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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
VII
CAGIONI
ED EFFETTI DELLA PERSECUZIONE
Io
mi arresto; la mia mente inorridisce alla memoria di tanti orrori. Ma donde mai
è nato tanto furore negli animi de' sovrani d'Europa contro la rivoluzione
francese? Molte altre nazioni aveano cangiata forma di governo; non vi è quasi
secolo che non conti un cangiamento: ma né quei cangiamenti aveano mai
interessati altri che le corti direttamente offese, né aveano prodotto nelle
altre nazioni alcun sospetto ed alcuna persecuzione. Pochi anni prima, i saggi
americani avean fatta una rivoluzione poco diversa dalla francese, e la corte
di Napoli vi avea pubblicamente applaudito: nessuno avea temuto allora che i
napolitani volessero imitare i rivoluzionari della Virginia. Il pericolo de'
sovrani è forse cresciuto in proporzione de' loro timori?
I
francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero
effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche
nelle quali trovavasi la loro nazione.
Quella
Francia, che ci si presentava come un modello di governo monarchico, era una
monarchia che conteneva piú abusi, piú contraddizioni: la rivoluzione non
aspettava che una causa occasionale per iscoppiare. Grandi cause occasionali
furono la debolezza del re, l'alterigia, or prepotente or debole anch'essa,
della regina e di Artois, l'ambizione dello scellerato ed inetto Orléans, il
debito delle finanze, Necker, l'Assemblea de' notabili e, molto piú, gli Stati
generali. Ma, prima che queste cagioni esistessero, eravi giá antica infinita
materia di rivoluzione accumulata da molti secoli: la Francia riposava sopra
una cenere fallace, che copriva un incendio devastatore.
Tra
tanti che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che
niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non giá
ne' fatti degli uomini, i quali possono modificare solo le apparenze, ma nel
corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura?
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie
opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non giá
di quella di Francia, perché nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di
Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha descritto una monarchia
assoluta, creata da Richelieu e rinforzata da Luigi decimoquarto in un momento;
una monarchia surta, al pari di tutte le altre di Europa, dall'anarchia
feudale, senza però averla distrutta, talché, mentre tutti gli altri sovrani si
erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel
tempo istesso nemici ed i feudatari, ivi piú potenti che altrove, ed il popolo
ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra
sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltá singolare, la
quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era piú
numerosa, ed a cui apparteneva chiunque voleva, talché ogni uomo, appena che
fosse ricco, diventava nobile, ed il popolo perdea cosí financo la ricchezza;
un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva
dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi
militari di privativa de' nobili, i civili venali ed ereditari, in modo che
all'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti
questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e
che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano
altro, e che erano moltissimi; la discussione delle opinioni a cui le dispute
davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, poiché su di esse
eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione e la
massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell'atto che si
predicava la massima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contraddizione
tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi,
tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre
l'urto vicendevole di tutte le parti, uno stato di violenza nella nazione
intera, ed in séguito o il languore della distruzione o lo scoppio di una
rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio(9).
La
Francia avea nel tempo istesso infiniti abusi da riformare. Quanto maggiore è
il numero degli abusi, tanto piú astratti debbono essere i princípi della
riforma ai quali si deve rimontare, come quelli che debbono comprendere maggior
numero di idee speciali. I francesi furono costretti a dedurre i princípi loro
dalla piú astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per
l'ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello
di confonder le proprie idee colle leggi della natura. Tutto ciò che avean
fatto o volean fare credettero esser dovere e diritto di tutti gli uomini.
Chi
paragona la Dichiarazione de' diritti
dell'uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverá che la
prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la
formola algebraica dell'americana. Forse quell'altra Dichiarazione che avea progettata Lafayette era molto
migliore.
Idee
tanto astratte portano seco loro due inconvenienti: sono piú facili ad eludersi
dai scellerati, sono piú facili ad adattarsi a tutt'i capricci de' potenti; i
turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le
piú strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda
il corso della rivoluzione francese ne sará convinto.
I
sovrani credettero, come i francesi, che la loro rivoluzione fosse un affare di
opinione, un'opera di ragione, e la perseguitarono. Ignorarono le cagioni vere
della rivoluzione francese e ne temettero gli effetti per quello stesso motivo
per il quale non avrebbero dovuto temerli. Quando e dove mai la ragione ha
avuto una setta? Quanto piú astratte sono le idee della riforma, quanto piú
rimote dalla fantasia e da' sensi, tanto meno sono atte a muovere un popolo.
Non l'abbiamo noi veduto in Italia, in Francia istessa? Nel modo in cui i
francesi aveano esposti i santi princípi dell'umanitá, tanto era sperabile che
gli altri popoli si rivoluzionassero,
quanto sarebbe credibile che le nostre pitture di ruote di carozze si
perfezionino per i princípi di prospettiva dimostrati col calcolo differenziale
ed integrale.
Se
il re di Napoli avesse conosciuto lo stato della sua nazione, avrebbe capito
che non mai avrebbe essa né potuto né voluto imitar gli esempi della Francia. La
rivoluzione di Francia s'intendeva da pochi, da pochissimi si approvava, quasi
nessuno la desiderava; e, se vi era taluno che la desiderasse, la desiderava
invano, perché una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il popolo
non si move per raziocinio, ma per bisogno. I bisogni della nazione napolitana
eran diversi da quelli della francese: i raziocini de' rivoluzionari eran
divenuti tanto astrusi e tanto furenti, che non li potea piú comprendere.
Questo pel popolo. Per quella classe poi che era superiore al popolo, io credo,
e fermamente credo, che il maggior numero de' medesimi non avrebbe mai
approvate le teorie dei rivoluzionari di Francia. La scuola delle scienze
morali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua
mente delle idee di Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar
fede alle promesse né applaudire alle operazioni de' rivoluzionari di Francia,
tostoché abbandonarono le idee della monarchia costituzionale. Allo stesso modo
la scuola antica di Francia, quella per esempio di Montesquieu, non avrebbe
applaudito mai alla rivoluzione. Essa rassomigliava all'italiana, perché
ambedue rassomigliavan molto alla greca e latina.
In
una rivoluzione è necessitá distinguere le operazioni dalle massime. Quelle
sono figlie delle circostanze, le quali non sono mai simili presso due popoli;
queste sono sempre piú diverse di quelle, perché il numero delle idee è sempre
molto maggiore di quello delle operazioni ed, in conseguenza, piú facile la
diversitá, piú difficile la rassomiglianza. Non vi è popolo il quale non conti
nella sua storia molte rivoluzioni: quando se ne paragonano le operazioni, esse
si trovan somiglianti: paragonate le idee e le massime, si trovano sempre
diversissime.
Chiunque
vede una rivoluzione in uno Stato vicino deve temere o delle operazioni o delle
idee. I mezzi per opporsi alle operazioni sono tutti militari: qualunque sieno
le idee che due popoli seguono, vincerá quello che saprá meglio far la guerra;
e quello la fará meglio, che avrá migliori ordini, piú amor di patria, piú
valore e piú disciplina. Il mezzo per opporsi al contagio delle idee (lo dirò
io?) non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto piú sia
possibile. La discussione fará nascere le idee contrarie: è effetto dell'amor
proprio: due uomini sono sempre piú concordi al principio della discussione che
alla fine. Nate una volta queste massime contrarie, prenderanno il carattere di
massime nazionali; accresceranno l'amor della patria, perché quelle nazioni piú
ne hanno che piú differiscono dalle altre: accresceranno l'odio contro le
nazioni straniere, la fiducia nelle proprie forze, l'energia nazionale; non
solamente si eviterá il contagio delle opinioni, ma si riparerá anche alla
forza delle operazioni. Mi si dice che il marchese del Gallo, quando ebbe letto
l'elenco di coloro che trovavansi arrestati per cospiratori, ridendone al pari
di tutti i buoni, propose al re di mandarli viaggiando. - Se son giacobini -
egli diceva, - mandateli in Francia: ne ritorneranno realisti.- Questo
consiglio è pieno di ragione e di buon senso, e fa onore al cuore ed alla mente
del marchese del Gallo. Vince una rivoluzione colui che meno la teme. I sovrani
colla persecuzione fanno diventar sentimenti le idee, ed i sentimenti si
cangiano in sètte: il loro timore li tradisce, e cadono talora vittime delle
stesse loro precauzioni eccessive. Si proibirono in Napoli tutti i fogli
periodici: si voleva che il popolo non avesse neanche novella de' francesi.
Cosí un oggetto, che, osservato da vicino, avrebbe destato pietá o riso, fu
come il fascio di sarmenti di Esopo, che dall'alto mare sembrava un vascello.
Un'indomabile curiositá ne spinge a voler conoscere ciò che ci si nasconde, e
l'uomo suppone sempre piú belle e piú buone quelle cose che sono coperte da un
velo.
Ma
io immagino talora, invece de' nostri re, nelle crisi attuali dell'Europa,
Filippo di Macedonia. La Grecia a' di lui tempi era divisa tra i spartani ed
ateniesi, i quali facevano la guerra per opinioni di governo ed uniti ai
filosofi, che in quell'epoca discutevano le costituzioni greche, come appunto
oggi li nostri filosofi discutono le nostre, stancavano i greci con guerre
sanguinose e con cavillose dottrine. Cosí sempre suole avvenire: tra le varie
rivoluzioni si obbliano le antiche idee, si perdono i costumi e, ridotte una
volta le cose a tale stato, gli intriganti, tra' quali i potenti tengono il
primo luogo, guadagnano sempre, perché alla fine i popoli si riducono a seguir
quelli che loro offrono maggiori beni sul momento; e cosí il massimo amore
della libertá, producendo l'esaltazione de' princípi, ne accelera la
distruzione e rimena una piú dura servitú. Filippo con tali mezzi acquistò
l'impero della Grecia.
È
una disgrazia pel genere umano quando la guerra porta seco il cambiamento o
della forma di governo o della religione: allora perde il suo oggetto vero, che
è la difesa di una nazione, ed ai mali della guerra esterna si aggiungono i
mali anche piú terribili dell'interna. Allora lo spirito di partito rende la
persecuzione necessaria, e la persecuzione fomenta nuovo spirito di partito;
allora sono que' tempi crudeli anche nella pace. L'alta Italia ci ha rinnovati
gli stessi esempi di Sparta ed Atene, quando le sue repubbliche, invece di
restringersi a difender la loro costituzione, sotto il nome or di guelfi or di
ghibellini, vollero riformare l'altrui; e gli stessi errori ebbero nell'Italia
gli stessi effetti. Scala, Visconti, Baglioni, ecc., rinnovarono gli esempi di
Filippo.
Tali epoche politiche sono meno contrarie di quello che si crede ai sovrani che sanno regnare. Ma in tali epoche vince sempre il piú umano, ed io oso dire il piú giusto. Oggi i repubblicani sono piú generosi e perdonano ai realisti; i re con una stolta crudeltá non dánno veruna tregua ai repubblicani: questo fará sí che essi avranno in breve freddi amici ed accaniti nemici. Quando l'armata del pretendente scese in Inghilterra, faceva impiccare tutt'i prigionieri di Hannover; Giorgio liberava tutt'i prigionieri del pretendente: questo solo fatto, dice molto bene Voltaire, basta a far decidere della giustizia de' due partiti, pronosticare la loro sorte futura(10).
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(9) Molti hanno predetto da queste osservazioni la rivoluzione francese. Tra questi si conta anche Rousseau. Piú particolarizzata è la predizione di Mercier, nel suo Anno 2240, opera che una volta fu attribuita a Rousseau, e di cui Rousseau arrossiva quasi di cosa non degna di lui. Sembra che Mercier fosse stato a parte del segreto rivoluzionario, come lo era l'autore della Rimostranza da leggersi nel Consiglio privato di S. M., il quale volle della prossima rivoluzione avvertirne il re, come Mercier ne avea avvertito l'Europa. Tra quelli che hanno antiveduta la rivoluzione francese prima degli altri e per le cause interne che nascevano dallo stato della Francia, è il nostro Genovesi. Egli vide dove tendevano e le opinioni degli scrittori ed il corto delle cose: la sua predizione è degna di Vico... Non saprei se il re di Prussia avesse anche egli preveduta la rivoluzione: è certo però che ne previde il corso e la smania di voler tutto riformare filosoficamente. I riformatori metafisici, che ei chiama “enciclopedisti”, sono da lui molto maltrattati. Vedi il suo Dialogo tra Eugenio, Malbourough e Liechtenstein.
(10) Quando io considero tutto ciò che i gabinetti de' re in questi tempi avrebbero potuto e non hanno saputo fare, desidero un libro che avesse per titolo: Storia degli errori di coloro che sono stati grandi senza esser grandi uomini. Con questa idea è stato scritto uno de' libri piú sensati dell'ultimo decennio del secolo: Tutti han torto; ma molto ancora rimarrebbe ad aggiugnere alla serie delle sue osservazioni.