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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
VIII
AMMINISTRAZIONE
Mentre
da una parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la nazione, dall'altra si
ammiseriva col disordine in tutt'i rami di amministrazione pubblica. La nazione
napolitana dalla venuta di Carlo terzo incominciava a respirare dai mali
incredibili che per due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu
abbassata l'autoritá de' baroni, che prima non lasciava agli abitanti né
proprietá reale né personale. Si resero certe le imposizioni ordinarie con un
nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si potesse avere, era però
il migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolí l'uso delle
imposizioni straordinarie che, sotto il nome di “donativi”, avean tolte somme
immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna(11). Libera la nazione dalle
oppressioni de' baroni, dalle avanie del fisco, dalla perenne estrazione di denaro,
incominciò a sviluppare la sua attivitá: si vide risorgere l'agricoltura,
animarsi il commercio; la sussistenza divenne piú agiata, i spiriti piú colti,
gli animi piú dolci. L'esserci noi separati dalla Spagna, e l'essersi la Spagna
tolta alla famiglia di Austria e data a quella di Borbone, ed il patto di
famiglia avean reso alla nostra nazione quella pace di cui avevamo bisogno per
ristorarci dai mali sofferti; e la neutralitá, che ci fu permessa di serbare
nell'ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l'Inghilterra per le colonie
americane, prodotto avea nella nostra nazione un aumento considerabile di
ricchezze. In cinquant'anni avevamo fatti progressi rapidissimi, e vi era
ragione di sperare di doverne fare anche di piú.
La
nostra nazione passava, per cosí dire, dalla fanciullezza alla sua gioventú. Ma
questo stato di adolescenza politica è appunto lo stato piú pericoloso e quello
da cui piú facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le nazioni
escono dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo cosí la sussistenza
sicura: non passano alla coltura se non accrescendo i loro bisogni. Ma i
bisogni si sviluppano piú rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono
dalle sole nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le loro
forze, ci comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi
loro, il che per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo
questi, non si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai
quell'equilibrio di forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanitá
degl'individui e la prosperitá delle nazioni: i passi che faremo verso la
coltura non faranno che renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce
e sterile diventerá per noi piú nociva della barbarie. Uno Stato che non fa
tutto ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato di tutta l'Italia; e
questo stato era piú pericoloso per Napoli, perché piú risorse avea dalla
natura e piú estesa era la sfera della sua attivitá.
Ma
il governo di Napoli avea perduto gran parte delle sue forze, sopprimendo lo
sviluppo delle facoltá individuali coll'avvilimento dello spirito pubblico:
tutto rimaneva a fare al governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea
far tutto.
Le
nazioni ancora barbare amano di essere sgravate dai tributi, perché non hanno
desidèri superflui; le nazioni colte si contentano di pagar molto, purché
quest'aumento di tributo accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale.
Il segreto di una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione in
proporzione dell'esazione: non è tanto la somma de' tributi, quanto l'uso de'
medesimi per rapporto alla nazione, quello che determina lo stato delle sue
finanze(12).
Un
governo savio ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di amministrazione,
avrebbe sviluppata l'energia nazionale, ci avrebbe esentati dai vettigali che
pagavamo agli esteri per le loro manifatture, avrebbe protette le nostre arti,
migliorate le nostre produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe
divenuto piú ricco e piú potente, e la nazione piú felice. Questo era appunto
quello che la nazione bramava(13). L'epoca in
cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual “progettista” egli si
spacciò e qual “progettista” fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non
eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perché cagioni di
nuove inutili spese.
Acton
ci voleva dare una marina. La natura avea formata la nazione per la marina, ma
non aveva formato Acton per la nazione. La marina dovea prima di tutto
proteggere quel commercio che allora avevamo, il quale, essendo di derrate e
quasi tutte privative del Regno, o poca o niuna gelosia dar potea alle altre
nazioni, le quali per lo piú un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici
erano i barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande quanto la
piccola marina corsara, che Acton distrusse(14). La marina
armata dovea crescere in proporzione della marina mercantile e del commercio,
senza di cui la marina guerriera è inutile e non si può sostenere. Acton,
invece di estendere il nostro commercio, lo restrinse coi suoi errori
diplomatici, col suo genio dispotico, colla sua mala fede, colla viltá con cui
sposò gl'interessi degli stranieri in pregiudizio de' nostri. Acton non
conosceva né la nazione né le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo
porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia
e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati
celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di
seguire il piano delle creature di Acton, si, fosse seguíto il piano dei
romani, che era quello della natura.
La
marina, come Acton l'avea immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo
piccola per farci del bene, troppo grande per farci del male: eccitava la
rivalitá delle grandi potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per
vincere, ma almeno per poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una
pace profonda: con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una
marina piccola, dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto, esser
trascinati nel vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt'i mali della
guerra, senza poter mai sperare i vantaggi della vittoria.
Lo
stesso piano Acton seguí nella riforma delle truppe di terra. Carlo terzo ne
avea fissato il numero a circa trentamila uomini; ma, come sempre suole
avvenire nei piccoli Stati, i quali godono lunghissima pace, gli ordini di
guerra si erano rilasciati, e di truppe effettive non esistevano piú di
quindicimila uomini. Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu
organizzata in modo da non lasciarci nulla da invidiare agli esteri. Ma il
numero delle altre truppe fu accresciuto solo in apparenza, per ricoprire
un'alta malversazione ed una profusione la quale non avea né leggi né limiti.
Acton piú degli altri ministri vi si era prestato; e questa non fu l'ultima
delle ragioni per cui meritò tanta protezione sí potente e sí lunga.
Dalla
morte di Iaci(15) incominciarono
le riforme di abiti e di tattica. Veniva ogni anno dalla Spagna, dalla Francia,
dalla Germania, dalla Svizzera un nuovo generale, il quale ora rialzava di due
pollici il cappello, ora raccorciava di due dita l'uniforme, ora... Il soldato
fremeva, vedendosi sottoposto a tante novitá, che un anno dopo sapeva doversi
dichiarare inutili(16).
Questi
generali conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i
primi gradi della truppa. Gli altri erano accordati agli allievi del collegio
militare, dove la gioventú era invero bene istruita nelle cognizioni militari,
ma non acquistava certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle
fatiche, che si acquista solo coll'etá e coi lunghi servigi. Il genio e le
cognizioni debbono formare i generali: ma il coraggio e l'amor della fatica
formano gli uffiziali. Il gran principio: che in tempo di pace l'anzianitá
debba esser la norma delle promozioni, non era confacente al genio di Acton, il
quale, quando non avesse avuto il dispotismo
nel cuore, l'avea nella testa. Si videro vecchi capitani, abbandonati
alla loro miseria, dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non
sapevano altro che la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la
norma sensibile del giusto, si apre il campo al favore ed all'intrigo), i quali
non sapevano neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio e di
qualche titolo anche piú infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel
grado. I gradi, che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si
videro de' reggimenti interi mancare della metá degli officiali, mentre coloro
che dovevan esser promossi domandavano invano il premio delle loro fatiche.
Acton rispondeva a costoro che “aspettassero la pubblicazione del loro piano”;
piano ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e che, senza
esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa, disgustata la nazione,
dissipato l'erario dello Stato!
Tutto
nel regno di Napoli era malversazione o progetti chimerici piú nocivi della
malversazione; ed intanto ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo
bisogno di strade: il marchese della Sambuca ne vide la necessitá, fu posta una
imposizione di circa trecentomila ducati all'anno: l'opera fu incominciata, se
ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l'opera fu sospesa e la contribuzione
convertita ad un altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi
le strade a loro spese, promettendo intanto di continuare a pagare alla corte,
sebbene giá convertita ad altro uso, l'imposizione che era addetta alle strade;
promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s'impose, si fosse promesso di
dover finire colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo progetto
fosse stato rifiutato? Si può immaginare nazione piú ragionevole e piú buona e
ministero piú stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di Napoli alcuni
errori nelle massime ed alcuni vizi nell'organizzazione, i quali impedivano i
progressi della pubblica felicitá. Avean data origine ai medesimi altri tempi
ed altre circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori
ed i vizi sussistevano ancora.
Simile
a tutt'i governi i quali hanno un impero superiore alle proprie forze, il
governo di Spagna, ne' tempi della dinastia austriaca, avea procurato di
distruggere ciò che non poteva conservare. Si era estinto ogni valor militare.
A contenere una nobiltá generosa e potente, il primo de' viceré spagnuoli,
Pietro di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i lacci di una giurisprudenza
cavillosa la quale, nel tempo istesso che offriva facili ed abbondanti
ricchezze a coloro che non ne avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e
moltiplicava oltre il dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato,
perché potevano divenir ricche senza esser industriose o, ciò che val lo
stesso, senza che la loro industria producesse nulla. Tutti gli affari del
Regno si discussero nel fòro, e nel fòro si disputò sopra tutti gli affari.
Derivaron da ciò molti mali. Tutto ciò che non era materia di disputa forense
fu trascurato: agricoltura, arti, commercio, scienze utili, tutto ciò fu
considerato piuttosto come oggetto di sterile o voluttuosa curiositá che come
studi utili alla prosperitá pubblica e privata. Si è letto per qualche secolo
sulla porta delle nostre scuole un distico latino, nel quale la goffaggine
dello stile eguagliava la stoltezza del pensiero, e che diceva: “Galeno dá le
ricchezze, Giustiniano dá gli onori; tutti gli altri non dánno che paglia”. E,
se mai taluno, ad onta della mancanza di istruzione, concepiva qualche idea di
pubblica utilitá, non poteva eseguirla senza prima soggettarsi ad un esame, il
quale, perché fatto innanzi a giudici e con tutte le formole giudiziarie,
diventava litigio. Si voleva fare un ponte? si dovea litigare. Si voleva fare
una strada? si dovea litigare. Ciascuno del popolo ha in Napoli il diritto di
opporsi al bene che voi volete fare.
Carlo
terzo fece grandissimi beni al Regno: egli riordinò l'amministrazione della
giustizia, tolse gli abusi della giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli
della feudale, protesse le arti e l'industria; e piú bene avrebbe fatto, se il
suo regno fosse stato piú lungo e se molti de' ministri, che lo servivano, non
avessero ancora seguite in gran parte le massime dell'antica politica
spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui amico, quello tra' suoi ministri a
cui piú deve il Regno, errava credendo che il regno di Napoli non dovesse esser
mai un regno militare. È nota la risposta che egli soleva dare a chiunque gli
parlava di guerra: - Principoni, armate e cannoni; principini, ville e casini.
- La sua massima era falsa, perché né il re di Napoli poteva chiamarsi
“principino”, né i principini sono dispensati della cura della propria difesa.
Tanucci, piú diplomatico che militare, confidava piú ne' trattati che nella
propria forza; ignorava che la sola forza è quella che fa ottener vantaggiosi
trattati; ignorava la forza del Regno che amministrava ed, invece di
un'esistenza propria e sicura, gliene dava una dipendente dall'arbitrio altrui
ed incerta.
Continuò
Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il giudiziario, ed il fòro
continuò ad esser il centro di tutti gli affari. Il potere giudiziario tende,
per sua intrinseca natura, a conservar le cose nello stato nel quale si trovano;
l'amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende sempre a migliorarle:
il primo pronunzia sempre sentenze irrevocabili; il secondo non fa che
tentativi, i quali si possono e talora si debbono cangiare ogni giorno. Se
questi due poteri, per loro natura tanto diversi, li riunite, corrompete l'uno
e l'altro.
Tutto
in Napoli si dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da questo ne
veniva che tutte le operazioni amministrative eran lente e riuscivan male. Il
governo era tanto lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari
oggetti della medesima o non erano affidati a nessuno o erano commessi agli
stessi giudici; quindi l'utile amministrazione o non avea chi la promovesse o
era promossa languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare.
L'altro
difetto, che vi era nell'organizzazione del governo di Napoli, era la mancanza
di un centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i rami
dell'amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di
Stato. Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun
ministro era indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto
essere il risultato della deliberazione comune di tutt'i ministri, ciascun
ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun ministro li faceva a suo
modo; i regolamenti di un ministro eran contrari a quelli di un altro, perché
la principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto piú
poteva l'autoritá de' suoi colleghi e distruggere le operazioni del suo
antecessore. Cosí non vi era nelle operazioni del governo né unitá né costanza:
il ministro della guerra distruggeva ciò che faceva il ministro delle finanze,
e quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro della guerra. Tra
tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno piú innanzi di tutti
gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come
suol dirsi, il “tono” ed il “carattere” a tutti gli affari; tono e carattere
che un momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad
assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della
medesima. Vi fu mai legge piú giusta di quella che obbligava i giudici a
ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e non capricci?
Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse.
Si può credere che Simonetti pensasse di buona fede che i giudici non fossero
obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradí la sua
propria coscienza, tradí il re, perché la legge, che egli abolí, non era opera
sua, ma bensí di Tanucci.
Gli
esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a
questo solo, perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a
dimostrare che i difetti di organizzazione de' quali parliamo erano spinti
tanto innanzi, da non rispettar piú neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò
che tutt'i ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l'amministrazione
della giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o
delle azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del
Settentrione, nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era
diversa pel militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per
l'uomo che non ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli le corti
giudicatrici piú che non furono moltiplicati in Roma gl'iddii ai tempi di
Cicerone, per cui questo grand'uomo si doleva di non potersi fare un passo senza
timore di urtare qualche divinitá; e, nel contrasto continuo tra tanti
tribunali, spesso era ben difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser
giudicato. Io ho degli esempi di “quistioni di tribunale”, le quali han durato
diciotto anni.
Nuovi
disordini, e maggiori. In una monarchia, quello che nella giurisprudenza romana
chiamavasi “rescritto del principe” deve avere vigore di legge; ma i principi
saggi fanno pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi
particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per legge quasi
fondamentale dello Stato, stabilito che il rescritto non debba mai trasportarsi
da un caso all'altro. Nel regno di Napoli i rescritti eransi moltiplicati
all'infinito: ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva rescritti
invece di leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran l'opera de'
commessi, e vi è stato tra essi taluno il quale per molti anni è stato il vero,
il solo legislatore di tutto il Regno.
Io mi trattengo molto sopra queste che sembran picciole cose, perché da esse dipendono le grandi. Cambiate le prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza del Regno e vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il potere amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello piú attivo, questo piú regolare; che tutte le parti dell'amministrazione avessero avuto un centro comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse stato il re; e che i ministri, non piú indipendenti l'uno dall'altro e tutti rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme e costante; imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar preponderare or questo or quell'altro ministro, avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe cambiato. Imperciocché io son persuaso che, nello stato presente delle idee e de' costumi dell'Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa produrre, perché deve farsi dai ministri, i quali amano piú il posto che il regno e piú la persona propria che il posto. È necessitá dunque costringerveli colla forza degli ordini pubblici, il vero fine de' quali, per chi intende, non è altro che garantire il re contro la negligenza e la mala volontá de' ministri. Con picciolissime riforme voi producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di uno Stato tendono ad un sol fine, cioè che il re sia veramente re. Ma, per questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono sempre; onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili quelle grandissime crisi, per le quali spesso s'immolano dieci generazioni per rendere forse felice l'undecima. Veritá funesta e per i principi e per i popoli! Le rovine di quelli e di questi per l'ordinario sono l'effetto de' ministri e di coloro che si millantano amici dei re(17).
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(11) Montesquieu dice che la Spagna conservò l'Italia arricchendola. Troppo inesatti doveano essere gli autori che Montesquieu consultò sulla nostra storia.
(12) Questa veritá non seppe conoscer Necker, allorché fece il paragone tra le finanze di Francia e quelle d'Inghilterra. Gl'inglesi pagavano piú de' francesi, ma la loro nazione accresceva le sue ricchezze, e la Francia, per le sue circostanze politiche, non potea crescer dippiú. I tributi erano utili in Inghilterra, dannosi in Francia. La Francia avea compito il suo corso politico, era nella sua decrepitezza; donde, se non sorge un nuovo ordine di cose, non resta che un passo alla morte. Necker infatti non seppe trovar rimedio al male. L'esperienza mostrò la fallacia delle sue teorie. “Se l'Inghilterra regge, molto piú facilmente - diceva egli - potrá regger la Francia”. Intanto la Francia fallí e l'Inghilterra regge ancora.
(13) Chi potrebbe determinare il grado di felicitá e di potenza, a cui da un governo savio potrebbe esser condotta la nazione napolitana? Io penso che, senza esser visionario, si possa creder possibile anche piú di quello che si auguravano Broggia, Genovesi e Palmieri. Ma questa nazione ha la disgrazia di essere stata vilipesa, perché non conosciuta: i spagnuoli la conoscevano e la temevano; solo Federico secondo imperatore la conoscevo e l'amava. Ma i bei giorni di Federico non furono per noi che un lampo, cui successe una notte piú tempestosa.
(14) Forse il piú efficace metodo contro i barbareschi era quello che presero gli inglesi sotto Carlo secondo, cioè di costruire tutt'i legni mercantili in modo da poter essere armati di dieci cannoni, ed affidare cosí la difesa della proprietá agli stessi proprietari. I nostri proprietari di legni mercantili mille volte ne han chiesto il permesso: mille volte è stato loro negato. Essi aveano del coraggio e della buona volontá, ma Acton voleva che non ne avessero.
(15) Era il generalissimo di Carlo terzo e lo fu fino alla morte, anche sotto il regno di Ferdinando. Godeva molta autoritá e sapeva usarne; finché visse, si oppose ad Acton.
(16) Il soldato prima aveva la speranza di esser premiato, poiché i bassi ufficiali avevano diritto a una promozione regolare. Acton, invece di obbligar tutti ad esser bassi ufficiali, tolse a costoro ogni speranza di promozione. Il sergente doveva morir sergente, e fu obbligato a servire venti anni. Questo era lo stesso che non voler piú né sergenti onorati né soldati valorosi.
(17) Vedi BONNET, Art de rendre les révolutions utiles, libro pieno di buon senso.