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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
VI
INQUISIZIONE DI STATO
I
nostri affetti, preso che abbiano un corso, piú non si arrestano. L'odio segue
il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore. La regina, che non
amava la nazione, temeva di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso,
ha bisogno, al pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò male
della nazione fu da lei ben accolto.
Le
novitá delle opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi
mezzi ai cortigiani per guadagnare il suo cuore. Acton non mancò di servirsene
per perder Medici e qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il
freno e si portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un
esempio. I nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di far delle corse
a cavallo per Chiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto
Acton volle dar a credere alla corte, che essi volessero rinnovare le corse
olimpiche. Qual rapporto tra le corse de' nostri giovani napolitani e quelle
de' greci? E, quando anche quelle fossero state un'imitazione di queste, qual
male? qual pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su queste
corse, come se si fosse trattato della marcia di venti squadroni nemici che
piombassero sulla capitale.
Alcuni
giovani entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie, leggevano ne' fogli
periodici gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di loro
o, ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro
parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza grado,
senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale
di sangue col nome di “Giunta di Stato” per giudicarli, come se avessero giá
ucciso il re e rovesciata la costituzione.
Pochi
magistrati, tra coloro che componevano la Giunta, amanti veracemente del re e
della patria, vedendo che il primo, il vero, il solo delitto di Stato era
quello di seminar diffidenze tra il sovrano e la nazione, ardirono prendere la
difesa dell'innocenza e proporre al re che la pena de' rei di Stato mal si
applicava a pochi giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che
di aver parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato ciò che era meglio
esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero corretti coll'etá e
coll'esperienza, che avrebbe smentite le brillanti ma fallaci teorie onde erano
le loro menti invasate. I mali di opinione si guariscono col disprezzo e
coll'obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai i filosofi. Ma, se voi
perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il sentimento
produce l'entusiasmo; l'entusiasmo si comunica; vi inimicate chi soffre la
persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente
che la condanna; e finalmente l'opinione perseguitata diventa generale e
trionfa.
Ma,
ove si tratta di delitto di Stato, le piú evidenti ragioni rimangono
inefficaci. Imperciocché di rado un tal delitto esiste, e di rado avviene che
un uomo attenti con atto non equivoco alla costituzione o al sovrano di una
nazione: il piú delle volte si tratta di parole che vaglion meno delle minacce,
o di pensieri che vagliono anche meno delle parole. Tali cose vagliono quanto
le fa valere il timore di chi regna(7). Guai a chi ha
ascoltato una volta le voci del timore! Quanto piú ha temuto, piú dovrá temere.
Molto temeva la regina di Napoli, ed Acton voleva che temesse di piú. Le
frequenti impressioni di sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano
quasi alterato il di lei fisico e turbata interamente la serie e l'associazione
delle sue idee. Persone degne di fede mi narrano che non senza pericolo di
dispiacerle taluno le attestava la fedeltá de' sudditi suoi.
Si volle del sangue, e se n'ebbe. Furono
condannati a morte tre infelici, tra' quali il virtuoso Emmanuele de Deo, a cui
si fece offrire la vita purché rivelasse i suoi complici, e che in faccia
all'istessa morte seppe preferirla all'infamia.
Ecco
un esempio di ciò che possa e che produca il timore negli animi, una volta
turbati. Nel giorno dell'esecuzione della sentenza si presero quelle
precauzioni che altre volte si erano trascurate e che anche allora erano
superflue. Si temeva che il popolo volesse salvare tre sciagurati,
che appena conosceva; si temeva una sedizione di circa cinquantamila
rivoluzionari, che per lo meno si diceva dover esser in Napoli. Intanto, le
truppe che quasi assediavano la cittá, gli ordini minaccevoli del governo,
tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto piú leggiero, che in
altri tempi sarebbe stato indifferente, doveva turbarlo; temeva i sollevatori,
temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il minimo timore dovea
produrre, come difatti produsse, in una gran massa di popolo un'agitazione tumultuosa.
Cosí i sospetti del governo rendono piú sospettoso il popolo. Da quell'epoca il
popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da se stesso senza veruna
polizia, fu piú difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche feste furono fatte
con maggiori precauzioni, ma non furono perciò piú tranquille.
Si
sciolse la prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da tanti orrori;
ma, pochi mesi dopo, si vide in campo una nuova congiura ed una Giunta piú
terribile della prima. Si vollero allontanati tutti que' magistrati che
conservavano ancora qualche sentimento di giustizia e di umanitá. Si mostrò di
volere i scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala, Vanni,
Guidobaldi si misero alla loro testa. La nazione fu assediata da
un numero infinito di spie e di delatori, che contavano i passi, registravano
le parole, notavano il colore del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi
fu piú sicurezza. Gli odii privati trovarono una strada sicura per ottener la
vendetta, e coloro che non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro
medesimi, che la sete dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni.
Che si può difatti conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dá le
ricchezze, le cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un
uomo onesto a chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si
risponde che “si faccia prima del merito”? Per “farsi del merito” s'intendeva
divenir delatore, cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito
aveano tanti, i nomi de' quali la giusta vendetta della posteritá non deve
permettere che cadano nell'obblio. La regina, indispettita contro un sentimento
di virtú che la massima parte della nazione ancora conservava, diceva
pubblicamente che “ella sarebbe un giorno giunta a distruggere quell'antico
pregiudizio per cui si reputava infame il mestiere di delatore”. Tutte queste e
molte altre simili cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in
picciola parte vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose,
o vere o false che sieno, sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da
molti si credono, perché rendono piú audaci gli scellerati e piú timidi i
buoni. Che se esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que'
ministri i quali colla loro condotta dánno occasione a dirle e ragione a
crederle. Per cagioni intanto di queste voci, una parte della nazione si armò
contro l'altra; non vi furono piú che spie ed uomini onesti, e chi era onesto
era in conseguenza un “giacobino”. Vanni avea detto mille volte alla regina che
il Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir veridico, e colla sua
condotta li creò.
Tutt'i
castelli, tutte le carceri furono ripiene d'infelici. Si gittarono in orribili
prigioni, privi di luce e di tutto ciò ch'era necessario alla vita, e vi
languirono per anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né la loro
condanna, senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi
tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e sarebbero usciti
tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era
allor il direttor supremo di tali affari, non si curava piú di chi era giá in
carcere; non pensava che a carcerarne degli altri: ardí dire che “almeno
dovevano arrestarsene ventimila”. Se il fratello, se il figlio, se il padre, se
la moglie di qualche infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione
della di lui sorte, un tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se si
ricorreva al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò anche
era inutile, perché per Vanni rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni
operasse bene. Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura da
scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva
sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni,
il quale meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era ordita
un'inquisizione, diretta piú a fomentare i timori della regina che a calmarli,
tremava ogni volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea trovare
il reo, e temea che si fosse ricercata la veritá(8).
Sembrerá
a molti inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere
morale di quell'uomo era singolare. Egli riuniva un'estrema ambizione ad una
crudeltá estrema e, per colmo delle sciagure dell'umanitá, era un entusiasta.
Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir
piú grande di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non
potendo o non sapendo soddisfare l'ambizione loro con azioni veramente grandi,
si sforzano di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e
le corrompono.
Vanni
incominciò ad acquistar fama di giudice integro e severissimo colla condotta
che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per qualche anno direttore
della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San Leucio. Il primo
errore forse lo commise il re, affidando tale impresa al principe di Tarsia
anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il quale, non essendo
fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello che ne
dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo cavaliere, cioè un onestissimo
spensierato, incapace di malversare un soldo, ma incapace al tempo istesso
d'impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne' conti una mancanza di circa
cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare i conti. Non
eravi affare piú semplice, perché Tarsia era un uomo che poteva e voleva
pagare. Pure Vanni prolungò l'affare non so per quanti anni: cadde il trono, e
l'affare di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di
vessazioni e d'insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di Tarsia, perché,
dicesi, tale era l'intenzione di Acton. Gli uomini di buon senso, alcuni
dicevano: - Che imbecille! - altri: - Che impostore! - Ma nella corte si faceva
dire: - Che giudice integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta il
principe di Tarsia, un grande di Spagna, un grande officiale del palazzo! -
Come se l'ingiustizia che si commette contro i grandi non possa derivar dalle
stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella che si commette contro i
piccioli.
Si
avea bisogno d'un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la ragione istessa
per la quale non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta che Vanni entrò
nell'assemblea de' magistrati che dovean giudicare, si mostrò tutto affannato,
cogli occhi mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la giustizia,
soggiunse: - Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli che ha corsi
il mio re. - “Il mio re”: questo era il modo col quale egli usava chiamarlo
dopo che gli fu affidata l'inquisizione di Stato. - Il vostro re! - gli disse
un giorno il presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per la carica
e per cento anni di vita irreprensibile - il vostro re! Che volete intender mai
con questa parola, che, sotto apparenza di zelo, nasconde tanta superbia? E
perché non dite “il nostro re”? Egli è re di tutti noi, e tutti l'amiamo
egualmente. - Queste poche parole bastano per far giudicare di due uomini; ma,
in un governo debole, colui che pronunzia piú alto “il mio re” suole vincere
chi si contenta di dire “il nostro re”.
Lo
sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore del volto
pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo
irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni
tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'i suoi affetti atterrivano
e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar di piú di un anno in una stessa
casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de' signorotti di Fera e di
Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno!
Ma
la macchina di quattro anni dovea finalmente sciogliersi. Gl'interessati
fremevano; gli uomini di buon senso ridevano di una nuova specie di delitto di
Stato che in quattro anni d'inquisizione non si era ancora scoperto; nel
popolaccio istesso andava raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea
mostrato contro i rei, e quasi incominciava a sentir pietá di tanti infelici, i
quali non vedendo condannati, incominciava a credere innocenti. Acton, che da
principio era stato il principal autore dell'inquisizione, dopo averne usato
quanto bastava ai suoi disegni, vedendola innoltrar piú di quel che conveniva e
non volendo e non potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala.
Costui, il piú vile degli uomini, avea bisogno, per guadagnare il favore della
regina, di quel mezzo che Acton avea adoperato solo per atterrare i suoi
rivali, ed in conseguenza dovea spingerne l'abuso piú oltre, e lo spinse. Fece
di tutto perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a delitto la
religiositá di coloro che diedero il voto per la veritá; giunse a minacciare un
castigo agli avvocati da lui stesso destinati, perché difendevano i rei con
zelo. Ma la nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di
pazienza, ne diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di virtú. Nulla
potette smuovere la costanza de' giudici e lo zelo degli avvocati. Quando si
vide la veritá trionfare, ed uscir liberi quei che si volevano morti,
Castelcicala, per giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale
finalmente si era occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la colpa
ricadde sopra costui.
Vanni
avea accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi,
Ferreri, Chinigò, gli uomini forse i piú rispettabili che Napoli avesse e per
dottrina e per integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento
forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni
rimaneva vincitore, avrebbe compíta l'opera della perdita del Regno e della
rovina del trono. Per buona sorte era giunto all'estremo, e rovinò se stesso
per aver voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini
utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti al re?
Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per effetto
della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano. L'anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per soddisfazione della giustizia e per bene dell'umanitá, avrebbe meritato da altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l'entrata de' francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia, e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva: “L'ingratitudine di una corte perfida, l'avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è di peso. Non s'incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato”. Ma gli altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise Castelcicala; e l'inquisizione continuò collo stesso furore, finché i francesi non furono a Capua.
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(7) Giuliano a quel miserabile pazzo, il quale quasi pubblicamente ambiva l'impero, inviò in dono una veste di porpora: Tiberio lo avrebbe fatto impiccare.
(8) Invece di tanti luoghi comuni satirici, che ne' primi giorni della repubblica si son pubblicati contro il governo del re, non vi è stato un solo che abbia pensato a pubblicare un estratto fedele de' processi della Giunta di Stato! Tanto è piú facile declamare che raccontar fatti! Ma le declamazioni passano, ed i fatti arrivano alla posteritá.