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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
XIII
FUGA
DEL RE
I
governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman
la rovina dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de' francesi,
invece d'ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá. A forza
di temerli, li rese piú terribili di quello che erano.
Una
persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser
prudente consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro
i francesi e, con tale idea, l'essersi imaginato quel gergo equivoco col quale
fu scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento
dell'attacco il vero oggetto della spedizione. - Ebbene! - dissero i soldati
quando lo seppero - ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! -
Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato
piú coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di
scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiú, se
il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza tra l'avvezzare un
popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo
produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo
sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama delle forze
nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll'accrescerla. Una volta che si
temeva vicino l'arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: - Sappiate -
loro disse - che tra pochi giorni sará qui il re con dieci legioni, trentamila
cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate quindi di
piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. - Cesare accrebbe il
pericolo reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della
fantasia, che non ha limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt'i popoli.
Lo
stesso timore, che la corte ebbe ne' primi rovesci, le ispirò il consiglio di
una leva in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s'invitarono i popoli ad
armarsi e difendere contro gl'invasori i loro beni, le loro famiglie, la
religione de' padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri
popoli ch'essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di
risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai
di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un
popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun'educazione, non vive che a
spese de' disordini del governo e de' pregiudizi della religione.
Ma
questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne,
per colpa di Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua
rovina. Il popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa
del Regno. Un re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che
montare a cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a
sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle
mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte
dell'Acerra. Tra le tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare
essersi dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli
esteri che erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e
generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri
esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriottismo, di cui il
popolo napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri
popolari, soggiunse: - Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli
e ministro di guerra il conte dell'Acerra? - Queste parole, raccolte da'
satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad
accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno!
Fu
facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere
l'insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente
ad arrestare Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un
plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una
vittima giá da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere
di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia
caso, sia effetto della politica del ministro o della vendetta di qualche suo
inimico privato, fu arrestato sul molo nel punto in cui s'imbarcava per passare
sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin
sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di “Morano i
traditori!”, “Viva la santa fede!”, “Viva il re!”. Il re era alla finestra;
vide l'imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò
a temerla. Allora la partenza fu risoluta.
Furono
imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili piú preziosi de' palazzi di
Caserta e di Napoli e le raritá piú pregevoli de' musei di Portici e
Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse piú di moneta e
metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella
miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata
la nazione con un disordine generale nell'amministrazione, con un vuoto nelle
finanze e ne' banchi; avea ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua
potenza, rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato
piú a fuggire che a restare! S'imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico giá
alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso,
col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per poco in
Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il general
Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno.
Il
popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che
dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne' primi giorni che il re per
tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo
perché si restasse; ma gl'inglesi, i quali giá lo consideravano come lor
prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non
gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la
memoria delle cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali
presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietá.
Il popolo lo vide partire a' 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.
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