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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
III
STATO D'ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
In
breve tempo li francesi si videro vincitori e padroni delle Fiandre, dell'Olanda,
della Savoia e di tutto l'immenso tratto ch'è lungo la sinistra sponda del
Reno. Non ebbero però in Italia sí rapidi successi; e le loro armate stettero
tre anni a' piedi delle Alpi, che non potettero superare, e che forse non
avrebbero superate giammai, se il genio di Bonaparte non avesse chiamata anche
in questi luoghi la vittoria.
Quando
l'impresa d'Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si
trovò alla testa di un'armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla
Francia nel momento del suo maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza
ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi avventurieri,
risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello specialmente
di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non val nulla.
Se
le campagne di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani
fecero in paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali
conquistarono la Macedonia. Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano
che non avea nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali né nazioni
guerriere: solo nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata,
nazione agguerrita ed audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non
aveano il genio, sapevano almeno la pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la
tattica, cangiò la pratica dell'arte; e le pesanti evoluzioni de' tedeschi
divennero inutili come le falangi de' macedoni in faccia ai romani. Supera le
Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una
guerra di cinque anni, privato di buona porzione de' suoi domini, abbandonato
dagli austriaci, ridotti a difendere il loro paese, a sottoscrivere un
armistizio, forse necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo
di deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea
fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non fu che una serie continua di
vittorie.
L'Italia
era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre
qualche resistenza. Bonaparte fu sí destro da dividere i loro interessi. Questa
è la sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le quali han giá guadagnata la
riputazione delle armi: ciascuno brama la loro amicizia, ciascuno procura distornare
una guerra che teme. Cosí i romani han combattuto sempre i loro nemici ad uno
ad uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega italica.
Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di Napoli e di Sardegna, la
prima delle quali s'incaricò d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i
“savi” di questa repubblica alle proposizioni del residente napolitano
risposero che nel senato veneto era giá quasi un secolo che non parlavasi di
alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma che, se mai la lega fosse
stata stretta tra gli altri principi, non era difficile che la repubblica vi
accedesse. Ma, quando il gabinetto di Vienna ebbe cognizione di tali
trattative, vi si oppose acremente e mostrò con parole e con fatti che piú
della rivoluzione francese temeva l'unione italiana!
Allora
si vide quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice, non solo perché
divisi in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il piú
grave de' mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio,
protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema generale di Europa, senza aver
guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitú e la protezione,
avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in questi ultimi
tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de' nostri avi
antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte dell'universo, ma
neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini, quando, divisi tra noi,
ma indipendenti da tutto il rimanente dell'Europa, eravamo italiani, liberi ed
armati.
Gli
austriaci, rimasti soli, non poterono sostener l'impeto nemico: tutta la
Lombardia fu invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo.
Bonaparte era giá poco lontano da Vienna, l'Europa aspettava da momento a
momento azioni piú strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una
pace, colla quale essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e
dell'importante piazza di Magonza, e l'Austria riconosceva l'indipendenza della
repubblica cisalpina, in compenso della quale le si davano i domíni della
repubblica veneta. Questa, col risolversi troppo tardi alla guerra, altro non
avea fatto che dare ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua
ruina.
Per
qual forza di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due
secoli avea distrutta ogni virtú ed ogni valor militare, che avea ristretto
tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in
poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima
aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de' sudditi e, piú
che ogni nemico esterno, temer doveano la virtú de' propri sudditi? Non so che
avverrá dell'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino,
la distruzione di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sará sempre per
l'Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il
primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi
l'oprar virtuoso e nobile; io credo esser giá sommo vantaggio il veder tolto
l'antico errore per cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo
fama di sapienti reggitori di Stato.
Il
trattato di Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le potenze contraenti.
L'Austria, sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se rimaneva ancora
qualche altro oggetto a determinarsi, era facile prevedere che a spese de' piú
piccoli principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche dippiú. Ma era
facile egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati
colla guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai
pensieri di pace.
Il
governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco,
rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come
l'aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di
entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che essi
bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli ordini di Roma.
Quindi i romani conservarono meglio e piú lungamente l'apparenza di liberatori
de' popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per
vendere a piú caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una
contraddizione tra i proclami de' generali e le negoziazioni de' ministri, tra
le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue
contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di speranze
e di timori.
Giá da questo ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio avea sol per poco sospesa la democratizzazione di tutta l'Italia. Il re di Sardegna non era che il ministro della repubblica francese in Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano nulla. Berthier finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio governo teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato dell'Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla deve riunirla, e non si può riunire senza cangiare il governo di Roma. L'indifferenza colla quale l'Italia riguardò tale avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove opinioni avean fatto negli animi degl'italiani.
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