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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
XVI
STATO
DELLA NAZIONE NAPOLITANA
L'armata
francese entrò in Napoli a' 22 di gennaio. La prima cura di Championnet fu
quella d'“istallare” un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che
provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione
permanente dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque
persone, le quali, divise in sei “comitati”, si occupavano de' dettagli
dell'amministrazione ed esercitavano quello che chiamasi “potere esecutivo”;
riunite insieme, formavano l'assemblea
legislativa.
I
sei comitati erano: 1° centrale, 2°
dell'interno, 3° di guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di
legislazione. Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese,
Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De
Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta,
Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.
Ma
l'immaginare un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che
fondare una repubblica. In un governo in cui la volontá pubblica, o sia la
legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore
che la volontá privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini
liberi. Prima d'innalzare sul territorio napolitano l'edificio della libertá,
vi erano, nelle antiche costituzioni, negl'invecchiati costumi e pregiudizi,
negl'interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere,
che era necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente
libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno
perduto. Egli avea de' potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili,
specialmente gl'inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di
Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non
potea che difficilmente sussistere.
Dall'epoca
de' romani in qua, la sorte dell'Italia meridionale dipende in gran parte da
quella della Sicilia. I romani ridussero l'Italia a giardino, il quale ben
presto si cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de' romani, s'incominciò
ad udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell'Italia; detto
quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda. Non si sarebbe
ciò detto prima del quinto secolo di Roma, quando l'Italia bastava sola ad
alimentare trenta milioni di uomini industriosi e guerrieri, di costumi
semplici e magnanimi. Ne' secoli di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia
turbò a suo talento l'Italia. Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de'
goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli, finché i normanni
la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino all'epoca
di Carlo primo d'Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia
influito a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltá, la
quale, prima che in ogni regione d'Italia, vi avevan destata il gran Federico
di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni furon riuniti sotto la
lunga dominazione della casa Austriaca di Spagna. In que' tempi appunto Napoli
incominciò ad ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per
sussistere ha bisogno del formento e piú dell'olio delle province lontane che
bagna l'Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente
esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero
passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il
vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in Messina
ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che
picciole e mal sicure rade.
Avea
il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l'antico governo
in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi
erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean
deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da' proclami del re;
altre pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro
ispirava una conquista sí rapida ed accorte della debolezza della forza
francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un'ingiustizia, anche
apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.
Il
numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa
intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che l'affare si fosse
commesso alla decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone
un esempio nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un
accidente che, per la sua singolaritá, merita d'esser ricordato.
Trovavansi
in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di
procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che
impediscono colá l'uscita dal porto, impedirono la partenza de' còrsi, i quali
loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica.
E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen
partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi, sperando
di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a
piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da
una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra
essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse
da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio.
Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al piú giovane e gli
protestò tutti gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero
sorpresi, e, dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda,
senz'aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda
dalla vecchia istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò
tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo
incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo
séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi
tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo.
Il supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze
del momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro
in Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte,
cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli
partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi
vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due altri
principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e l'altro
De Cesare, si misero tosto alla testa degl'insurretti. Il primo restò nella
provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco
il Girunda, che dichiarò generale di divisione.
Con
questa truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini d'armi dei baroni,
dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di
tutti i facinorosi delle due province, riuscí loro facile l'impadronirsi di
tutti i paesi che proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un
assedio Martina ed Acquaviva, le quali cittá giurato avevano piuttosto morire
che riconoscer gl'impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di
provarsi coi francesi, i quali erano giá padroni di una buona porzione della
provincia di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel
bosco di Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il
Boccheciampe in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde
nelle mani dei francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la nuova
della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l'antico Metaponto, e
andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.
La
nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a
buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de'
patrioti(28) e quelle del
popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e
finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che
avea ritardata la nostra coltura ne' tempi del re, quell'istessa formò, nel
principio della nostra repubblica, il piú grande ostacolo allo stabilimento
della libertá. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due
popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la
parte colta si era formata sopra modelli stranieri, cosí la sua coltura era
diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi
solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi,
altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il
massimo numero, erano ancora incolti. Cosí la coltura di pochi non avea giovato
alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non
l'era utile e che non intendeva(29).
Le
disgrazie de' popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle piú utili
veritá. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai
amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel
popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è destinata
dalla natura a governarlo, sia coll'autoritá sia cogli esempi, ha venduta la
sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la
metá della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da seguire,
gli ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra civile, ed
allora tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che
scelgono sempre i minori tra' mali, e gl'indifferenti i quali non calcolano che
sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza
esterna, la quale non manca mai di profittare di simili torbidi o per se stessa
o per ristabilire il re discacciato.
Quell'amore
di patria, che nasce dalla pubblica educazione e che genera l'orgoglio
nazionale è quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt'i mali
che per la sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l'Europa collegata
contro di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi è
nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de' tedeschi o degl'inglesi.
Niuno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se
mai la vendetta dei diritti borbonici fosse stata la cagione e non giá il
pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere un re, era
inutile.
La
nazione napolitana, lungi dall'avere questa unitá nazionale, si potea
considerar come divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia
voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte le varietá: diverso
è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha
sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque
ritrovasse nuovi benefíci della natura, ed il sistema feudale, che ne' secoli
scorsi, tra l'anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi
luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietá
ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la
proprietá ed i mezzi di sussistenza.
Conveniva,
tra tante contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir
potesse tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta
riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di
noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva,
dall'altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzone.
Si
avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da
sé, era però docile a riceverla da un'altra mano. I partiti decisi erano
ambedue scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol
dir questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da
veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de' due pretendenti,
avrebbe seguíto quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo
s'illude difficilmente, ma facilmente si governa.
Esso
non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un
sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse
farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti
i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti,
esso ne avrebbe ben accettato il dono.
Le
insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il
teatro della guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra
istessa, che, a forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá
di odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali,
armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della
nazione intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le
insorgenze non iscoppiarono che molto tempo dopo.
Vi
furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l'entusiasmo
della libertá, che prevennero l'arrivo de' francesi nella capitale e si
sostennero colle sole loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo
che la capitale si era resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero
potuto formare una forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto.
La popolazione immensa della capitale era piú istupidita che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso da' tributi e piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepí di quella popolazione, fece sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si ebbe infatti la controrivoluzione.
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(28) “Patriota”. Che è mai un “patriota”? Questo nome dovrebbe indicare un uomo che ama la patria. Nel decennio scorso esso era sinonimo di “repubblicano”; ben inteso però che non tutti i repubblicani eran patrioti.
(29) Il fondo delle maniere e de' costumi di un
popolo in origine è sempre barbaro, ma la moltiplicazione degli uomini, il
tempo, le cure de' sapienti possono egualmente raddolcire ogni costume,
incivilire ogni maniera. Il dialetto pugliese, per esempio, che fu il primo a
scriversi in Italia, era atto, al pari del toscano, a divenir colto e gentile:
se non lo è divenuto, è colpa de' nostri, che lo hanno abbandonato per seguire
il toscano. Noi ammiriamo le maniere degli esteri, senza riflettere che questa
ammirazione appunto ha recato pregiudizio alle nostre: esse sarebbero state
eguali, e forse superiori a quelle degli esteri, se le avremmo coltivate. Una
nazione che si sviluppa da sé acquista una civiltá eguale in tutte le sue
parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione. Cosí in Atene la
femminuccia parlava colla stessa eleganza di Teofrasto ed il ciabattino
giudicava Demostene. Ammirando ed imitando le nazioni straniere, né si
coltivano tutti gli uomini che compongono un popolo, né si coltivano bene: non
tutti, perché non tutti possono vedere ed imitare gli esteri; non bene, perché
l'imitatore, per eterna legge della natura, resta sempre al disotto del suo
modello. La coltura straniera porta in una nazione divisioni e non uniformitá,
e quindi non si acquista che a spese della forza. Quali sono oggi le nazioni
preponderanti in Europa? Quelle che non solo non imitano, ma disprezzano le
altre. E noi volevamo far la repubblica indipendente incominciando dal
disprezzare la nostra nazione!
N. B. - A scanso di ogni equivoco, questa nota, poco piú poco meno, vale per tutta l'Italia.