|
Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
XIV
ANARCHIA
DI NAPOLI ED ENTRATA DE' FRANCESI
Nella
storia dell'Italia, gli avvenimenti della fine del secolo decimottavo somiglian
quelli della fine del secolo decimoquinto. In ambedue le epoche gli stessi avvenimenti
furon prodotti dalle stesse cagioni e seguíti dai medesimi effetti. In amendue
le epoche il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel
decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono la guerra;
nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i partiti: in quello,
il re avea tentato tutt'i mezzi per evitar la guerra; in questo, tutti li avea
messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e
nel re aragonese e nel borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato
coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu perduto
quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il conservarlo, poiché
è impossibile credere che non si avesse potuto facilmente conservare quel
Regno, che, anche dopo la perdita fattane, si è potuto tanto facilmente
ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la perdita del Regno una
vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non irragionevole
nell'epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne' tempi nostri.
Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali avean tramata
una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea punita una congiura
che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che non si
poteva eseguire. In amendue le epoche alla difesa del Regno è mancata l'energia
piuttosto ne' consigli del re che nelle azioni de' popoli. Finalmente in
ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato dai vincitori, perché costretti
a ritirar le loro forze nell'Italia superiore.
Io
vorrei che, ogni qual volta succede un simile avvenimento, si rileggesse la
seguente, non saprei dir se dottrina o profezia di Macchiavelli: “Credevano -
dice egli - i nostri principi italiani, prima che essi assaggiassero i colpi
delle oltramontane guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti
pensare una cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e
nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e
di oro, dormire e mangiare con maggior splendore che gli altri, tenere assai
lascivie intorno, governarsi coi sudditi avaramente, superbamente, marcirsi
nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse
dimostrato loro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi
di oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di
qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i grandi spaventi, le subite
fughe e le miracolose perdite; e cosí tre potentissimi Stati, che erano in
Italia, sono stati piú volte saccheggiati e guasti”. Non è meraviglia che gli
stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi effetti e che un potentissimo
regno sia rovinato nel tempo stesso, in cui, con ordini piú savi, tale era lo
stato politico di Europa, dovea ingrandirsi. “La meraviglia è - continua
Macchiavelli - che quelli che restano” anzi quegli stessi che han sofferto il
male, “stanno nello stesso errore, e vivono nello stesso disordine”.
La
Cittá(24) avea assunto
il governo municipale di Napoli: erasi formata una milizia nazionale per
mantenere il buon ordine. Il popolo ne' primi giorni riconosceva l'autoritá
della Cittá; tutto in apparenza era tranquillo: ma il fuoco ardeva sotto le
ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi che il pericoloso onore, a
cui era stato destinato, era forse l'ultimo tratto del suo rivale Acton per
perderlo. Egli avrebbe potuto vendicarsi del suo rivale, render al suo re uno
di quei servigi segnalati e straordinari, per i quali un uomo acquista quasi il
nome ed i diritti di fondator di una dinastia, renderne un altro egualmente
grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la guerra o finirla, risparmiando
l'anarchia e tutti i mali dell'anarchia: le circostanze nelle quali trovavasi
erano straordinarie, ma egli non seppe concepire che pensieri ordinari.
Si
disse che la regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete di
sollevare il popolo, di consegnargli le armi, di produrre l'anarchia, di far
incendiare Napoli, di non farvi rimanere anima vivente “da notaro in sopra”...
Sia che queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi
inevitabili conseguenze dell'insurrezione che la regina, partendo, organizzava,
è certo però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute; e,
nell'osservare le vicende di una rivoluzione, meritano eguale attenzione le
voci vere e le false, perché, essendo, a differenza de' tempi tranquilli,
l'opinione del popolo grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene egualmente
importante e ciò che è vero e ciò che si crede tale.
Pochi
giorni dopo si videro i primi funesti effetti degli ordini della regina
nell'incendio de' vascelli e delle barche cannoniere, che non eransi potute,
per la troppo precipitevole fuga, trasportare in Sicilia. Poche ore bastarono a
consumare ciò che tanti anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il
conte Thurn da un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l'incendio;
ed allo splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo napolitano
vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del
suo destino.
Il
popolo non amava piú il re, non volea neanche udirlo nominare; ma, ripiena la
mente delle impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la
patria e odiava i francesi. Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre
un utile partito. Insursero delle gare tra la Cittá ed il vicario generale.
Questi volea usurparsi dritti che non avea, quasi che allora non fosse stato
piú utile ed anche piú glorioso cedere tutti quelli che avea: quella si
ricordava che tra' suoi privilegi eravi anche quello di non dover mai esser
governata dai viceré. La Cittá allora spiegò molta energia. Perché dunque
allora non surse la repubblica? Il popolo avrebbe senza dubbio seguíto il
partito della Cittá. Ma, tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una
oligarchia, la quale non avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province,
dove l'odio contro i baroni era la caratteristica comune di tutte le popolazioni;
e, nello stato in cui trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi
un'oligarchia, sarebbe stato necessario rinunciare alla feudalitá. Altri non
osavano; e vi fu anche chi propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di
Spagna, quasi che questo progetto fosse allora, non dico lodevole, ma
eseguibile. Ne' momenti di grandissima trepidazione, quando discordi sono le
idee e molti i partiti, difficile è sempre ritrovar la via di mezzo e, piú che
altrove, era difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i
francesi indispensabili a fondare repubbliche.
Intanto
Capua si difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si era anche
lusingato di maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e
non mai manca chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso
per Napoli l'armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario
Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto
del Regno che giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino
all'imboccatura dell'Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il
vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di
franchi.
Non
mai vicario alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli
consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a
morirvi; la prudenza gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da
nuove inutili sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi?
Non vi era neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio
per cui il re erasi messo in mano degl'inglesi, lo metteva nella dura necessitá
di perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo
stesso errore pel quale erasi perduto l'ultimo dei re della dinastia aragonese,
quello cioè di mettersi in braccio di uno de' due che si disputavano il di lui
Regno; quell'errore dal quale il savio Guicciardini ripete l'ultima rovina di
quella famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle occasioni
che ne' tempi posteriori la fortuna le offrí a ricuperare il trono. Perché
dunque il vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e
lasciar libero lo sfogo all'odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando
questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo
frenare? Volea la guerra civile, l'anarchia? Tali erano gli ordini della
regina?
Il
popolo si credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai generali, dai soldati,
da tutti. La venuta de' commissari francesi, spediti ad esigere le somme
promesse, accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse
ai castelli a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si
oppose, perché non avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il
re; il popolaccio corse a Caivano(25) per deporre
Mack, il quale, sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che
fuggire(26). Ogni vincolo
sociale fu rotto. Orde forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti
tutte le strade della cittá, gridando “Viva la santa fede!”, “Viva il popolo
napolitano!”. Si scelsero per loro capi Moliterni e Roccaromana, giovani
cavalieri che allora erano gl'idoli del popolo, perché avean mostrato del
valore a Capua ed a Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per
poco i trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I francesi
erano giá quasi alle porte di Napoli.
S'inviò
al loro quartier generale una deputazione composta da' principali demagoghi,
perché rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello
che era stato promesso coi patti dell'armistizio e qualche somma di piú. La
risposta de' francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea
essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della
ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l'insulto; e
ciò finí d'inferocire il popolo.
Non
mancavano agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori, non mancava
quello spirito di rapina che caratterizza tutt'i popoli della terra, non
mancavano preti e monaci fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo
superstizioso in nome del Dio degli eserciti, accrescevano colla speranza
l'audacia e coll'audacia il furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea
tenute delle sessioni, piú non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da
tutti, e fece tutto da sé. La cittá intera non offrí che un vasto spettacolo di
saccheggi, d'incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra
le vittime del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della
Torre e Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le
loro virtú e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato.
Alcuni
repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan
beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo
gli stessi sentimenti per dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e
di Roccaromana, s'introdussero nel forte Sant'Elmo, sotto vari pretesti e finti
nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni.
Championnet avea desiderato che, prima ch'ei si movesse verso Napoli, fosse
stato sicuro di questo castello, che domina tutta la cittá. Molti altri corsero
ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne.
Tutt'i
buoni desideravano l'arrivo de' francesi. Essi erano giá alle porte. Ma il
popolo, ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò
tanto coraggio, che si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá
aperta trattenne per due giorni l'entrata del nemico vincitore, ne contrastò a
palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse che Sant'Elmo non era piú suo,
quando si avvide che da tutt'i punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco
alle sue spalle, vinto anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai
vincitori che indispettito contro coloro ch'esso credeva traditori.
|
|
|
|
|
|
||
|
|||
|
|
||
|
|
||
|
(24) “Cittá” si chiamava in Napoli un'unione di sette persone, delle quali sei erano nobili ed una popolare. I nobili erano eletti dai cinque “sedili”, tra' quali era divisa tutta la nobiltá del Regno (il sedile di Montagna ne eliggeva due, i quali però aveano un voto solo), e questi sedili erano succeduti alle “fratrie”, in una cittá che fino all'undecimo secolo era stata greca. Il popolare avrebbe dovuto esser eletto dal popolo, che avea un sedile solo, ad onta che fosse mille volte piú numeroso de' nobili; ma era eletto dal re. Questa cittá rappresentava nel tempo stesso e la municipalitá di Napoli ed il Regno intero. Quando nel governo viceregnale furono aboliti i parlamenti nazionali, la Cittá rimase depositaria de' privilegi della nazione. Ma sotto Ferdinando quarto la Cittá era rimasta un nome del tutto vano.
(25) Villaggio otto miglia lontano da Napoli.
(26) È noto che allora depose la divisa di generale del re di Napoli e vestí quella di generale austriaco; si presentò a Championnet e pretendea, qual generale austriaco, non dover esser fatto prigioniero di guerra. Championnet non ascoltò questo miserabile sofisma. Ma da questo fatto ben traspariva l'uomo, il quale dieci mesi di poi avrebbe disfidato a duello Moliterni e poi l'avrebbe egli stesso impedito. Il disfidare non è, a creder mio, un'azione di valore: forse sará un'azione d'imprudenza: ma il disfidare e poi ricusar di battersi è un'azione che riunisce l'imprudenza alla viltá. Traspariva l'uomo, che, prigioniero e libero sulla sua parola di onore, sarebbe fuggito.