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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
PREFAZIONE
ALLA SECONDA EDIZIONE
Quando questo Saggio fu
pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul medesimo furon molti e
diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del quale l'autore
ha professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori. Il tempo però ed
il maggior numero han resa giustizia, non al mio ingegno né alla mia dottrina
(ché né quello né questa abbondavano nel mio libro), ma alla imparzialitá ed
alla sinceritá colla quale io avea in esso narrati avvenimenti che per me non
eran stati al certo indifferenti.
Della prima edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e,
ad onta delle molte richieste che ne avea, io avrei ancora differita per
qualche altro tempo la seconda, se alcuni, che han tentato ristamparla senza il
mio assentimento, non mi avessero costretto ad accelerarla.
Dopo la prima edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha
pronunziati, ed ho cercato, per quanto era in me, di usarne per rendere il mio
libro quanto piú si potesse migliore.
Alcuni avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá
io non nego che nella prima edizione alcuni fatti ho omessi, perché li
ignorava; altri ho taciuti, perché ho creduto prudente il tacerli; altri ho
trasandati, perché li reputava poco importanti; altri finalmente ho appena
accennati. Ho composto il mio libro senza aver altra guida che la mia memoria:
era impossibile saper tutti gl'infiniti accidenti di una rivoluzione, e tutti
rammentarli. Molti de' medesimi ho saputi posteriormente, e, di essi, i piú
importanti ho aggiunti a quelli che giá avea narrati. Ad onta però di tutte le
aggiunzioni fatte, io ben mi avveggo che coloro, i quali desideravano maggior
numero di fatti nella prima edizione, ne desidereranno ancora in questa
seconda. Ma il mio disegno non è stato mai quello di scriver la storia della
rivoluzione di Napoli, molto meno una leggenda. Gli avvenimenti di una
rivoluzione sono infiniti di numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono
contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per questa stessa ragione, è
impossibile che tra tanti avvenimenti non vi sieno molti poco importanti e
molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi li ho trascurati, i secondi
li ho riuniti sotto le rispettive loro classi. Piú che delle persone, mi sono
occupato delle cose e delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse
desideravano esser nominati; è piaciuto a moltissimi, che amavano di non
esserlo. I nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è nominato che
all'istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo
vincere e dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è tale,
quale i tempi, le idee, i costumi, gli accidenti voglion che sia: quando avete
ben descritti questi, a che giova nominar gli uomini? Io sono fermamente
convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di
sostituire ai nomi propri delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne
ritrarrebbe, sarebbe la medesima. Finalmente, nella considerazione e nella
narrazione degli avvenimenti, mi sono piú occupato degli effetti e delle
cagioni delle cose che di que' piccioli accidenti che non sono né effetti né
cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono
il modo di poter usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a riflettere.
Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad
aggiugnere eran in minor numero di quello che si crede. Ragionando con molti di
coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti, spesso mi sono avveduto che ciò
che essi desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi desideravano nomi,
dettagli, ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione
distrarrò io l'attenzione del lettore tra un numero infinito d'inezie e lo
distoglierò da quello ch'io reputo vero scopo di ogni istoria, dalla
osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un momento solo,
ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il
nome di “storia”; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di
scriverne. Ma è forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una
storia?
Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome
essa nasceva da un equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con
quell'avvertimento che, nella prima edizione, leggesi al principio del secondo
volume, e che ora inserisco qui:
Tutte le volte che in quest'opera si parla di “nome”, di “opinione”, di
“grado”, s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che
influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e
delle controrivoluzioni.
Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che,
quando nel primo tomo, pagina 34, io parlo di coloro che furono perseguitati
dall'inquisizione di Stato, e li chiamo “giovinetti senza nome, senza grado,
senza fortuna”, abbia voluto dichiararli persone di niun merito, quasi della
feccia del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte si
ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna;
che niuna nazione conta tanti che bramassero una riforma per solo amor della
patria; che in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú de'
repubblicani... Nell'istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano
sparsi in Napoli piú che altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli,
sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della
capitale e delle province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di
lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi, che superava l'esperienza dell'etá,
faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui
il popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre
senza il popolo una rivoluzione; e questo appunto è quello che rende
inescusabile la tirannica persecuzione destata contro di loro.
Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si
vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello che allora disse in difesa
de' repubblicani il rispettabile presidente del Consiglio, Cito; e Cito era
molto lontano dall'ignorare le persone o dal volerle offendere.
Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna,
Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in
cui allora era il popolo napoletano, si richiedevano almeno trenta milioni di
ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto, che essi non
l'aveano. La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che
abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un
miserabile sovrano.
Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere
intanto atto a produrre una rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava
la prima magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un reggente di Vicaria,
molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore
al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.
Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra,
Colonna, Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti
fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali a
produr la rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era
necessario, ed a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio,
capo de' lazzaroni del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma
intanto Paggio, e non Pagano, era l'uomo del popolo, il quale bestemmia sempre
tutto ciò che ignora.
Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i miei;
ma è necessario ricordare che, in un'opera destinata alla veritá ed
all'istruzione, è necessario riferire tanto i giudizi miei quanto quelli del
popolo. Ciascuno sará al suo luogo: è necessario saperli distinguere e
riconoscere; e perciò è necessario aver la pazienza di leggere l'opera intera,
e non giudicarne da tratti separati.
Questo Saggio è stato
tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il quale, senza che ne
conoscesse l'autore credette il libro degno degli studi suoi: piú grato gli
sono, perché lo ha tradotto in modo da farlo apparir degno dell'approvazione
de' letterati di Germania; de' favorevoli giudizi de' quali io andrei superbo,
se non sapessi che si debbono in grandissima parte ai nuovi pregi che al mio
libro ha saputo dare l'elegante traduttore. Pure, tra gli elogi che il libro ha
ottenuti, non è mancata qualche censura, ed una, tra le altre, scritta collo
stile di un cavalier errante che unisce la ragione alla spada, leggesi nel
giornale del signor Archenholz, intitolato: La
Minerva. L'articolo è sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io
non conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo istesso valentissimo
scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto egualmente a sostener contro di
me colla penna e colla spada che il signor barone di Mack sia un eccellente
condottiero di armata, ad onta che nel mio libro io avessi tentato di far
credere il contrario. In veritá, io dichiaro che valuto pochissimo i talenti
militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio Saggio, avea presenti al mio pensiero la
campagna di Napoli e la seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da
Mack: vedeva nell'una e nell'altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di
rovesci; e credei poter ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del
generale. Ciò che è effetto di sola fortuna non si ripete con tanta simiglianza
due volte. Quando poi pervenne in Milano l'articolo del signor Dietrikstein,
era giá aperta l'ultima campagna. L'amico, che mi comunicò l'articolo, avrebbe
desiderato che io avessi fatta qualche risposta. Ma, due giorni appresso, il
cannone della piazza annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all'amico
l'articolo, e vi scrissi a' piè della pagina: “La risposta è fatta”.
Questo mio libro non deve esser considerato come una storia, ma bensí
come una raccolta di osservazioni sulla storia. Gli avvenimenti posteriori han
dimostrato che io ho osservato con imparzialitá e non senza qualche acume. Gran
parte delle cose che io avea previste si sono avverate; l'esperimento delle
cose posteriori ha confermati i giudizi che avea pronunziati sulle antecedenti.
Mentre quasi tutta l'Europa teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io
il primo, ho vendicato l'onor della mia nazione, ed ho asserito che le
disgrazie da lui sofferte nelle sue campagne non eran tanto effetto di fortuna
quanto d'ignoranza. Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi
era in tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt'i
tentativi de' collegati dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte
le vittorie che avessero potuto ottenere; e tutto ciò perché le vittorie
consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si perdono
inutilmente se son prive di consiglio, né vi è consiglio ove o non vi è scopo o
lo scopo è tale che non possa ottenersi.
Desidero che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti de'
quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione.
Troverá che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una
predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le
antecedenti mie osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi
errori: sempre lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa alternativa
di speranze e di timore, e quella sempre temeraria, questo sempre precipitoso;
moltissima fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e perciò nessuna cura
delle forze proprie; non mai un'operazione ben concertata; nella prima lega, il
trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di ogni
ragione e di ogni opportunitá; nella seconda, l'invasione dello Stato
pontificio fatta prima che l'Austria pensasse a mover le sue armate, le
operazioni del picciolo corpo che Damas comandava in Arezzo incominciate quando
le forze austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato
segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché si pensava di
infrangerlo; i russi e gl'inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era
stata decisa in Austerlitz; l'inutile macchia di traditore, e l'inopportunitá
del tradimento, e l'obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni di
uomini divenire, per colpa de' suoi ministri, quasi il fattore degl'inglesi e
cedere il comando delle sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un generale
russo. Ricercate le cagioni di tutti questi avvenimenti, e trovate esser sempre
le stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere dall'Inghilterra,
ove avea messe in serbo le sue ricchezze; l'ignoranza delle forze della propria
nazione, la nessuna cura di migliorare la di lei sorte, di ridestare negli
animi degli abitanti l'amor della patria, della milizia e della gloria; lo
stato di violenza che naturalmente dovea sorgere da quella specie di lotta, che
era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un ministro
straniero che volea tenerlo nella miseria e nell'oppressione; la diffidenza che
questo stesso ministro avea ispirata nell'animo de' sovrani contro la sua
nazione; tutto insomma quello che io avea predetto, dicendo che la condotta di
quel gabinetto avrebbe finalmente perduto un'altra volta, ed irreparabilmente,
il Regno.
Avrei potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella
degli avvenimenti posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione
a' tempi ne' quali avrò piú ozio e maggior facilitá di istruirmene io stesso,
ritornato che sarò nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso
sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto cangiare al
libro che avea pubblicato nel 1800. Quando io componeva quel libro, il gran
Napoleone era appena ritornato dall'Egitto; quando si stampava, egli avea
appena prese le redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima
impresa di ricomporre le idee e gli ordini della Francia e dell'Europa. Ma io
ho il vanto di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli
posteriormente ha fatte; ed, in tempi ne' quali tutt'i princípi erano
esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella
moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giustizia, e che
si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo
grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl'iddii han
data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritte al
mio amico Russo sul progetto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come un
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quegli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici. La Francia non ha
incominciato ad aver ordine, l'Italia non ha incominciato ad aver vita, se non
dopo Napoleone; e, tra li tanti benefíci che egli all'Italia ha fatti, non è
l'ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia patria
Giuseppe.
Lettera
dell'autore a N.Q.
Quando
io incominciai ad occuparmi della storia della rivoluzione di Napoli, non ebbi altro
scopo che quello di raddolcire l'ozio e la noia dell'emigrazione. È dolce cosa
rammentar nel porto le tempeste passate. Io avea ottenuto il mio intento; né
avrei pensato ad altro, se tu e gli altri amici, ai quali io lessi il
manoscritto, non aveste creduto che esso potesse esser utile a qualche altro
oggetto.
Come
va il mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i
francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e
dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva piú a
lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza
che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sí che io sia
stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso
ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver
altro che fare, sia diventato autore. “Tutto è concatenato nel mondo”, diceva
Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio!
In
altri tempi non avrei permesso certamente che l'opera mia vedesse la luce. Fino
a ier l'altro, invece di princípi, non abbiamo avuto che l'esaltazione de' princípi; cercavamo la
libertá e non avevamo che sètte. Uomini, non tanto amici della libertá quanto
nemici dell'ordine inventavano una parola per fondare una setta, e si
proclamavan capi di una setta per aver diritto di distruggere chiunque seguisse
una setta diversa. Quegli uomini, ai quali l'Europa rimprovererá eternamente la
morte di Vergniaud, di Condorcet, di Lavoisier e di Bailly; quegli uomini, che
riunirono entro lo stesso tempio alle ceneri di Rousseau e di Voltaire quelle
di Marat e ricusarono di raccogliervi quelle di Montesquieu, non erano
certamente gli uomini da' quali l'Europa sperar poteva la sua felicitá.
Un
nuovo ordine di cose ci promette maggiori e piú durevoli beni. Ma credi tu che
l'oscuro autore di un libro possa mai produrre la felicitá umana? In qualunque
ordine di cose, le idee del vero rimangono sempre sterili o generan solo
qualche inutile desiderio negli animi degli uomini dabbene, se accolte e
protette non vengano da coloro ai quali è affidato il freno delle cose mortali.
Se
io potessi parlare a colui a cui questo nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblio ed il disprezzo appunto di tali idee fece sí che la nuova sorte, che
la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi divenisse per costei,
nella di lui lontananza, sorte di desolazione, di ruina e di morte, se egli
stesso non ritornava a salvarla.
-
Un uomo - gli direi, - che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto
conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ali de'
venti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi, atterriti coloro che eransi
uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue
vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve
fare per il bene dell'umanitá. Dopo aver infrante le catene all'Italia, ti
rimane ancora a renderle la libertá cara e sicura, onde né per negligenza perda
né per forza le sia rapito il tuo dono. Che se la mia patria, come piccolissima
parte di quel grande insieme di cui si occupano i tuoi pensieri, è destino che
debba pur servire all'ordine generale delle cose, e se è scritto ne' fati di
non poter avere tutti quei beni che essa spera, abbia almeno per te
alleviamento a quei tanti mali onde ora è oppressa! Tu vedi, sotto il piú dolce
cielo e nel piú fertile suolo dell'Europa, la giustizia divenuta istrumento
dell'ambizione di un ministro scellerato, il dritto delle genti conculcato, il
nome francese vilipeso, un'orribile carneficina d'innocenti ch'espiano colla
morte e tra tormenti le colpe non loro; e, nel momento istesso in cui ti parlo,
diecimila gemono ancora ed invocano, se non un liberatore, almeno un
intercessore potente.
Un
grande uomo dell'antichitá che tu eguagli per cuore e vinci per mente, uno che,
come te, prima vinse i nemici della patria e poscia riordinò quella patria per
la quale avea vinto, Gerone di Siracusa, per prezzo della vittoria riportata
sopra i cartaginesi, impose loro l'obbligo di non ammazzare piú i propri figli.
Egli allora stipulò per lo genere umano.
Se
tu ti contenti della sola gloria di conquistatore, mille altri troverai, i
quali han fatto, al pari di te, tacere la terra al loro cospetto; ma, se a
questa gloria vorrai aggiungere anche quella di fondatore di saggi governi e di
ordinatore di popoli, allora l'umanitá riconoscente ti assegnerá, nella memoria
de' posteri, un luogo nel quale avrai pochissimi rivali o nessuno.
L'adulazione
rammenta ai potenti quelle virtú de' loro maggiori, che essi non sanno piú
imitare; la filosofia rammenta ai grandi uomini le virtú proprie, perché
proseguano sempre piú costanti nella magnanima loro impresa...
NB.
Ogni volta che si parlerá di moneta di Napoli, il conto s'intenda sempre in
ducati: ogni ducato corrisponde a quattro lire di Francia.
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