi attraverso le colline, che da Capodimonte
riescono a S. Elmo coronando la città: egli ebbe a vincere gli ostacoli della
natura e sostenne nel tempo stesso, durante quattr'ore, un combattimento
disuguale e sanguinoso, attraversando cinque miglia di continue imboscate e
di quartieri insorti. Per errore, il general Bonnamy indica a quel posto il
capo di brigata Girardon: questo generale, che combatteva in un altro punto,
non entrò nel castello se non la notte col general Kellermann (11). E debbo far osservare,
a proposito della presa di Napoli, che se i patriotti non avessero occupato
prima S. Elmo, paralizzato gli sforzi dei lazzari con tutti gl'inganni,
impedito ai militari di unirsi ad essi, e se, in ultimo non li avessero
attaccati alle spalle mentre quelli sostenevano lo sforzo dell'intero
esercito, questo non sarebbe entrato nella città dopo due giorni di
combattimento. In tal caso la sua situazione sarebbe diventata assai più
pericolosa che non era al Volturno. Io ho acquistato la certezza che le
popolazioni numerosissime dei contorni di Napoli aspettavano in armi il
risultato del primo assalto, specie quelle della parte meridionale che non
avevano ancor visto i Francesi; inoltre, da otto a diecimila uomini, che
tornavano per mare dalla Toscana (12), sarebbero arrivati prima della presa della città,
se questa fosse avvenuta un po' più tardi. Sono ben lungi dal pretendere con
ciò d'attenuar la lode dovuta all'esercito e al suo capo, che tanto fece per
romper le catene della plebe traviata. Il mio scopo è di far intendere quanto
i repubblicani di questo paese fosser degni dell'amicizia del governo
francese, quanto il popolo stesso fosse capace di quella energia che basta
dirigere per ottenerne i maggiori risultati. La condotta che il governo
francese tenne rispetto ad essi, e il vile abbandono che ordinò dopo averli
messi nell'impossibilità di difendersi, appariranno così anche più
delittuosi. Vediamo
ora qual uso i vincitori fecero della vittoria. Non appena i Francesi furono
entrati nella capitale, tutte le città del Regno fino a Reggio innalzarono
l'albero della libertà; e i patriotti di tutte le provincie inviarono
deputati a Napoli per ricevere istruzioni sulla nuova forma di Governo.
Questi deputati esponevano unanimamente che bisognava affrettarsi a dirigere
con vantaggio l'entusiasmo della novità, prodotto dalla stanchezza del giogo
di ferro sotto il quale i popoli erano stati tenuti durante l'ultimo regno;
ed aggiungevano che, nello stato in cui essi avevano lasciato le provincie,
c'era da temere ch'esse non cadessero nell'anarchia, che le campagne
formicolavano di soldati erranti, che i partiti erano di fronte ed armati
che, finalmente, se si fosse perduto un momento di tempo, l'oro della Sicilia
e le relazioni dei partigiani della corte con questa per mezzo della
flottiglia inglese, avrebbero acceso presto la guerra civile. La debolezza
dell'esercito francese non permetteva al suo capo di spargerlo in piccoli
corpi a grandi distanze: egli avrebbe dovuto dunque raccogliere i resti
dell'esercito napoletano, mettere alla loro testa uffiziali repubblicani, che
abbondavano, specie nelle armi dell'artiglieria, del genio e della marina, e
mandarli prontamente nelle piazze forti, la libertà del paese sarebbe stata
assicurata per sempre. Per riuscir in questo disegno il generale in capo
avrebbe dovuto lasciare al governo napoletano qualche mezzo finanziario e
sceglier capi che avessero capacità militare ed opinioni repubblicane. Sventuratamente
si tenne una condotta affatto opposta; e con l'ingiustizia e con operazioni
affrettate si perdette la stima delle popolazioni. I commissari francesi
confiscarono, a nome del loro governo, i beni nazionali, sotto lo specioso
pretesto che appartenevano al Re: sequestrarono i beni immensi dei cavalieri
di Malta, che formavano una classe numerosissima di gentiluomini che non
avevano quasi altro appannaggio, e ai quali non dettero alcuna indennità;
spogliarono il Museo (13), specie quello d'antichità, che formava il più bell'ornamento di
Napoli; confiscarono per ordine superiore finanche le pietre nascoste nelle
viscere della terra, impadronendosi delle rovine venerabili di Pompei e
d'Ercolano. Si appropriarono la Topografia nazionale, istituto che faceva
onore all'Italia e sorpassava tutto ciò che esisteva in questo genere; e
perché non restasse speranza di ristabilimento, si fecero offerte al famoso
Zannoni per indurlo ad andare in Francia (14). La rapacità e il vandalismo di parecchi individui
giunse fino a distruggere le belle fabbriche delle seterie di S. Leucio e a
portar via fino gli ordigni della famosa fabbrica di porcellane di Napoli.
Gl'impiegati dell'esercito, da parte loro, si rendevano padroni di tutti i
magazzini di effetti militari, dai quali avrebbero potuto prendere
tutto ciò ch'era necessario ai loro soldati e lasciar il resto al governo
napoletano (15). Il generale in
capo metteva al tempo stesso una contribuzione di dieci milioni di ducati
napoletani (ossia di circa cinquanta milioni di lire). Ed era enorme, perché
pesava sulla sola città di Napoli, giacché nessuna delle provincie era
sottomessa. Il Re, nel
partire, aveva tolto alla città i fondi dello stato e gli effetti delle
pubbliche banche: i particolari erano impoveriti dalle esazioni fatte dalla
corte per levar un esercito al disopra delle sue forze: così il pagamento
della maggior parte di questa contribuzione divenne impossibile e servì ad irritar
senza nessun profitto i proprietari, dei quali si aveva tanto bisogno. Non
sarebbe stato più saggio di metter fuori l'imposizione a poco a poco, e man
mano che si progrediva nel sottomettere il Regno, e compensar sempre,
nell'animo della nazione, lo scontento che producono queste sorte
d'operazioni coi benefici politici, che il voto di tutti sollecitava? Non
parlerò delle contribuzioni parziali, che erano state messe dovunque i
Francesi eran passati: dirò soltanto, che non si faceva caso di queste piccinerie,
che ogni generale ed ogni capo di partito era un proconsole, e che la
responsabilità era parola sconosciuta. Si vede
chiaramente che, non lasciandosi al governo napoletano nessun mezzo
finanziario, esso non poteva provvedere alle spese necessarie per organizzare
un esercito e per mantenerlo. Alcuni giorni dopo la presa di Napoli, si vide
arrivare nel suo porto la guarnigione di Livorno ed il corpo del general
Damas, i quali, di comune accordo ufficiali e soldati, sprezzando gli ordini
di questo generale e di alcune creature della corte che avrebbero voluto che
si fosse fatto vela per la Sicilia, avevano preferito offrire i loro servizi
alla Repubblica. Questi militari
furono subito disarmati e inviati a Portici, come quelli riuniti a Capua da
un ufficiale napoletano che serviva nell'esercito francese. Gli otto o
novemila soldati radunati a Portici, per la mancanza di soldo e per
l'incapacità o cattiva volontà del capo, sparirono prontamente, seguendo
l'esempio del resto dell'esercito napoletano. Il general Championnet aveva
confermato i due principi Moliterno e Roccaromana nel grado ad essi conferito
dai lazzaroni. Lo Championnet aveva voluto compensarli della presa di Castel
S. Elmo, ch'essi si attribuivano; ma, facendo così, non aveva approfondito il
fatto nè esplorato l'opinione dei patriotti. Questi furono vivamente punti da
tale scelta: ricordavano il favore di cui quei giovani signori avevano goduto
a corte e la loro avversione per la democrazia: negavano ad essi la gloria di
aver preso il forte, nel quale s'eran piuttosto rifugiati dopo ch'era stato
conquistato dai patriotti. Il Moliterno, che d'altronde avrebbe potuto servir
utilmente come militare, essendo antico ufficiale ed avendo fatto con
distinzione la campagna di Lombardia, fu presto incaricato di una commissione
presso il governo francese. Il solo capo delle truppe napoletane divenne
allora il Roccaromana, giovinotto uscito dalla classe vergognosa dei
ganimedi, vano quanto incapace del posto confidatogli. Ed è quel medesimo
che, tradendo in sèguito la repubblica quando la rovina divenne certa, andò a
mettersi a capo degl'insorti. La sua incapacità e la sua mala fede non
facevano alla formazione dell'esercito repubblicano minor male di quello che
aveva prodotto l'angustia delle finanze della Repubblica. Un capo stimato
avrebbe trovato col suo credito il modo di provvedere ai primi bisogni
dell'esercito. Tutte le classi mostravano una devozione illimitata nei primi
tempi dello stabilimento della Repubblica Napoletana: alcune per convinzione o
per inclinazione, altre per interesse, credendo il potere regio perduto per
sempre. Qual partito un uomo di genio non avrebbe cavato da simili
disposizioni? Infatti, un mese
prima della partenza dei Francesi, quando il generale Roccaromana fu finalmente
destituito, si videro spuntare in poco tempo cinque o seimila uomini di
truppa, benché la dispersione dei soldati, che nella maggior parte avevano
raggiunto gli insorti, rendesse la formazione dell'esercito
straordinariamente difficile. Ma io tornerò su questo fatto nella mia seconda
Memoria, in cui parlerò dei casi successi dalla partenza dello Championnet
fino alla caduta della Repubblica Napoletana. In questi primi tempi,
l'indifferenza colla quale il generale in capo guardava la formazione dell'esercito
napoletano, l'usurpazione fatta da lui e dai commissari civili di tutti i
mezzi finanziari, lo stato d'umiliazione del governo, la cattiva scelta del
generale napoletano, e la mancanza di fiducia dei patriotti in costui, furono
le vere cause che impedirono la formazione di questo esercito. È vero che il
generale Championnet aveva nominato ministro della guerra un francese; ma,
senza mezzi, in poco accordo col governo (il quale era dolente nel suo
segreto dell'introduzione dei Francesi nei primi posti per timore di una
dipendenza cui non avrebbe voluto sottostare), senza esser secondato da un
abile generale, non poteva fare nessun bene. Mentre a Napoli
si era nell'inazione e si lasciava sfuggir l'occasione di assodar per sempre
la libertà della Repubblica, i nemici di questa lavoravano assiduamente a
scavare un abisso sotto i suoi passi barcollanti. Essi raccoglievano con ogni
cura, e spedivano nelle provincie, le deliberazioni della contribuzione dei
cinquanta milioni di lire, della confisca dei beni nazionali e dell'ordine di
Malta a profitto dei conquistatori. I loro fidi, mettendoli sotto gli occhi
delle popolazioni, esageravano le vessazioni dei Francesi e le sventure dei
paesi sottomessi alla loro dominazione. Nel tempo stesso, reclutavano vigorosamente
per tutta la distesa del regno e raccoglievano corpi nelle provincie più
lontane. In ventidue mesi i realisti innalzarono la bandiera della rivolta
nelle belle provincie di Puglia e cominciarono la guerra civile in Calabria,
avendo alla loro testa il Cardinale Ruffo, che era sostenuto dagli sbarchi
dei Siciliani e degli Inglesi. Da allora le
comunicazioni di Napoli con alcune delle provincie furono tagliate e con
altre divennero difficili e precarie; il che fece temere una carestia
in Napoli e spinse il generale in capo ad ordinare una spedizione in
Puglia, il più ricco paese di tutto il regno per biade e bestiame. Risalendo dai
fatti alle loro cause, si è costretti a convenire; 1.) che i capi
dell'esercito francese dettero in questa occasione prove irrecusabili,
ch'essi sapevano meglio vincere che non profittare della vittoria, e
spiegarono maggior valore che non idee politiche; 2.) che i patrioti di
Napoli erano degni della libertà a cagione degli sforzi che avevano
fatto per ricuperarla, e che l'energia stessa del popolo basso, ben diretta,
avrebbe potuto servire a consolidarla; 3.) che la dispersione dell'esercito
napoletano fu la causa prima dell'insurrezione delle provincie; 4.) che
bisogna tuttavia attribuire la maggior parte di questo errore agli ordini del
governo francese, i quali obbligavano il generale in capo ad autorizzare ed
ordinare l'esazione di contribuzioni enormi ed impolitiche, e ad usurpare
tutte le risorse dello Stato; 5.) che il sistema di spoliazione è altrettanto
vergognoso quanto funesto ai vincitori. Io potrei
parlare della cattiva condotta di alcuni membri del governo napoletano, e
potrei dire quanto il generale in capo fosse mal secondato da alcuni Francesi
ch'ebbero parte alle cose di Napoli; ma, pensando che i particolari e le
personalità sarebbero inutili allo scopo della mia opera; lascio ad altri il
determinar la parte che parecchi individui hanno avuto nel fare la disgrazia
di quelle belle contrade. Per ciò che riguarda il governo napoletano,
confesserò che la maggioranza di questo era buona e che bisogna rimpiangere
che esso avesse le mani legate quando avrebbe potuto fare il bene. Avrò
occasione di parlarne a lungo nella mia seconda Memoria. Continuerò il
racconto degli avvenimenti di Napoli dalla partenza dello Championnet sino
alla caduta della Repubblica, quando il generale Macdonald avrà fatto
comparire la storia che ha scritta del suo comando. Aspetto che egli abbia
parlato della sua ritirata da Napoli per fare alcune osservazioni su questo
avvenimento, che è stato causa di tanti mali in tutta l'Italia meridionale. In questa
seconda Memoria si risponderà alle invettive del cittadino Méjan contro il
governo napoletano e alle sue calunnie contro i repubblicani, che fecero nei
castelli Nuovo e dell'Uovo tutta la difesa possibile nelle circostanze
critiche nelle quali si trovavano. Si dimostrerà che questo uffiziale, che
finge (16)
ignorare che quasi tutti i membri del governo napoletano, tutti i generali, i
personaggi più notevoli per talenti e per virtù sono periti a Napoli pel
tradimento orribile della Megera austriaca e dell'Ammìraglio-carnefice,
avrebbe potuto salvar tanta brava gente se avesse fatto eseguire la
capitolazione da lui confermata e garantita. Méjan avrebbe ottenuto che le
navi cariche di repubblicani e pronte a partire avessero messo la vela, se
egli avesse minacciato di dar fuoco a Napoli non eseguendosi la capitolazione
nello spazio di due giorni. Pochi mortai e cannoni a S. Elmo, prima che il
nemico abbia montato un pezzo contro il forte, sono ben fatti per incuter
timore ai padroni di Napoli: me ne appello agli uffiziali di artiglieria e
del genio, che conoscono la situazione di questo forte. Non era lo stesso il
caso quando, con un lungo armistizio, si fu dato tempo al nemico di tracciare
le sue linee, di trascinar su per le colline che circondano S. Elmo
l'artiglieria e gli altri materiali necessari per far l'assedio del forte, e
di costruire anche batterie mascherate. (1)
Si vuole che i Francesi non s'impadronissero di Malta se non per prevenire i
coalizzati. L'hanno confessato anche degli Inglesi; cfr. l'opera del Sig.
Eyton. (2) Secondo le più esatte informazioni, posso
assicurare che l'esercito napoletano attaccante non superava questo numero,
compresavi la guarnigione di Livorno, giacchè la maggior parte dei corpi,
specie quelli di nuova leva, non erano completi. Dal lato dei Francesi, e
comprendendovi mille Romani, vi erano diciassette mila uomini portanti le
armi. (3) Le fortezze del Regno erano nel peggior
stato. Il signor Mack aveva fatto anche cessare il lavoro di fortificazione
delle posizioni, che si era cominciato prima di lui, sdegnando queste
precauzioni come inutili. (4) Da tempi immemorabili scendevano ogni
anno dagli Abbruzzi, paesi montagnosi e popolosi, negli Stati romani
parecchie migliaia contadini per lavorar la terra e pel raccolto. Stabilita
la Repubblica Romana, il governo napoletano non permise più queste relazioni,
vantaggiose egualmente ai due stati. Questa e stata la causa della carestia
terribile che afflisse La Repubblica dal principio della guerra fino al
raccolto, e che s'è rinnovata poco tempo dopo. (5)
Il general Massa aveva sottoscritto egli stesso la capitolazione dei castelli
Nuovo e dell'Uovo col Micheroux plenipotenziario del Re, col Foote capitano
di vascello inglese e coi generali dei Turchi e dei Russi. L'originale di
questa capitolazione è tra le mie momento che scrivo. (6)
Questo ufficiale, chiamato Manthonè, è stato in sèguito ministro della guerra
della Repubblica Napoletana. Di lui si parlerà molto nella mia seconda
Memoria. Egli è morto vittima del tradimento degli Anglo-insorti. (7) Questo bravo ufficiale, che dopo
l'abbandono del Re servì la Repubblica con la stessa devozione, è morto nelle
prigioni di Napoli, dove lo si era tatto languire a lungo nella più orribile
miseria. (8) Parecchie cause avevano concorso a formar
a Napoli un numeroso partito di repubblicani. La filosofia e la
giurisprudenza, che erano coltivate con successo da moltissimo tempo, erano
state messe in voga dal Genovesi, Filangieri e molti altri dotti. Il momento
era favorevole pel progresso dei lumi, giacchè il gabinetto di Napoli,
bisticciatosi con la Santa Sede a causa della Chinea, aveva rilasciato molto
i freni al rigore per la stampa e pei libri proibiti. La Corte incoraggiava
anche gli scrittori di opuscoli contro la superstizione e i diritti temporali
del Pontefice. La Massoneria, che copriva con un velo misterioso ed
ingannatore il più gran disegno che si sia giammai concepito, era allora di
moda. La libertà di leggere e di scrivere sparse in pochissimo tempo il gusto
dei principi moderni, e la gioventù in ispecie li accolse avidamente. La
corte ne teme' gli effetti subito che la rivoluzione scoppiò in Francia.
D'allora in poi questa breve libertà morale fu seguita da un sistema di
terribile rigore contro tutti quelli che venivano accusati d'essere amici
delle massime novatrici; e questa denominazione fu estesa a tutti gli uomini
illuminati, che non erano intimamente legati con la Regina e coi ministri.
Questi rigori divennero presto una terribile persecuzione, che pesò
specialmente sui giovani delle due prime classi sociali, ed irritò presto la
parte sana della nazione. (9) La Città era una magistratura, che
esercitava l'autorità che l'aristocrazia napoletana s'era riservata nel
sottoporsi al governo monarchico; barriera perciò contro l'accrescimento del
potere regio, e protezione dei diritti del popolo. La forza di quest'ultimo,
che la considerava come la sua egida, l'aveva fatta resistere a lungo agli
attentati dei re, fino all'ultimo regno sotto il quale la politica della
corte, di guadagnarsi il popolo basso con ogni sorta di carezze e di
liberalità, le aveva fornito il mezzo di opprimerlo. La Città era
formata da due membri di ciascuno dei sei Sedili nei quali la nobiltà era
divisa, e di due del settimo composto dei nobili nuovi. Il Re l'ha abolita
quando è ridiventato padrone di Napoli. Vedi il Dispaccio a
questo proposito. (10) Questa parola non spiaccia ai partigiani
del Dupaty. La storia delle rivoluzioni di Napoli proverà che questo autore
aveva gran torto di dire, che niente si fa in questo paese di ciò che non si
può fare senza un certo grado di tensione nella fibra. Il Dupaty aveva
percorso l'Italia, aveva dell'ingegno, voleva scrivere; ma non aveva
osservato abbastanza profondamente l'Italia per assegnare con giustezza le
cause dei fatti che si presentavano ai suoi occhi. Ma che importa? Con un po'
di spirito e d'erudizione si riesce sempre a farsi leggere; fece degli
epigrammi, e fu alla moda. O dotti d'Italia, la vostra pigrizia non si
smuoverà mai agli oltraggi che fanno al buon senso ed alla patria vostra gli
scrittori superficiali? (11) Essendo scopo di quest'opera di
rettificare alcuni errori sfuggiti al general Bonnamy e di riempire le sue
lacune, non si sarà meravigliati che io menzioni questo solo ufficiale nel
parlare della presa di Napoli: egli è stato il solo dimenticato. (12) La guarnigione di Livorno e il corpo del
Damas, che s'era ritirato ad Orbetello. (13) Non ebbero il tempo di portar via tutto
ciò che avrebbero voluto. (14) Nel punto che questa Memoria stava per
stamparsi, m'è giunta la notizia seguente: "Quando i Francesi fecero la
conquista del regno di Napoli, tra gli altri oggetti presi per conto della
loro nazione, vi furono parecchie opere preziose del museo di Ercolano, i
rami di parecchie delle dodici provincie del Regno, incisi sotto la direzione
del Rizzi Zannoni. Quest'ultimo vendette all'agente francese tutti i rami che
gli appartenevano per una somma di venticinquemila lire, che riscosse
immediatamente. Ritiratisi i Francesi da Napoli, lo Zannoni si riunì con essi
a Roma. Ma, entrato l'esercito napoletano, egli si presentò nella qualità di
commissario del Re delle due Sicilie e si riprese, non solo i rami che aveva
già venduti, ma anche quelli ch'erano stati tolti a Napoli. - Firmato: IL
CITTADINO MARSILLI DIRETTORE DELL'UFFICIO TOPOGRAFICO DELL'ESERCITO ". Risulta da
questa notizia che in nome della Repubblica Francese erano stati presi rami
geografici e topografici dall'Ufficio topografico di Napoli, ed alcuni pochi
n'erano stati comprati dal Rizzi Zannoni (il quale, posso assicurarlo, non ne
aveva molti di sua proprietà). Senza entrare in tutto ciò che concerne la
condotta del cittadino Zannoni, io domando a coloro che avevano ordinato che
si portassero via i rami appartenenti all'Ufficio di Napoli, in che cosa quei
rami erano necessari alla Francia?... Qual diritto poteva avere un
conquistatore, che non voglia somigliare agli Attila ed agli Omar, di
spogliare un paese delle arti più liberali ed utili agli usi della società
civile? E questo quando anche non ne risulta nessun vantaggio per lo
spogliatore! Erano questi i benefici della libertà che si proclamava? Perchè
non portarono via anche quei papiri bruciati, che svolgono tra le mani
del Padre Antonio e del suo allievo i pensieri che furono ad essi confidati
tanti secoli fa dai nostri padri greci, e dai romani? Ma sarebbero stati
cenere nelle loro mani, e perciò non furono portati via. (15)
Quando il governo napoletano volle vestire alcuni battaglioni di soldati, fu
costretto a comprar da questi stessi impiegati gli effetti ch'essi avevano
trovato nei magazzini. Non potendo una gran parte di questi effetti di
vestiario servir all'uso dell'esercito francese, a cagion della differenza
dei colori e della forma, ed essendo quelli di biancherie e calzature molto
copiosi, se gl'impiegati non ne avessero fatto materia di speculazione. Il
governo napoletano vi avrebbe trovato tutto ciò ch'era necessario pel
vestimento ed equipaggiamento d'un esercito. (16) Vedete la sua Difesa. |