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Vincenzo Cuoco SAGGIO
STORICO SULLA RIVOLUZIONE
DI NAPOLI |
XXVIII
IMPOSIZIONI
Championnet,
entrando coll'armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due
milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era
assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense
depredazioni che il passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto
esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando
Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non lo
ritrattò; anzi stabilí quindici milioni per le province, a suo tempo.
Ma
chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un'imposizione
per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano
della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione
alla quantitá dei beni che nell'officio della decima trovavasi giá liquidata.
Si videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme
esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta
a chi avea sessantamila ducati all'anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi
ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era
piú giusto che dassero le prime l'esempio di contribuire con generositá ai
bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era imposizione fu
considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di
aristocrazia che taluno avea nel cuore. - Noi tassiamo l'opinione - risposero i
tassatori ad una donna che si lagnava della tassa imposta a suo marito, il
quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea perduto
tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l'affare una
massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di un'armata vittoriosa
e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all'arbitrio.
Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate e mal dirette;
quando anche evitate l'ingiustizia, non potete evitare il sospetto che
producono sul popolo gli effetti medesimi dell'ingiustizia.
Difatti
non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l'imposizione. Fu permesso di
pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu
nel tempo istesso il tesoriere, il ricevitore, l'apprezzatore; ed il popolo
credette che tutto fosse trafficato non colla bilancia dell'equitá, ma con
quella dell'interesse dell'esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo
credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una commissione
composta di persone superiori ad ogni sospetto.
Mentre
in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un
ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche
l'attrasso di ciò che doveano all'antico. Quest'ordine fatale dovette esser
segnato in qualche momento d'inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí
l'antico stile, lo stile di tutt'i governi: difatti fu un solo dei membri
componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa
certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli
altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una
rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima,
ed avea fatta sperare l'abolizione intera. La decima interessava piú la
capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá,
si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai
questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione?
In
Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de' principali della cittá e che conosceva gli
uomini, si oppose alla pubblicazione ed all'esecuzione dell'ordine. Egli ne
prevedeva le funeste conseguenze. Il governo non si rimosse; e quale ne fu
l'effetto? Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore
popolare.
Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell'energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni dei privati non turbino l'unitá delle pubbliche operazioni. L'esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell'esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de' popoli verso colui che ha vinto, e impongono al vincitore verso l'umanitá l'obbligo di un compenso infinito, che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
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