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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
XVIII
RIVOLUZIONE
FRANCESE
Io
credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto
la storia della rivoluzione di tutt'i popoli della terra, e specialmente della
rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non
han poco contribuito ai nostri mali.
Hanno
voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di
male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i
nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è
creduto che la rivoluzione francese fosse l'opera della filosofia, mentre la
filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato
attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un
giorno divenuta.
La
rivoluzione francese aveva un'origine quasi legale,
che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali
della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il
popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle
assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o
almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee
erano state convocate.
Quello
stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto
tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali;
si formò l'Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell'Assemblea. Che vi
sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui
non vi è ancora rivoluzione.
Essa
incominciò allorché il re si separò dall'Assemblea: allora incominciò la guerra
civile, ed il partito dell'Assemblea seppe guadagnare il popolo coll'idea della
giustizia.
E
fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosí,
delle sue idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia
conservava ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano
convocati dall'autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso
autorizzò l'Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne
re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al
proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo
patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione
ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito
dell'Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo
interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del
1789, le trovo piú simili che non si pensa: s'incomincia la riforma in nome del
re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il
popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono
appoggiate alle antiche.
Le
operazioni de' popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee
degli uomini. Se invertite, se turbate l'ordine e la serie delle medesime, se
volete esporre nell'Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le
comprenderá; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo
sapiente o venale declamatore. Al pari che l'uomo lo è nelle idee, un popolo è
nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l'esattezza
esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l'esterna
solennitá delle formole sostiene un'operazione manifestamente ingiusta.
Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto
piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta nella quale sta
il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l'errore, ma ignorerete
la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia
e pubblica necessitá quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il
delitto si consumerá non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie
di poterlo legittimamente impedire. Quando l'errore vien da un metodo fallace,
il ricredersene è piú difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al
punto, spesso lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della
veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore
distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi
decimosesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I
faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava
al popolo; ed è cosa “di cattivissimo esempio in una repubblica - dice
Macchiavelli - fare una legge e non la osservare, e tanto piú quando la non è
osservata da chi l'ha fatta”. Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione
di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l'infelice Luigi
decimosesto.
Nell'epoca
istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono
anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste
riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti
non si intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si
correva dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora
non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano
decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una
forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre
ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle
cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non
intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava
piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva
scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi
fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose
senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di “oltre
rivoluzionario”, che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo?
Robespierre
salvò la Francia, facendo rivoltare tutt'i partiti contro di lui ed, in
conseguenza, riunendoli(30); ma
Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la
costituzione sua.
Le
idee erano giunte all'estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di
quello che il popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in
favor loro il pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e
colla forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose.
Il sistema de' moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro
altra importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore
e la sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L'uomo
è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti,
giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo
esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. “Nec totam libertatem, nec totam servitutem pati
possumus”, disse Tacito del popolo romano: a me pare che si possa
dire di tutt'i popoli della terra. Or che altro avea fatto Robespierre,
spingendo all'estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il
cambiamento?
La
vita e le vicende de' popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee.
Vi è tra l'estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt'i popoli
corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt'i
popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non
aveva proprietá di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe;
ottenne la sicurezza delle persone e de' beni, ma rimaneva ancora senza nozze,
senza auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte
queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e
ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole
emulazione delle parti che la componevano, piú energica e piú gloriosa.
Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe “eguaglianza di diritto”, i
tribuni pretesero anche l'eguaglianza di fatto: s'incominciò a parlar di leggi
agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a quell'estremo oltre del quale
era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese, non si
pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano
irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l'Europa; nel terzo però si
pretendeva l'eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall'etá di Menenio
Agrippa a quella de' Gracchi. Che dico io mai? Nell'etá de' Gracchi, mentre si
pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio civile.
Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne
dall'eseguire la divisione de' beni. In Francia le idee eran corse molto piú
innanzi: erasi messa in dubbio la legittimitá delle doti, quella de'
testamenti, l'istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è
proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di
quelle de' Gracchi: ed ecco perché, contando da quest'epoca, la repubblica
francese ha avuto un secolo meno di vita della romana.
Quando
le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la
causa della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva
Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora
dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno
sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e
moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.
Le
idee di Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione
francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era
possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti
de' francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci di
sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a
capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese
sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o
pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore
del mondo o pazzo.
Ho
cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni
de' suoi amici ed anche de' suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien
dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero
Silla. Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime
che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefisso,
perché per me è ben lontano dall'esser evidente che Robespierre, predicando
libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella
loro ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano
stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza
distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell'autoritá, che Macchiavelli
chiama “pericolosissima”, libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell'uomo
nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi
dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá
divenir tirannici. Né l'uno né l'altro comprese la massima o di non offender
nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar
loro cagioni di quietare e fermare l'animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne'
cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che
volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l'impero col terrore; non eran
militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla
medesima sostituita l'inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú
crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa
previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide,
che chiamar si potrebbe “decemvirale”, è la piú terribile di tutte, ma per
buona sorte è la meno durevole.
Per
gli uomini che riflettevano, il “moderantismo” non era che uno stato
intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la
lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto
del suo riposo. Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di
rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione;
ma era stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea
affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione sotto
Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto il Direttorio la sua
indipendenza(31).
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!
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