Solofra e la rivoluzione del 1799

 

Di Mimma De Maio

Versione in Bozza. In attesa di revisione definitiva.

 

1.       I solofrani che parteciparono al moto riformatore che precedette la rivoluzione del 1799.

2.       La partecipazione di Solofra agli eventi del 1799

3.       APPENDICE DOCUMENTARIA

 

 

 

I solofrani che parteciparono al moto riformatore che precedette la rivoluzione del 1799.

 

 

L’intellettualità solofrana da Napoli, dove aveva rapporti commerciali con Solofra, partecipò al movimento di idee nuove che preparò il ’99. Di tendenza moderata e riformista fu interessata a risolvere i problemi economici, a svecchiare le sue strutture e ad eliminare i privilegi che rendevano anchilosata la produzione con attenzione alle novità che venivano dalla Francia.

 

Fin dal Seicento ci furono solofrani che fecero parte del processo di rinnovamento cominciato in questo secolo, come il gruppo che si muoveva intorno all’«Accademia di amene lettere» creata nei saloni del palazzo Orsini da Pier Francesco Orsini, il futuro papa Benedetto XIII, cui appartenevano il giureconsulto e poeta Nicola Tura (senior), il medico e filosofo Traiano Maffei, Onofrio Giliberti, Gabriele Fasano (1645-1689), che a Napoli partecipò al moto di stimolo verso «studi che davano la prevalenza alle cose pratiche e alle innovazioni». Anche il naturalismo di vena popolare di Francesco Guarini (1611-1654) fa parte di questi tempi nuovi.

 

Ci furono solofrani che parteciparono in modo più diretto agli anni che precedettero la rivoluzione.

 

Costantino Vigilante, che fece parte del gruppo che si muoveva intorno al Tanucci e al re e che quindi agì nel moderatismo instaurato dal Borbone, dette il suo contributo a tutte le riforme attuate nel campo ecclesiastico, convinto che era necessario frenare il privilegio ecclesiastico che ostacolava lo sviluppo economico e fu impegnato come vescovo di Caiazzo in iniziative di progresso civile.

 

Giuseppe Maffei (1728-1812), che nella sua opera maggiore indagò le istituzioni del Meridione per capire la realtà napoletana su cui innestare l’azione riformatrice, diceva che ogni cambiamento doveva essere aderente alla realtà in cui si opera. Come professore all’Università e di una scuola privata contribuì alla diffusione delle idee nuove ed aderì al fervore che precedette il ’99, come Censore dei libri dette la possibilità a molti studi che venivano dalla Francia rivoluzionaria di avere accesso in Napoli, per tutto ciò subì la carcerazione durante la repressione, dopo la scoperta della prima congiura giacobina nel 1794, e la chiusura della scuola privata prima della fuga del re da Napoli all’arrivo dei francesi.

 

Massimiliano Murena (1728-1781), un moderato che pensava di rinnovare le strutture della monarchia e della religione con una mediazione tra tradizione e modernità. Non combatteva la religione in nome della ragione, come faceva una parte dell’Illuminismo, ma si poneva il problema del loro accordo. Per lui le azioni umane sono regolate da un diritto naturale, che viene prima di ogni organizzazione politica e giuridica e che l’uomo deve seguire e difendere (sono diritti naturali, dice, molti diritti umani persino quelli del commercio). La legge naturale indica al sovrano quali sono i suoi compiti («la salute dei cittadini», «l’esercizio della giustizia», «il buon governo», «la tutela del popolo») e impone al suddito di combattere tutto quello che è contro natura, quindi i privilegi che diventavano soprusi, le disuguaglianze e tutte le prevaricazioni esistenti.

 

Non meno importanti sono altri rappresentanti che in diversi modi dettero un contributo all’atmosfera di rinnovamento che visse la Napoli prerivoluzionaria: Felice Giannattasio (1759-1849), studioso delle scienze matematiche, giansenista per gli ideali di riforma dello Stato, professore all’Università e in una scuola privata dove portò l’esperienza dei suoi viaggi in tutta Italia e della sua amicizia col naturalista francese Daniel Daubenton e dove diffuse la conoscenza di Newton,  subendo durante la rivoluzione il sospetto e la chiusura della scuola; il sacerdote Matteo Barbieri (1743-1789) che da insegnante improntò i giovani alle nuove idee e fece conoscere coloro che avevano partecipato allo sviluppo delle scienze matematiche e filosofiche nel meridione; Marianna Vigilante che studiò le scienze nuove (quelle naturali, la fisica e l’astronomia) e tradusse nel 1789 gli Elementi di geografia e di Astronomia di Isacco Watts; Leonardo Santoro (1764-1853) che fu innovatore coraggioso delle tecniche della chirurgia, mettendo in atto una vera rivoluzione; Gaetano Giannattasio (1777-1842) che divenne esperto di diritto amministrativo per dare uno strumento a coloro che governavano, tanto che i napoleonici lo vollero tra i loro collaboratori; il matematico Giovan Battista Ronchi (1770-1840) che fu autore di varie invenzioni tecniche; il medico e chimico Maria Salvatore Ronchi, insegnante all’Università proprio nel decennio che va dalla rivoluzione francese a quella napoletana; il fisico Tommaso Fasano, professore all’Università dal 1759 al 1797; l’abate Niccolò Giliberti che in un’orazione, recitata all’Accademia degli Oziosi, fece una pungente satira contro i «modi del secolo» criticati dagli innovatori.

 

Accanto a questi solofrani bisogna citare i tanti che a Napoli frequentavano le scuole in cui «si leggevano e si commentavano le opere più significative dell’illuminismo napoletano e degli scrittori dei tempi nuovi», che si scuotevano da tutto ciò che era passivamente accolto e che venivano a contatto, spesso insieme alle loro famiglie, col movimento giacobino che all’inizio non era rivoluzionario e messo all’indice, in cui trovavano riscontri col moto antifeudale solofrano, che conobbero, nel fervore di rinnovamento che precedette la rivoluzione, la collaborazione tra la monarchia e i riformatori, soprattutto seguirono le innovazioni della regina Carolina tese a svecchiare l’economia e si trovarono concordi con tutto ciò che significava trasformazione dell’antico regime. Parteciparono insomma al moto riformatore, alcuni accettando la monarchia illuminata, altri sentendo l’insofferenza verso ogni forma di sudditanza. È tutta una classe intellettuale che, se non ha lasciato scritti, pure prese parte e visse questo nuovo modo di sentire comunque ebbe sentimenti riformatori creando quella che Croce chiama la «prima e fondamentale riforma», di «aver formato se stessa», riforma che esportava nel paese natio dove aveva ruoli dominanti.

 

 

 

La partecipazione di Solofra agli eventi del 1799

 

 

Nella prima insurrezione del 1794, nata negli ambienti dell’Università e repressa con una serie di arresti, ci fu quello del citato Giuseppe Maffei, professore all’Università. Furono coinvolti, di Solofra, anche il sacerdote Alessio Ardolino coi fratelli artigiani e mercanti Gaetano e Michele e il figlio di quest’ultimo Biagio; l’artigiano del battiloro Nunzio Giannattasio; Carlo Grasso, un negoziante di pelli con rapporti commerciali con la Puglia; il conciatore Gaetano Trombone col fratello Giuseppe; l’artigiano Michele d’Andri; Salvatore Papa, figlio del mercante Filippo; alcuni membri della famiglia Garzilli, mercanti e finanziatori che avevano residenza e attività a Napoli, tra cui Serafino che a Napoli era segretario della curia arcivescovile; infine l’avvocato Giuseppe Vigilante, notaio della corte di giustizia di Napoli.

Altri giacobini solofrani  - i frati del convento di S. Agostino, il fisico Antonio Garzilli, un consistente gruppo a S. Agata -  erano in collegamento con quelli di Montoro attraverso la famiglia del più famoso Vincenzo Galiani (ucciso nella repressione del 1794) imparentata con i Landolfi di Solofra per il matrimonio di Ferdinando con Maddalena Pepe, parente della madre del Galiani, Saveria Pepe.

Le speranze giacobine si propagarono nel basso ceto artigiano, che attendeva qualsiasi evento che avrebbe potuto cambiare le cose, e tra i «bracciali» (lavoratori dei campi e delle botteghe artigiane), oppressi dalle prepotenze dei padroni e che guardavano di buon occhio chi faceva prevedere che fosse venuta l’ora del riscatto e che dava alla loro partecipazione il colore di una lotta contro il padrone. Questo aspetto si può cogliere nell’affermazione «nui avimmo le braccia» detto da un operaio al padrone, il quale esprimeva la paura, una volta istituita la repubblica, di diventare «pezzente». Anche se questo atteggiamento è quello di chi non ha niente da perdere (per questo si sente forte nei riguardi del padrone, contro la cui rovina oppone le sue «braccia»), che non è ancora coscienza proletaria, siamo su quella strada (vale la pena considerare che l’area solofrano-santagatina esprimerà in modo autonomo e forte, un secolo dopo, un ampio movimento socialista).

Diversa fu la posizione degli appartenenti al ceto colto, consci della necessità improrogabile di anche radicali cambiamenti, ma che dovevano colpire la feudalità con l’abolizione dei privilegi, non diminuire l’autorità del re, né stravolgere lo stato delle cose. Si era poi incerti sul «come rinnovare» per i forti interessi economici messi in gioco, per cui appena la situazione fu presa in mano da elementi della ceto inferiore e appena si profilarono forti rischi, questo ceto divenne antirivoluzionario. Pur tuttavia molti suoi elementi si schierarono senza preclusioni dalla parte della rivoluzione.

Quando, dopo il 1794, le cose precipitarono, tra i delusi del voltafaccia fatto dal re, oltre al Maffei, ci furono il Giannattasio e il Santoro che furono guardati con sospetto e si videro bloccate innocue attività di progresso culturale e scientifico.

Solofra, per via dell’attività mercantile che diventava pericolosa in un simile frangente, fu tra quelle terre verso cui si volsero le attenzioni della corona. Fu infatti inviato un corpo di fucilieri che si insediò nel castello, e furono posti sotto stretta vigilanza coloro che avevano più diretti contatti con Napoli, soprattutto i mercanti e i viaticali che formavano l’anello di unione tra la capitale e questa zona dell’interno, né mancarono azioni contro chi aveva una qualche dimestichezza con la Francia o azzardava idee repubblicane o anche sembrava solo tale.

In questa situazione giunse, nel settembre del 1798, l’obbligo di arruolarsi nell’esercito del re, a cui Solofra partecipò con 50 «miliziotti» non senza episodi di renitenza.

Forte fu la delusione quando si seppe, nel dicembre di quell’anno, che il re era fuggito in Sicilia, lasciando aperta la porta ai francesi che venivano dal Lazio, a cui se ne aggiunse un’altra ancora più grave, che fu una pugnalata al cuore della Solofra mercantile, quando si seppe che sulle navi del re era stato imbarcato anche tutto il denaro dei Banchi per cui ai mercanti solofrani, che sui Banchi poggiavano la loro attività, erano rimaste «fedi di credito» che non potevano essere cambiate.

Con questo spirito fu accolta l’entrata dell’esercito francese nel napoletano, gennaio 1799, che portò alla liberazione dai castelli della zona  - Solofra, Montoro, Sanseverino -  dei prigionieri politici tra cui c’era Ferdinando Landolfi per sospetti legami con i Galiani di Montoro, di cui, come si è detto era parente. E con questo spirito furono accolti i repubblicani delle «municipalità» da coloro, una parte consistente, che erano spinti dalla prospettiva degli auspicati cambiamenti, mentre non mancarono quelli  che erano animati da una moderata speranza.

La truppa repubblicana, guidata da Eleuterio Ruggiero, giunse da Turci, e vi «sostò alcuni giorni prendendo possesso del palazzo Orsini» e impiantando, il 26 gennaio, l’albero della libertà nella piazza centrale, con il concorso di gruppi giacobini o di simpatizzanti guidati dal medico Antonio Garzilli alla presenza di una folla in parte partecipe ed in parte attenta osservatrice. Seguirono momenti di esaltazione che coinvolsero «i frati agostiniani che accolsero nelle loro sale il Ruggiero e i suoi comandanti», abbandonandosi a gesta inconsulte e a «brindisi non decenti» fatti durante un banchetto seguito alla presa di possesso della municipalità solofrana.

A S. Agata, che fin dall’anno prima era diventata Universitas autonoma col distacco da Serino, si formò spontaneamente una municipalità: non ci fu come a Solofra la defenestrazione di un’amministrazione che rappresentava il vecchio, ma una sorta di continuità (lo stesso sindaco precedente fu uno della municipalità) il che mise in evidenza l’esistenza di una forte cellula rivoluzionaria in questo casale.

Intanto la rivoluzione cominciò a mostrare il suo volto: al posto dei cambiamenti sperati ci furono disordini, violenze e sopraffazioni. I francesi si mostrarono veri conquistatori quando per esempio si videro le distruzioni arrecate al palazzo dell’Orsini ed emersero tutte le contraddizioni di un modo di pensare diverso, quando si videro i frati di S. Agostino accogliere con feste e banchetti l’esercito dei «liberatori» ed uno di essi gridare nelle strade che «voleva ammogliarsi e voleva non una moglie ma due». Era un pensare lontano ed estraneo che non poteva far breccia in situazioni che conoscevano la solidità dalla tradizione, un pensare che non aveva forza e che sapeva tanto di un’altra sottomissione. Lo spirito conservatore della società solofrana trovò modo in questo frangente di consolidarsi.

Si avvertì subito che l’esercito non era organizzato, come quello che da Solofra scese a Montoro per «democratizzare» quei paesi, che non erano finiti i gravami insopportabili che anzi aumentarono rendendo più pesante la siccità di cui soffrì tutta la zona, che c’erano ancora atti di violenza, predazioni nelle chiese, nelle case e nei campi fatte dalle truppe francesi, da briganti, ma anche da «varie persone di ogni età e condizione». Poi giunse la notizia da Pompei e da Ercolano che i francesi avevano cominciato ad asportare tutti i reperti archeologici e furono portate le rimostranze a Leonardo Santoro che aveva studiato i preziosi pezzi della medicina romana venuti alla luce da poco.

Per questi motivi, quando a pochi giorni dalla costituzione della repubblica cominciarono ad arrivare notizie di insofferenze e poi dell’insurrezione di Forino del 3 febbraio, il fermento fu forte. A Solofra la situazione era saldamente in mano ai municipalisti, anche perché la feudataria, una Caracciolo di Avellino, aveva permesso l’arruolamento di reclute per l’esercito repubblicano. A S. Agata invece gruppi antirivoluzionari abbatterono l’albero della libertà, a cui risposero vari centri del montorese dove si diceva che era giunta da Montella, financo una lettera del re.  

Per sedare questa situazione di forte fermento e contrapposizione fu inviato, il 16 febbraio, da Napoli Ettore Carafa con un gruppo di 800 soldati, che aggravò le cose perché costoro avevano bisogno degli alloggiamenti che erano una piaga per la popolazione che doveva fornire loro vitto e alloggio e perché alimentò un clima di persecuzioni e di guerra civile nelle campagne dove scorrazzavano le bande armate. In questo periodo in diversi paesi varie volte furono abbattuti gli alberi della libertà e poi ripiantati, a S. Agata questo avvenne ancora una volta, mentre in località «chiusa», nel marzo, si ebbe uno scontro con le truppe del Duca d’Andria, che fu a favore delle forze della controrivoluzione.

Intanto giunse la notizia che il cardinale Ruffo con l’esercito borbonico saliva dalla Calabria per cacciare i francesi, allora i rivoluzionari si prepararono all’offensiva, di questi fecero parte i  repubblicani santagatini che disarmarono il paese requisendo «80 fucili, armi bianche» e si diressero verso Avellino, altri, tra cui i solofrani, andarono a Salerno, dove c’era un vascello inglese, a sostenere l’attacco dei francesi.

La partenza degli elementi rivoluzionari più agguerriti dette forza alla controrivoluzione in tutti i paesi della zona  - iniziò il 20 aprile -  dove furono abbattuti gli alberi della libertà, furono suonate le campane a gloria e caddero diverse municipalità. Quelle di S. Agata e di Solofra furono abbattute negli ultimi giorni di aprile.

Le truppe controrivoluzionarie («realiste» o di «massa cristiana»), guidate dal colonnello Costantino de Filippis, si accamparono (dal 25 aprile) tra Serino e Montoro con varie postazioni e col grosso a Piazza di Pandola di Montoro. A S. Agata c’era quella comandata da Mariano d’Arienzo, a Solofra, su Turci, c’era il comandante Pasquale Ronca, a Montoro il colonnello Pasquale Grimaldi, tutte persone del posto.

 Questa era la situazione quando giunse la notizia dell’avvicinamento di una colonna repubblicana («una forte truppa di Francesi e Patrioti»), guidata dal generale Matera, proveniente da Nocera. Da Montoro fu richiesta, tanto a Solofra che a S. Agata, gente armata, per cui «furono suonate le campane all’armi, si armò la popolazione, sacerdoti secolari e regolari, galantuomini e plebei». Nella zona si ebbe uno primo scontro a Montoro, poi ci fu la battaglia di S. Angelo di S. Severino (detta anche di Forino), il primo maggio, quando furono respinti «Francesi e Patrioti», mentre le truppe del De Filippis, sconfitte a Monteforte, furono costrette a ritirarsi tra i monti di Serino e di Giffoni. A Montoro rimase una truppa del re che fu mantenuta dalle popolazioni: a Solofra il 20 maggio furono raccolte delle somme tra gli «Amministratori» e i «galantuomini benestanti».

Mentre ciò avveniva nelle campagne, la truppa controrivoluzionaria solofrano-santagatina partecipò agli scontri alle porte di Napoli. Diversi solofrani furono incarcerati ai Granili, mentre a Castel Capuano e poi a Castel dell’Ovo fu carcerato il figlio del Maffei, Giacinto, studente appena diciassettenne trasferito poi a Gaeta e «nella Real Fabrica nuova del Ponte della Maddalena» fu ristretto Michele di Agnello (aveva sposato una Guarino).

Le municipalità rivoluzionarie del solofrano-montorese erano dunque cadute prima dell’arrivo del Ruffo, la ragione è da ricercare nel fatto che i ceti artigiano-contadini erano impauriti dai saccheggi e dalle devastazioni delle truppe francesi e dei vari repubblicani di turno. La partecipazione massiva alla controrivoluzione si inquadra benissimo nelle caratteristiche dei ceti solofrani che avrebbero accolto la rivoluzione se questa si fosse mantenuta su binari moderati ma ciò non poteva avvenire per un moto che aveva preso le caratteristiche francesi.

Come in ogni guerra civile la situazione fu estremamente confusa, ci furono ritorsioni, rivalse, esplosero odi e contrasti locali, furono impartite condanne senza la possibilità di difendersi, considerevoli furono i danni ai beni delle persone compromesse, che subirono saccheggi e incendi e le famiglie persecuzioni. Spesso ci si faceva giustizia da sé come successe ai Caraviello che subirono l’incendio della loro casa nel novembre del ’99 da alcuni viaticali di Nusco.

Furono condannati  all’esilio a Marsiglia Serafino Garzilli e Nunzio Giannattasio, mentre Giuseppe Trombone, il fratello di Gaetano, oltre ad essere incarcerato ebbe i beni sequestrati, così pure gli Arduino, Gaetano e Michele, condannati per «reità di stato» col sequestro dei beni, tra i condannati ci furono pure Bartolomeo e Giuseppe Vigilante.

Solofra subì la repressione messa in atto nelle province ad opera di incaricati reali, detti «visitatori», che furono il centro di vendette private o furono essi stessi soggetti di repressione e potettero farlo perché aiutati da persone del posto. I collaboratori del visitatore Ludovici, a Solofra esiliarono Carlo Grasso e Antonio Garzilli,

Il bilancio della rivoluzione fu negativo per Solofra («il più ricco paese della provincia»), che vide distrutte le sue risorse economiche. I finanziatori subirono forti perdite non solo per la distruzione delle loro fedi di credito nei Banchi napoletani quanto per la effettiva perdita di intere partite di arrendamenti  («oltre cinquecentomila ducati») che furono letteralmente cancellate. Un danno considerevole fu quello prodotto all’artigianato del battiloro solofrano che non potette più lavorare questo metallo, perché da Napoli, che ne aveva la privativa, fu imposto, da parte dei battiloro napoletani (tra cui molti solofrani) che formavano una forte corporazione, che si lavorasse nelle botteghe solofrane solo l’argento. Il danno fu irreversibile perché le botteghe furono costrette a chiudere e questa arte, che dopo la concia, era la più rappresentativa, decadde definitivamente tanto che a metà ottocento c’erano a Solofra appena cinque botteghe che battevano solo l’argento (contro le cento botteghe di cinquanta anni prima). Ancora si perdette la lavorazione della pergamena, che prima della rivoluzione era tanto fiorente da meritare la segnalazione del Galanti che cita questo come il prodotto «più qualificante» della concia solofrana. Restava la concia pur essa fortemente ridotta tanto che a metà ottocento le botteghe erano solo una trentina rispetto alle oltre sessanta di prima della rivoluzione.

Ancora un segno della situazione di stallo e di arretratezza che si visse dopo la rivoluzione fu quella delle strade, tra tutte basta citare la vicenda della strada di Turci, che permetteva il fiorente commercio con la Puglia, via Atripalda, della quale prima della rivoluzione era stato progettato il rifacimento con la partecipazione predominante della Universitas solofrana rispetto alle altre interessate e che in seguito agli eventi rivoluzionari fu abbandonata a sé (sia il progetto che la strada), tanto che in alcuni periodi dell’anno rimaneva non praticabile.

Infine bisogna citare il «prestito forzoso», che l’Universitas fu costretta a contrarre nel settembre del 1799, con mutuo ad interesse scalare per «riparare» alle spese fatte per «sostenere le milizie di Ferdinando IV nella riconquista del regno», un debito estinto soltanto nel 1834.

Si spiega così perché a Solofra lo spirito rivoluzionario covò sotto la cenere, accogliendo le istanze rivendicative che provenivano dalle zone più sensibili, tanto che qui si formarono ben quattro vendite carbonare che daranno un contributo non indifferente ai giorni della rivoluzione carbonara.

 

(Da M. De Maio, Solofra e la rivoluzione del 1799, studio presentato al Convegno "Avellino e l'Irpinia nel 1799" del 19 novembre 1999).

 

 

 

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