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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
X
Continuazione.
- COMMERCIO
Il
disordine de' banchi, quindici anni prima, forse o non vi sarebbe stato o sarebbe
stato piú tollerabile, perché la nazione avea allora un erario sufficiente a
riempire il vuoto che ne' banchi si faceva, o almeno a mantenervi sempre tanto
danaro quanto era necessario per la circolazione. È una veritá riconosciuta da
tutti, che ne' pubblici depositi può mancare una porzione del contante senza
che perciò la carta perda il suo credito; ma conviene che la circolazione sia
in piena attivitá e che, mentre una parte della nazione restituisce le sue
carte, un'altra depositi nuovi effetti. Ora, in Napoli da alcuni anni era
cessata del tutto l'introduzione delle nuove specie, poiché estinta era ogni
industria nazionale, e quei rapporti di commercio che soli ci eran rimasti
colle altre nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e, piú de'
tremuoti, l'economia distruttiva della corte avean desolate le Calabrie; due
delle piú fertili province eran divenute deserte. Il disseccamento delle paludi
Pontine e la coltura che Pio sesto vi aveva introdotta ci avean tolto o almeno
diminuito un ramo utilissimo di esportazione de' nostri grani. Noi avevamo
altre volte un commercio lucrosissimo colla Francia, e quello che sulla Francia
guadagnavamo compensava ciò che perdevamo cogli inglesi, cogli olandesi e coi
tedeschi. La rivoluzione di Francia, distruggendo le manifatture di Marsiglia e
di Lione, fece decadere il nostro commercio d'olio e di sete. Conveniva dare
maggiore attivitá alle nostre manifatture di seta ed istituir delle fabbriche
di sapone: esse sarebbero divenute quasi privative per noi, ed avremmo ritratto
almeno questo vantaggio dalla rivoluzione francese(19). Ma quest'oggetto non
importava ad Acton. Conveniva serbare un'esatta neutralitá, la quale, ne' primi
anni della rivoluzione francese, avrebbe dato un immenso smercio de' nostri
grani. Ma Acton e la regina credevano poter far morire i francesi di fame.
Intanto i francesi destarono i ragusei ed i levantini, dai quali ebbero il
grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora tutto il lucro che potevamo
ragionevolmente sperare, ed oggi ci troviamo di aver acquistati in questo ramo
di commercio de' concorrenti, tanto piú pericolosi in quanto che abitano un
suolo egualmente fertile e sono piú poveri di noi. Ci si permise il solo
commercio cogl'inglesi, poiché il commercio di Olanda era anche nelle mani
dell'Inghilterra, cioè ci si permise quel solo commercio che ci si avrebbe
dovuto vietare: anzi, siccome l'opinione della corte era venduta agl'inglesi,
cosí l'opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le brillanti
bagatelle del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi siamo stati
di tanto debitori agl'inglesi, quanto nel tempo appunto in cui meno potevamo
pagare. Questo disquilibrio di commercio ha tolto in otto o nove anni alla
nazione napolitana quasi dieci milioni di suo danaro effettivo, oltre tanto, e
forse anche piú, che avrebbe dovuto e che avrebbe potuto guadagnare, se il vero
interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di chi la governava.
A
tutti questi mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e condotta in
modo che distruggeva il Regno, senza poterci far sperare giammai né la vittoria
né la pace. Si manteneva da quattro anni un esercito di sessantamila uomini
ozioso nelle frontiere, ed il suo mantenimento costava quanto quello di qualunque
esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace del Regno,
la quale si dovea fondar solo sulla buona fede del re, si richiesero nuovi
soccorsi al popolo; e si ottennero. Si richiese non solo l'argento delle
chiese, ma anche quello de' privati, dando loro in prezzo delle carte che non
avevano alcun valore; e si ottenne(20). S'impose una
decima su tutti i fondi del Regno, la quale produceva quasi il quarto di tutti
gli altri tributi che giá si pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono
piccole, si dissiparono, si perdettero, passando per mani negligenti o
infedeli.
Si
spogliarono le campagne di cavalli, di muli, di bovi, che parte morirono per
mancanza di cibo, parte si rivendettero da quegl'istessi che ne avean fatta la
requisizione.
Si
tolsero nella prima leva le migliori braccia all'agricoltura, allo Stato la piú
utile gioventú, che, strappata dal seno delle loro famiglie, fu condotta a
morire in San Germano, Sessa e Teano: l'aria pestilenziale di que' luoghi e la
mancanza di tutte le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne
distrussero piú di trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto perdere tanti.
Allora
si vide quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante della sua patria,
ma nel tempo istesso nemica di opressioni e d'ingiustizie. Erano due anni da
che si era ordinata una leva di sedicimila uomini, ma questa leva, commessa ad
agenti venali, non era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti
ostacoli, che pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle
loro reclute. Gli abitanti delle province del regno di Napoli non amavano di
fare il soldato mercenario, servo de' capricci di un generale tedesco, che non
conosce altra ordinanza che il suo bastone. La corte vide il male; la nuova leva
fu commessa alle municipalitá o sia alle stesse popolazioni, ed i nuovi
coscritti furon dichiarati “volontari”, da dover servire alla difesa della
patria fino alla pace. Al nome di “patria”, al nome di “volontari”, tutti
corsero, e si ebbe in pochissimi giorni quasi il doppio del numero ordinato
colla leva. Ma questi stessi, un anno dopo, disgustati dai cattivi trattamenti
della corte, e piú dalla sua mala fede, per la maggior parte disertarono. Essi
erano volontari da servir fino alla pace; la pace si era conchiusa, ed essi
chiesero il loro congedo. Un governo savio l'avrebbe volentieri accordato,
sicuro di riaverli al nuovo bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il
potere della buona fede e della giustizia: anziché esserne amato, credeva più
sicuro esser temuto dai suoi popoli, e ne fu odiato. Tanti disertori, per
evitare il rigore delle persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno
fu pieno di ladri e le frontiere rimasero prive di soldati.
I cortigiani diedero torto ai soldati, perché volevano adular la corte(21); gli esteri diedero torto ai soldati, perché volevano avvilir la nazione; e molti tra' nostri, che pure hanno fama di pensatori, diedero torto ai soldati, perché non conoscevano la nazione ed adulavano gli esteri. Questi piccoli tratti caratterizzano le nazioni, gli uomini che le governano e quelli che le giudicano.
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(19) Il re aveva eretto un'ottima manifattura di seterie in Caserta; ma le seterie si travagliavano solo in Caserta né si sarebbero mai travagliate altrove. Chi mai poteva reggere alla concorrenza d'un re? Il sovrano dev'essere il protettore de' manifatturieri e non il rivale.
(20) Solamente la nazione rise un poco, leggendo, nell'editto con cui si toglieva l'argento ai privati, che “la mente del re era quella di rimettere in vigore le antiche leggi suntuarie, tanto utili allo Stato”. Chi fu mai il ministro che indusse il re a prestar il sacro suo nome a menzogna tanto evidente? Ed in qual altro caso mai è permesso ad un re di esporre ai suoi popoli i propri bisogni, se non quando questi bisogni sono bisogni dello Stato? Perché non si disse: “La patria è in pericolo; i bisogni della patria sono miei e vostri: salviamo la patria”? Quale idea dovea aver dell'onore e qual generositá dovea aver nell'animo il ministro che poté consigliare una simile versipelleria? Or il senso di onore e la nobiltá e generositá delle idee de' ministri non sono forse la piú esatta misura della vera forza di uno Stato?
(21) Si avverta una volta per sempre che, in questa storia, “governo”, “corte”, ed anche “re” e “regina”, sono tutti sinonimi di “Acton”. Pochi sono i casi ne' quali convien distinguerli.